UN’IDEA PER FINIRE L’ANNO (o per cominciarlo).

Sarò breve, perché ho mille cose da fare. Ma ve lo voglio dire.
Ho preparato un giochetto per finire l’anno, da fare dopo la cena e prima che comincino i botti. In un cestino ho messo tanti cartoncini con scritto
IO RINGRAZIO PER...

e li distribuirò ai presenti.

Ognuno dovrà scrivere alcune cose per cui ringrazia o il Signore o qualcuno per qualcosa. Lo firmerà e poi tutti leggeranno il loro biglietto a alta voce.

A qualcuno spunterà un lacrimuccia e per qualche ringraziamento scoppierete in una bella risata. Provateci e sarà un successo.

Io su un cartellone dovrei scrivere le migliaia di nomi dei miei amici e fan che mi seguono e che mi dicono che mi vogliono bene. Grazie a tutti e buona fine del 2009 e buon 2010!

Ci sentiamo l’anno venturo!

UNA BUONA MAMMA CHE NON CAPIVA TUTTO

“I miei genitori non mi capiscono!”

Me lo hanno detto tanti adolescenti, maschi e femmine, e, a volte, da giovane l’ho detto anch’io (naturalmente fra me e me, dato che nessun tipo di ribellione era permesso nella mia famiglia).

È normale che sia così. Fra i genitori e i figli corrono gli anni di una generazione e, in una generazione, le cose cambiavano anche ai miei tempi. Figuriamoci oggi. Tutto va molto più celermente. I figli spesso, per certi versi, ne sanno più dei genitori e certamente si intendono più di loro di computer e telefonini.

Quella che manca nei ragazzi, oggi come ieri, è l’esperienza che si sviluppa negli anni. Ma loro non se ne curano.

Anche una mamma nel Nuovo Testamento non sempre capiva suo figlio, il quale ne sapeva molto più di lei. Era Maria, la mamma terrena di Gesù.

Aveva rischiato un bel po’ per averlo, dopo che un angelo del Signore le aveva detto che lo avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo e che sarebbe stato il Figlio di Dio stesso. Lei aveva capito di essere oggetto di una grazia speciale e aveva accettato quella realtà incomprensibile con grande umiltà, dicendo all’angelo: “Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola”.

Ma la situazione non era facile. Come dirlo a Giuseppe, il suo fidanzato? Le avrebbe creduto? L’avrebbe denunciata come infedele? Cosa avrebbe detto la gente che l’avrebbe vista col pancione. Secondo la legge ebraica avrebbe anche potuto essere ripudiata e lapidata.
Dio la protesse, rassicurò Giuseppe per mezzo di un sogno e il Bambino nacque a Betlemme, esattamente come aveva predetto l’antico profeta Michea.

La vita di Maria e Giuseppe non fu tranquilla. Quando Gesù aveva circa due anni, dovettero emigrare in Egitto, per sfuggire alla persecuzione del re Erode, che voleva far morire il bambino. Quando poterono tornare in Israele, andarono a abitare a Nazaret, da cui provenivano.

Finché Gesù non ebbe trent’anni, le cose andarono tranquille. Giuseppe e Maria ebbero altri figli e figlie (Matteo 13:55,56). Gesù era un figlio esemplare, aiutava il padre nella bottega, frequentava la sinagoga. L’unica volta che aveva fatto stare in pensiero i suoi era quando aveva dodici anni. La famiglia era andata a Gerusalemme per la pasqua e, al ritorno, i suoi genitori non lo avevano più trovato.

“Dov’è Gesù? Dove non é? L’avete visto?”

Maria e Giuseppe tornano a Gerusalemme e trovano il loro ragazzo che discuteva coi dottori nel tempio. Maria lo rimprovera gentilmente e lui risponde che doveva stare nella “casa di suo Padre”. Mah...

Quando ha 30 anni, Gesù va via di casa e va a farsi battezzare nel Giordano da suo cugino Giovanni il Battista. Poi si mette a predicare, a fare miracoli, a chiamare dei discepoli. E come parlava bene!

Però, così pensavano in famiglia, esagerava! Non dormiva, mangiava quando poteva, la gente non gli dava pace. A Nazaret avevano addirittura cercato di ammazzarlo. Quello che è troppo, è troppo!

Maria e i fratelli decidono che era andato fuori di testa e lo vanno a cercare (Marco 3:21) in una casa stipata di gente, dove aveva guarito un paralitico.

“Tua madre e i tuoi fratelli, ti cercano!” dicono a Gesù. Gesù risponde: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?... Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre” (Marco3:33-35).

Gesù prende le distanze dalla sua famiglia umana. Era già successo una volta, nella cittadina di Cana in Galilea, in occasione di un matrimonio a cui erano stati invitati Maria, Gesù e i discepoli. Era venuto a mancare il vino e Maria lo aveva detto a Gesù.

Gesù le disse delle parole strane: “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta” (Giovanni 2:4). Per tutta risposta, Maria diede un ordine molto preciso ai servi: “Fate tutto quello che vi dirà” (v. 5).

Sono le uniche parole di Maria riportate nei Vangeli e pronunciate dopo che Gesù aveva cominciato il suo ministero. Sono tutte un programma. Descrivono la vita di tranquilla ubbidienza di Maria, un’ubbidienza a cui esorta tutti noi.

“Fate tutto quello che Gesù dirà.” Lo facciamo?

Maria, come del resto i discepoli, non capiva appieno le azioni e le parole del Figlio, ma sapeva che quello che diceva era giusto. E che doveva essere ascoltato.

Rimase nell’ombra e ebbe il grande coraggio di osservare l’agonia e la morte di Gesù sulla croce (Giovanni 19:25). Dopo la resurrezione e l’ascensione di Gesù, stava nel tempio, pregava e aspettava, con gli apostoli e i suoi figli, la discesa dello Spirito Santo (Atti 1:14).

Dopo questo, non sappiamo altro di lei. È stata una donna, favorita dalla grazia, certamente. Ma è stata anche una normale madre di famiglia, con le sue preoccupazioni e i suoi dubbi. Non è nata senza peccato, il suo corpo non è stato assunto in cielo, come insegna la tradizione della chiesa cattolica, non è vissuta senza sbagliare.

Il suo corpo è in terra e aspetta la resurrezione. La sua anima è in cielo.

Al ritorno di Cristo, risusciterà e andrà a incontrare suo Figlio, Colui che lei stessa ha chiamato “Dio mio salvatore” (Luca 1:47).

Mentre viveva, capiva in parte. Un giorno, come tutti i credenti, anche lei comprenderà pienamente l’estensione della grazia largita da Dio Padre, per mezzo del sacrificio di suo Figlio.

La sbandata della tigre

Così anche Tiger Woods, il mago americano del golf, che vinceva tornei e avrebbe saputo infilare una pallina anche nella crina di un ago, marito di una splendida modella bionda, ha avuto la sua sbandata finale, dopo un numero consistente di altre. Una volta o l’altra, succede a tutti i grandi. Sembra che i soldi e la fama facciano loro credere di poterla fare franca su tutto e tutti.
Ha avuto, in ogni modo, il buon gusto di ritirarsi dalla professione, chiedere perdono e cercare di rimettere insieme la famiglia.

Non voglio però parlare necessariamente di Woods, ma dei commenti sul suo caso che ho sentito in TV. Secondo i giornalisti italiani, quello che lo ha rovinato è stato il fatto che è andato contro i principi dei benpensanti e dei tradizionalisti americani e che la mentalità protestante non tollera certe trasgressioni. Perciò ha dovuto lasciare lo sport.

Perciò, se non vivi in America e se non pratichi una religione da bigotti, non hai problemi. L’infedeltà, l’immoralità e la vita dissipata non turbano più chi è largo di idee. Dieci amanti? Vuol dire che ci sai fare!

Il problema è che Dio non è né benpensante, né tradizionalista, né protestante: è santo e il peccato non gli piace. Nella sua Parola, la Bibbia, dice: “Sappiate che il vostro peccato vi ritroverà”. Se non in questa vita, dopo la morte. E quello che Dio dice, lo fa.

Il rimedio, allora, non è lasciare lo sport o i milioni che esso può fruttare, cercare di raccogliere i pezzi di una vita sregolata e raffazzonare il rapporto con la moglie. E neppure è fare buoni proponimenti per il futuro, decidendo di cambiare vita.

Il rimedio è uno solo: diventare una “nuova creatura”, umiliandosi davanti a Dio, chiedendogli perdono e credendo che solo in Cristo c’è la salvezza. Naturalmente, facendo sul serio e capendo che la vita cristiana,significa vivere con l’impegno di imparare da Cristo e di vivere facendogli piacere.

UN CUORE BUONO E UNA RICHIESTA POCO SAVIA

Anni fa, la cosa che molte madri desideravano più di ogni altra per i loro figli, era un impiego sicuro, possibilmente un posto statale.

Dato che il Ministro Brunetta non era ancora in circolazione con la sua caccia agli sfaticati, una volta avuto quel posto, ci si poteva mettere a dormire fra due guanciali. Lavoro e pensione erano assicurati e la mamma si poteva mettere tranquillamente alla ricerca di una buona moglie per il figlio e di un giovane per “sistemare” le figlie.

Anche una mamma, nominata nella Bibbia, aveva un po’ la stessa mentalità. Non c’è da stupirsene: i genitori vogliono assicurare un futuro sicuro ai loro figli.

La donna si chiamava Salome, abitava in Galilea, aveva un marito, proprietario di una barca, con degli operai che lavoravano per lui e due figli che collaboravano nell’azienda. Nell’insieme la famiglia se la passava piuttosto bene. Erano ebrei e timorati di Dio.

Un giorno, Gesù passò sulla riva del lago, vicino alla barca di famiglia, si fermò, vide i due figli che rassettavano le reti, e li chiamò perché lo seguissero e diventassero “pescatori di uomini”. I due, Giacomo e Giovanni, non ci pensarono neppure un momento e si unirono immediatamente a quel Maestro che faceva miracoli e predicava meravigliosamente.

Niente è detto del padre, il quale probabilmente non fece nessuna obiezione alla decisione dei figli, né della madre. Questa la troviamo solo più tardi, insieme con un gruppo di donne, che seguivano Gesù e i discepoli e prestavano assistenza al gruppo, andando di villaggio in villaggio (Luca 8:2; Marco 16:40,41). Evidentemente, Salome aveva creduto anche lei in Gesù, aveva capito che era il Cristo e voleva collaborare con Lui come poteva e sapeva.

Non è detto se la sua assistenza sia stata costante o saltuaria. È certo che, quando il Signore stava andando a Gerusalemme e si avvicinava il momento in cui avrebbe dato la sua vita sulla croce, essa era con i discepoli e col Signore.

Gesù, poco prima, aveva detto delle parole solenni. “Ecco noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi sacerdoti e degli scribi; essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito, flagellato e crocifisso; e il terzo giorno risusciterà” (Matteo 20:18,19).

Sia i discepoli sia chi era vicino a Gesù comprendeva che le cose stavano precipitando, ma la loro comprensione era nebulosa. Gesù parlava della sua morte, ma aveva parlato anche del suo regno e della resurrezione...

Salome si avvicina al Signore per fargli una richiesta. Probabilmente pensava: “In qualunque modo vadano le cose, Gesù è il Messia, il Cristo di Dio, deve stabilire il suo regno... i miei figli, insieme con Pietro, sono fra i suoi discepoli più speciali... hanno visto la trasfigurazione... sono stati con Lui quando ha risuscitato la figlia di Iairo... un posto speciale lo meritano...”.

La donna, insieme coi figli, si inginocchia davanti a Gesù e Lui le chiede cosa vuole. “Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra, nel tuo regno” (Matteo 20:21).

Sembrava una richiesta logica, anche se piuttosto pretenziosa e esagerata. La mamma si preoccupava di “sistemare” i figli con un buon posto statale, nel regno futuro. Ma il Signore, con gentile fermezza, le rispose che l’assegnazione delle posizioni spettava solo a suo Padre e che i suoi due figli avrebbero dovuto bere anche loro il calice della sofferenza (infatti, Giacomo morì martire per mano di Erode (Atti 12:1) e Giovanni finì la sua lunga vita esule nell’isola di Patmo). Poi Gesù ammonì che chi voleva avere un posto importante nel suo regno avrebbe dovuto essere il servo di tutti, esattamente come aveva fatto Lui.

Non si sa se Salome chiese perdono per la sua impertinenza, ma certo capì la lezione. Continuò la sua strada verso Gerusalemme e certamente vide tutta la trafila del processo di Gesù, la flagellazione, gli scherni, l’infamia e osservò la crocifissione del Signore da lontano con altre donne. E la mattina della resurrezione andò al sepolcro portando aromi per imbalsamare il corpo del Signore e trovò la tomba vuota (Matteo 27:55,56; Marco 16:1).

Dato che Gesù affidò a Giovanni Maria, sua madre, forse Salome prese anche cura di lei. A volte, ho sentito dei predicatori biasimare Salome, per la sua richiesta. È vero ha sbagliato, ma ci sono anche alcune lezioni importanti da imparare da lei.

  • Amava il Signore e lo ha servito praticamente come poteva e sapeva.
  • Non ha trattenuto i suoi figli dal seguire il Signore, sia nel periodo del successo, quando molti osannavano il Maestro, sia nei momenti bui che sembravano che il suo ministero fosse una sconfitta totale e il pericolo era grande anche per i suoi seguaci. Un buon esempio da imitare.
  • Non ha avuto paura di identificarsi coi seguaci di Cristo davanti alla folla inferocita che chiedeva la crocifissione di Gesù (a differenza dei discepoli, che, ad eccezione di Giovanni che stava con Maria vicino alla croce, fuggirono per paura dei Giudei).
  • Ha continuato a amare il Signore, volendo almeno ungere di profumo il suo corpo esanime. Ed è stata ricompensata diventando una testimone della resurrezione.
Quanto alla sua richiesta avventata, è un neo comprensibile. Quale mamma non desidera che i suoi figli siano apprezzati e riconosciuti?


Perciò impariamo a rallegrarci se li vediamo seguire il Signore anche umilmente, disposti a essere i servi di tutti.

INCULCA AL FANCIULLO LA VIA CHE DEVE TENERE

“Glielo raccomando, fratello Paolo, è un giovane bravo e ama tanto il Signore. Ma non è molto forte. Veda che mangi e che si riguardi...”.

Chi parlava era Eunice, una credente fedele e premurosa. Insieme con sua madre Loide, stava congedando suo figlio, che stava partendo per un lungo viaggio missionario con l’Apostolo Paolo. Le due donne avevano gli occhi lucidi, ma erano anche riconoscenti (e forse fiere) che Paolo avesse scelto il loro Timoteo, perché lo accompagnasse nella sua opera di proclamazione del Vangelo di Cristo.

C’era in loro una certa ansia, è vero, perché Timoteo non era un fusto e loro lo avevano sempre curato con grande attenzione. Poi i viaggi erano pericolosi e faticosi. Ma il loro impegno nell’allevare quel ragazzo nelle vie del Signore stava dando dei frutti. Timoteo era considerato un discepolo, uno che imparava e seguiva il Maestro, e tutti i credenti ne dicevano un gran bene. E ora era un missionario a tutti gli effetti. Avrebbe accompaganto Paolo e chissà quante altre cose avrebbe imparato!

Chi ha letto il Nuovo Testamento sa che Timoteo seguì Paolo, servendolo come un figlio, ricevette degli incarchi importanti e fu fedele al Signore a cui si era consacrato.

Era cresciuto a Listra, una città dell’Asia Minore, una colonia romana non di grande importanza, piuttosto remota, ma ben difesa da montagne.

Suo padre era greco, la mamma e la nonna erano giudee e conoscevano bene le Sacre Scritture. L’ambiente della città era pagano e, data la situazione di famiglia e la cultura del posto, le due donne avevano curato molto l’istruzione spirituale del loro figlio e nipote.

A un certo punto, erano arrivati in città due predicatori che annunciavano la buona notizia della salvezza per grazia, per mezzo di Cristo, il Messia. Avevano fatto anche un grosso miracolo: avevano guarito uno zoppo nel nome di Cristo. Era uno che non aveva mai camminato e che ora camminava!

Al che, la popolazione decise che i due fossero Giove e Mercurio, che fossero scesi in terra e avessero operato la guarigione. Immediatamente, il sacerdote del tempio di Giove organizzò una bella processione con l’intenzione di sacrificare delle vittime in onore dei due “dei”, che però rifiutarono gli onori umani e invece predicarono l’Iddio vivente e vero.

Molti si convertirono e c’è chi pensa che fra loro ci fossero anche Loide, Eunice e Timoteo. Fatto sta che, quando Paolo ritornò a Listra dopo un certo tempo, trovò un bel gruppo di credenti in quella città. E, quando partì, prese con sé Timoteo.

Non si sa più nulla della nonna e della mamma di Timoteo, ma il loro esempio è importante. Hanno curato non solo il corpo, ma anche l’anima del ragazzo che Dio aveva affidato loro.
L’ambiente pagano non era favorevole. Il padre di Timoteo non era credente. Forse viaggiava lontano dalla famiglia, forse era già morto. Il piccolo gruppo di credenti che si era formato era minacciato dai Giudei ostili al messaggio di Cristo.

Sarebbe stato facile nascondersi, far finta di niente, evitare problemi. Invece no, Timoteo fu pronto a seguire Paolo e la mamma e la nonna non lo impedirono.

Oggi, l’ambiente in cui i nostri figli e nipoti crescono è tanto pagano quanto quello in cui crebbe e visse Timoteo. Se non di più. Le pressioni a cui i ragazzi sono esposti sono forti. La TV, il consumismo, l’attrazione della droga, l’insegnamento della scuola sono tutto fuorché cristiani.

Che fare? Fare quello che hanno fatto Loide e Eunice e poi Paolo. Istruirli fin da piccoli nella Parola di Dio e dare loro un esempio di fedeltà e coerenza che non dimenticheranno.

IL CORAGGIO DELL’UBBIDIENZA

La situazione in famiglia era abbastanza strana. Un marito e due mogli, come si usava a quel tempo; parecchi figli da una e nessuno dall’altra.

Una moglie che, ogni mese, vedendo che non era incinta, scoppiava in lacrime, mentre l’altra si pavoneggiava, mostrando il suo bel pancione ogni volta che aspettava un figlio e che non risparmiava commenti acidi sulla sterilità dell’altra.

La prima moglie si chiamava Anna e la seconda Peninna. Il marito, Elkana, si barcamenava fra le due. Voleva molto bene a Anna e cercava goffamente di mostrarle il suo affetto. Le dava una doppia dose di cibo e le diceva che il suo amore avrebbe dovuto farla contenta più dei figli che, evidentemente, non venivano.

Ma Anna non voleva cibo: voleva un bambino!

Abitavano a Rama e, ogni anno, Elkana saliva a Silo per adorare il Signore e portava con se le sue due mogli e i figli. I pianti di una moglie e le frecciate dell’altra erano costanti. Facevano parte del ménage.

Il sacerdote che custodiva il tempio si chiamava Eli e faceva il suo mestiere di religioso senza molto impegno. I suoi due figli erano dei perfetti delinquenti. Approfittavano dei fedeli che venivano a offrire sacrifici, si facevano dare le parti migliori delle vittime, anziché offrirle al Signore, e minacciavano chi si opponeva loro. Il padre diceva loro che facevano male, ma non faceva nulla per impedire la loro condotta. Come troppi genitori di oggi, non vi pare?

Durante una di quelle visite annuali, Anna non riusciva a guardare Peninna con tutti quei suoi bei figli, mentre mangiavano contenti, e scoppiò a piangere. Si rifugiò nel tempio e pianse, pianse e pianse ancora.

Poi fece una preghiera molto impegnativa: “Signore, se mi dai un bambino maschio, sarà tuo. Lo consacrerò a te finché vivrà”.

Eli le si avvicinò e le parlò col tatto di un elefante: “Hai bevuto troppo, vai fuori a smaltire la tua sbornia!”

Anna gli rispose con grande gentilezza: “Non sono ubriaca. Sono tanto triste e stavo pregando, spandevo la mia anima davanti a Lui”.

“Va in pace, e il Signore ti esaudisca!” le rispose Eli.

Dopo quella preghiera, qualcosa successe nel cuore di Anna: aveva messo il problema nelle mani del Signore, gli aveva fatto una promessa e ora il problema non era più suo. Era del Signore. Tornò da Elkana, chiese da mangiare (possiamo immaginare il viso meravigliato di quel marito?). Il suo viso era disteso e sereno.

Dopo un anno stringeva fra le braccia un piccolino, a cui mise nome Samuele. Lo allattò, lo curò con grande tenerezza, lo vide crescere. Quando fu divezzato, risalì al tempio e mantenne la sua promessa: lasciò a Eli il suo bambino, il suo tesoro tanto desiderato, perché imparasse a servire il Signore.

Ogni anno lo andava a trovare e gli portava una tunica nuova (intanto la sua vita era cambiata di molto, perché, dopo Samuele, ebbe ben tre figli e due figlie!). Come ci sarà rimasta Peninna che la prendeva tanto in giro?

Samuele, dal canto suo, cresceva e era gradito a Dio e agli uomini e il Signore era con lui. Il ragazzo non trascurava nessuna delle parole che Dio gli diceva e, a un certo punto, Dio gli rivolse una chiamata precisa a seguirlo (questa storia, con molti altri particolari si trova nella Bibbia nel primo Libro di Samuele capp. 1-3).

In seguito, Samuele divenne un giudice fedele che il Signore usò per guidare il suo popolo.

Ma torniamo a Anna. Come ogni donna, desiderava un figlio e, prima di concepirlo e di metterlo al mondo, in preghiera aveva promesso al Signore di consacrarlo a Lui, perché lo servisse. Aveva promesso che non lo avrebbe tenuto per sé.

Non era stata una promessa da niente, dato che lo portò al tempio quando era ancora molto piccolo e lo mise sotto la custodia di Eli, che come educatore valeva piuttosto poco. In più, sapeva che sarebbe cresciuto con davanti agli occhi l’esempio dei due figli di Eli, che la Bibbia chiama scellerati. Un bel coraggio. Ma una promessa è una promessa e si deve mantenere. Anna è stata ricompensata.

Ogni donna credente, quando si accorge di essere incinta, certamente chiede molte cose al Signore: che il piccino sia sano, che non abbia difetti, che sia buono, che cresca bene, che sia intelligente. Credo che ognuna, con suo marito, preghi anche che diventi un credente e serva il Signore.

Ma quante di noi fanno come Anna, che ha allevato Samuele per il Signore e poi lo ha avviato, costi quello che costi, nelle sue vie con consapevolezza, perseveranza e coerenza? È un lavoro impegnativo e, a volte, pesante. Ma ne vale la pena.

CON UN PADRE COSÌ...

Come vi piacerebbe avere un marito pagano, crudele, infedele? Ascoltate la descrizione di uno, che si chiamava Acaz. La si trova nella Bibbia, nel Libro dei Re e nel Libro delle Cronache.

“Acaz... non fece ciò che à giusto agli occhi dell’Eterno, suo Dio, come aveva fatto Davide, suo padre; ma seguì l’esempio dei re d’Israele e fece passare perfino per il fuoco suo figlio (lo bruciò in una fornace come sacrificio agli dei), seguendo le pratiche abominevoli delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figlioli d’Israele; offriva sacrifici e incenso sugli alti luoghi, sulle colline, e sotto ogni albero verdeggiante”, “fece perfino delle immagini di metallo fuso per i Baali” (2 Re 16:2-4; 2 Cronache 28:2).

Acaz era re di Giuda, aveva iniziato a regnare a vent’anni ed era ribelle a Dio, sebbene avesse avuto un padre e un nonno fedeli al Signore. Aveva preso in moglie Abi (o Abija), il cui nome significava “mio padre è Jehova” e “Volontà di Dio”.

Abi era una donna fedele e il nome, che le era stato dato dai genitori, rispecchiava il suo carattere. Era figlia di un certo Zaccaria, contemporaneo del profeta Isaia. Proprio Isaia aveva scelto Zaccaria, perché fosse, insieme al sacerdote Uria, un testimone attendibile di una tragica profezia che aveva scritta (Isaia 8:1).

Da Achaz, probabilmente prima che salisse al trono, Abi ebbe un figlio, al quale mise nome Ezechia, che significa “forte nel Signore” e chissà quanto quella mamma ha pregato perché quel nome divenisse una realtà! Con l’esempio di suo padre c’era da avere paura!

Abi fu esaudita. Ezechia fu un buon re, che fece onore al suo nome, fece del bene a Israele e camminò interamente nelle vie di Dio (2 Cronache capp. 29-32). Infatti, soppresse gli altari sulle colline, dove suo padre aveva fatto sacrifici agli dei pagani e fece a pezzi il serpente di rame che Mosè aveva innalzato, ma che era diventato oggetto di culto (anche i ricordi migliori possono essere travisati!).

Riaperse e restaurò le porte del tempio, ristabilì il sacerdozio, celebrò la pasqua e mise ordine nel culto levitico. Vide una straordinaria liberazione da parte del Signore, ottenendo una grande vittoria sul re d’Assiria. Alla fine della sua vita, ebbe una sbandata e, per il suo orgoglio, fu punito. Ma, nell’insieme, fu un buon re.

Come è possibile che un figlio buono e fedele provenisse da un padre infedele come Achaz?

È vero che la grazia del Signore è sempre più grande di qualsasi peccato, e può fare qualsiasi cosa, ma è anche vero che, si solito, usa degli strumenti umani per manifestarsi e agire. Molto probabilmente il mezzo che Dio trovò a sua disposizione fu proprio Abi, la donna che si chiamava “mio padre è Jehova” e “volontà di Dio”.

Ezechia sapeva troppe cose, per averle scoperte da solo: sapeva che solo Dio deve essere adorato e che gli idoli non sono nulla. Sapeva che il tempio era chiuso, mentre doveva essere un luogo di adorazione e di servizio per Dio. Sapeva che il culto era stato trascurato e che le feste solenni, stabilite da Dio, non erano state osservate. Agì con coerenza. Fece coraggiosamente un bel ripulisti e ristabilì il culto.

Certamente, da adulto, ha ascoltato le profezie di Isaia, ma da piccolo avrà ascoltato soprattutto gli insegnamenti di sua madre e, forse, anche quelli del nonno Zaccaria. Forse, proprio dalla mamma, sarà stato messo al riparo dalle follie religiose del padre, che fece passare altri figli attraverso il fuoco e li sacrificò al demonio. Dalla mamma imparò che Dio è grande e che “onora quelli che lo onorano”. Non solo. Che è un Dio a cui ogni essere vivente renderà conto.

Sia come sia, è essenziale che ai piccoli siano inculcate le verità eterne della Parola di Dio. Non è mai troppo presto per cominciare. Se siamo genitori, o solo mamme o nonne, e in casa c’è un marito o un padre malvagio e infedele, non perdiamo neppure un momento per istruire i piccoli cuori che Dio ci ha affidati. Porterà frutto al momento giusto.

NON HANNO AVUTO PAURA

Vecchia come sono, spesso mi trovo a dire; “Me lo ha insegnato mia mamma... mia mamma lo cucinava così... mia mamma diceva... mio padre non me lo permetteva...”

L’influenza dei genitori, e quella soprattutto della mamma nei primi anni di vita di un bambino, buona o cattiva che sia, è incredibilmente forte. Se ci fate caso, una mamma solare, in genere ha figli ottimisti. Una mamma negativa spesso ha figli che vedono più il lato nero delle situazioni che quello luminoso.

La Bibbia parla di alcune mamme che ebbero una grossa influenza sui loro figli.

Una di loro era ebrea e viveva in schiavitù in Egitto con la sua famiglia. Era un momento difficile. Il Faraone che era vissuto in precedenza aveva trattato gli Ebrei molto bene. Aveva riservato loro una zona del paese, dove avrebbero potuto esercitare la pastorizia e prosperare. Poi gli era succeduto un altro re molto meno benevolo e molto preoccupato del fatto che gli Ebrei diventavano troppo numerosi.

Che fare? Semplice: i bambini ebrei maschi che venivano al mondo nel paese dovevano morire. (La storia si ripete: in Cina fino a poco tempo fa, il governo aveva deciso che nascevano troppe bambine. Di conseguenza l’ordine era che si dovevano abortire o uccidere appena partorite.)

Le levatrici ebree non ubbidirono all’ordine del re, tennero in vita i bambini e allora fu emanato l‘ordine di eliminare i maschietti, buttandoli nel Nilo. Ci avrebbero pensato i coccodrilli.

A quel tempo a Amram e Jokebed, una coppia ebrea, della tribù di Levi, nacque un maschietto bellissimo. Lo tennero nascosto per tre mesi, ma, alla lunga, sarebbero stati scoperti e puniti. E il bambino sarebbe stato ucciso.

“Jokebed, che facciamo? Il bambino cresce e non lo possiamo più tenere nascosto. Ma buttarlo nel fiume... mai!”

“Amram, io avrei un’idea...”

L’uomo ascolta, poi dice: “Va bene e che Dio ci aiuti. In ogni modo, all’ordine del re noi non ubbidiremo, costi quel che costi. Nostro figlio non lo ammazziamo”.

E Jokebed manda a effetto il suo piano. Prende un canestro, lo rende impermeabile con pece e bitume, ci adagia il bambino, lo copre bene, lo porta al fiume, e lo mette in un canneto, in modo che la corrente non lo porti via. La figlia più grandicella rimane a fargli la guardia da lontano. Possiamo immaginare le preghiere di quella mamma perché il piccolo sia protetto. E, mentre prega, le guance le si rigano di lacrime e lo stomaco le diventa come un nodo. Ma ha fede che Dio opererà.

Il piccino è nel canestro e la figlia del Faraone, con le sue serve va a fare il bagno al fiume. Vede il canestro, lo fa prendere, lo apre. Il piccolo piange. È tutto rosso. Ha fame. La principessa si commuove. “Deve essere un piccolo ebreo” pensa, “quanto è bello... Bisogna dargli da mangiare...”

Appare la sorellina: “Volete che vada a chiamare una balia?”

“Sì, va’...”

Miriam corre: “Mamma, mamma, sbrigati! Devi venire a dare il latte al piccolo. La principessa l’ha trovato!”

Jokebed corre, il petto le fa male da tanto è gonfio di latte. Arriva dalla principessa che ha fra le braccia il piccolo che urla dalla fame.

“Prendi questo bambino, allattalo. Ti pagherò”. Jokebed se lo attacca al petto. Poi lo porta a casa, lo cresce, gli insegna a camminare. E lo istruisce. Gli canta i canti degli Ebrei che parlano di Dio per addormentarlo, gli racconta le storie di Noè, di Abramo, di Giacobbe e di Giuseppe. Gli spiega che è figlio di Ebrei, del popolo scelto dall’Iddio creatore del cielo e della terra. Di un Dio che non si vede con gli occhi, ma che agisce e salva. Un Dio tutto diverso da quei brutti dei degli Egiziani che non vedono, non parlano e non sentono.

Il bambino ascolta, assorbe l’insegnamento dei suoi genitori, forse per tre o quattro anni (allora i bambini prendevano il latte per più tempo di adesso!). Poi Jokebed lo riporta alla reggia, alla figlia del faraone, che lo adotta e gli dà il nome Mosè, che significa “tirato fuori dall’acqua”. Essa lo fa istruire come un principe in tutta la sapienza degli Egiziani e gli mette a disposizione onori e ricchezze. Più o meno, fino all’età di 40 anni.

A quel momento, una svolta. La Parola di Dio racconta: “Per fede (la fede che aveva imparata da piccolissimo dai genitori) Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato col popolo di Dio, che godere per breve tempo i piaceri del peccato; stimando gli oltraggi di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa” (Ebrei 11:24,25). Il buon seme gettato quando era piccolo, aveva attecchito.

Il resto della storia di Mosè è nel Libro dell’Esodo ed è magnifica.

La storia dei suoi genitori è un esempio di coraggio e di fedeltà, che dovrebbe spingerci a istruire i nostri figli nelle vie di Dio, nei primissimi anni della loro vita, quando le loro menti sono ancora libere e pronte a assorbire le verità della Parola di Dio e prima che psicologi e maestri non gliele riempiano di ogni sorta di bugie e nozioni false. Non aspettiamo che “capiscano” e decidano per conto loro, ascoltando più i compagni di scuola che i genitori.

A VOLTE, RINGRAZIARE È DIFFICILE

Qualche settimana fa, abbiamo celebrato il funerale di una cara amica e sorella in fede, membro fedelissimo della nostra chiesa evangelica a Roma. Ha sopportato con grande coraggio e pazienza una lunga malattia, senza dare segni di sfiducia o di ribellione verso Dio. Ringraziando sempre il Signore perché, come diceva, “non ho troppo dolore. Solo un po’ di fastidio”.

Attorno alla sua bara, molti, anche non credenti, hanno testimoniato della sua fede e della sua costante calma e fiducia nel Signore. Una bella eredità.

Io la conoscevo da almeno quarant’anni. Di religione era stata protestante e aveva una certa infarinatura del contenuto della Bibbia, ma non aveva una fede personale. Era un tipo molto deciso, anche con una buona dose di umorismo. Come molti Protestanti, pensava di essere perfettamente a posto con Dio. Dopo tutto, aveva frequentato il catechismo e conosceva la dottrina giusta!

Aveva cominciato a frequentare uno studio biblico per donne, nella casa di una nostra amica comune, mentre i suoi figli, con i miei e altri bambini, partecipavano a un’ora di insegnamento biblico chiamato “Ora Felice”. Noi mamme leggevamo insieme e commentavamo il Vangelo di Giovanni.

Quando siamo arrivate al terzo capitolo, in cui si racconta la visita a Gesù di Nicodemo, un Fariseo sincero e integro, ma all’oscuro della verità che Gesù era venuto a portare, l’interesse di Moni, così si chiamava la donna protestante, è aumentato. Anche lei era onesta e religiosa.

Le parole di Gesù a Nicodemo la colpirono: “Se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio”. E un po’ più avanti: “Se uno non è nato d’acqua e di Spirito non può entrare nel regno di Dio; quello che è nato dalla carne è carne; e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo” (vv. 3,5,6,7).

“Questa cosa non l’avevo mai sentita nella mia chiesa. Cosa significa?” chiese.

“Per dirlo in parole semplici” le ho spiegato, “quando nasciamo in questo mondo, nasciamo con una personalità che ci viene dai nostri genitori e che è caratterizzata dal peccato, per cui anche se vogliamo fare il bene, non ci riusciamo perfettamente. E Gesù ha detto che dovremmo essere perfetti come è perfetto Dio, per poter stare con Lui”.

“Ma questo è impossibile!”

“Hai ragione. Per noi è impossibile, non possiamo diventare perfetti” ho detto. “Ma è per questo che Gesù dice che dobbiamo ricevere da Lui una nuova natura, la natura sua. Lui la innesta dentro di noi. In questo modo, diventiamo figli di Dio, entriamo a far parte della sua famiglia e possiamo chiamarlo padre e comunicare con Lui.”

“Interessante. Ma come succede?”

Le ho letto, sempre nel terzo capitolo di Giovanni, il versetto 16: “Iddio ha tanto amato il mondo (e tu fai parte dell’umanità, ho commentato) che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui, non perisca (non vada all’inferno per l’eternità), ma abbia vita eterna (la vita di Dio).

Ci fu una pausa. “Ma io a Gesù ci credo!”

“È vero. Ma bisogna credere e capire alcune cose precise” ho detto. “Dobbiamo renderci conto che, così come nasciamo, abbiamo una natura cattiva che pecca e che con questa natura assolutamente non possiamo andare in cielo, come Gesù ha detto a Nicodemo.

“Poi bisogna capire che Gesù è venuto in terra, proprio per pagare per la natura cattiva di tutti gli uomini. Ha pagato morendo in croce al nostro posto, e prendendo su di sé il nostro peccato. Lui è l’unica via che ci porta a Dio. Se lo crediamo con tutto il cuore, ci apriamo a Lui e lo accogliamo come nostro Salvatore, Gesù fa il miracolo: ci fa nascere di nuovo.”

“Allora, io cosa devo fare?”

“Se lo credi con tutto il cuore, glielo devi dire. Digli che sai che per te non c’è speranza, ma che ti affidi a Gesù come tuo unico Salvatore e Signore e che lo seguirai per tutta la vita.”

Raramente ho sentito da un adulto una preghiera più sincera, per chiedere a Dio il dono della salvezza. Da quel momento, Moni è diventata una nuova creatura e non ha avuto più tentennamenti. È rimasta fedele fino alla fine.

La Parola di Dio dice che dobbiamo ringraziare il Signore in ogni circostanza.

È difficile non avere più Moni con noi e non vederla più al suo posto in chiesa. Ma si può – e si deve – ringraziare perché non soffre più, perché è pienamente felice nella presenza del suo Salvatore e perché ha lasciato dietro di sé una bella testimonianza di fedeltà.
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LA PAROLA MAGICA

Quando i nostri bambini erano piccoli, non potevano sfuggire alla “parola magica”, quando chiedevano un dolcetto e lo ricevevano, oppure quando qualcuno faceva loro un regalo.

La parola magica era “grazie”. Senza quella, niente dolcetto e niente regalo. Naturalmente loro, che non erano stupidi, ne avevano capito l’importanza e si affrettavano a pronunciarla.

Mio padre mi raccontava che quando suo padre gli applicava la disciplina sulla sede naturale dell’apprendimento, cioè sul sederino, doveva poi dirgli: “Grazie, papà” e baciargli la mano. Altri tempi!

Noi, coi nostri figli, non siamo arrivati a un punto simile. Dopo la disciplina, avevamo l’abitudine di rassicurarli del nostro amore, ma al rispetto e alle buone maniere ci abbiamo sempre tenuto. E non abbiamo tollerato arroganza o scortesia da parte loro.

La riconoscenza è una pratica che si impara. Mio marito mi ringrazia per un buon pasto o per una camicia ben stirata e io lo ringrazio se mi porta il sacco della spesa o mi tiene aperto lo sportello della macchina. Lo troviamo normale e abbiamo cercato di inculcarlo ai figli. Se tante coppie si trattassero con cortesia e si rivolgessero la parola in modo civile, eviterebbero molti problemi.

Però c’è un ringraziamento di stagione, che porterebbe la pace in tante famiglie e l’armonia in tante persone. Mi spiego. Sta per arrivare il Natale e le nostre strade si adornano di stelle comete luminose, di festoni scintillanti, le vetrine dei negozi luccicano d’oro e la gente comincia a fare la lista delle persone a cui fare regali. Tutti NON diventano più buoni, ma cominciano a darsi un gran da fare e diventano un po’ più nervosi. Pochissimi pensano al perché di tanto trambusto, ma seguono la corrente e la tradizione. Vi si adeguano sospirando e pregustano il cenone e il panettone. Ma a Gesù chi ci pensa?

Anche se nessuno sa in che giorno Gesù sia nato (probabilmente è nato in primavera, ma la cosa non ci interessa) è sicuro che in un momento preciso della storia umana è nato, a Betlemme, in Giudea, concepito miracolosamente da Maria vergine, per opera dello Spirito Santo. Ed è importante che sia nato. Era necessario che Il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, si incarnasse e venisse per morire per i nostri peccati, per riscattare l’umanità e darci la possibilità di essere riconciliati con Dio.

E questo dovrebbe essere un gran motivo di ringraziamento, in questa stagione e sempre.

L’Apostolo Paolo ha esclamato: “Sia ringraziato Dio per il suo dono ineffabile!”.

Gesù è il dono dell’amore di Dio Padre per il mondo perduto e separato da Dio. È l’unico mezzo di salvezza, è l’unica via che ci porta a Dio.

Quando gli angeli hanno dato ai pastori l’annuncio della nascita di Gesù, hanno detto: “Non temete, perché ecco vi reco una buona notizia di una grande allegrezza che tutto il popolo avrà: Oggi, nella città di Davide, vi è nato un Salvatore, che è Cristo, il Signore”. La buona notizia è l’evangelo.

Quando Gesù ha cominciato a predicare, ha detto: “Ravvedetevi, e credete all’Evangelo!”. Il nostro ringraziamento deve cominciare dal riconoscerci peccatori perduti e senza speranza, ma invitati a ricevere il dono inspiegabile e indescrivibile della salvezza per grazia.

Hai capito di essere un peccatore senza speranza? Hai accettato questo dono? Hai ringraziato Dio per avercelo dato? Dirgli “grazie” con tutto il cuore, ti aprirebbe la via del cielo.
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RINGRAZIARE, PERCHÉ?

In America, alla fine di novembre, si celebra “il giorno del ringraziamento”, che ricorda un momento importante della storia americana.

Un anno dopo che erano arrivati in America, i primi pellegrini emigrati dall’Olanda e dall’Inghilterra, istituirono una festa, per celebrare e ringraziare Dio per la loro salvezza e la possibilità di vivere liberi nel continente in cui si erano rifugiati. Erano credenti evangelici, che avevano cercato scampo dalla persecuzione della Chiesa di Roma, che avevano sfidato la morte e le tempeste dell’Oceano, pur di avere la possibilità di praticare liberamente la loro fede.

La festa ha un bel significato e dovrebbe essere usata come motivo per ringraziare Dio per la sua provvidenza, la sua protezione e la possiblità di adorare, senza essere perseguitati. Purtroppo, in molti casi in America, oggi (come succede per il Natale da noi) la festa del ringraziamento è diventata più un’occasione per stare insieme in famiglia, mangiare il tacchino arrosto, granturco, patate dolci e torta di zucca, che per pensare a Dio.

Ma i motivi per ringraziare (con o senza tacchino) sarebbero molti. E non solo in America.

La libertà religiosa, per esempio. In molti paesi, oggi, i cristiani, anche quelli solo di nome, rischiano forte. Quelli veri, che cercano di testimoniare della loro fede, spesso sono uccisi.

Tu, hai ringraziato Dio, perché oggi in Italia, le leggi ti permettono di praticare liberamente la tua fede e nessuno ti mette in prigione se dici che Cristo è il Salvatore? (È abbastanza spaventoso quello che sta succedendo riguardo ai crocifissi nelle scuole. Non per i crocifissi stessi, che sono solo un pezzo di legno con su un’immagine, ma perché un ente centrale europeo ti possa ordinare quello che puoi o non puoi fare, credere o non credere). Ti rendi conto della benedizione di poter possedere o affittare delle sale di culto in cui riunirti con chi crede come te? Di comprare una Bibbia, senza nessun pericolo?

Poi, c’è da ringraziare che viviamo in un paese che non è in guerra. Non rischiamo ancora di essere fatti a pezzi perché qualcuno si fa saltare in aria, nel nome del suo dio.

Hai ringraziato per le autorità politiche e civili che ti garantiscono una certa misura di pace, invece di dirne male a ogni occasone?

Inoltre, puoi educare i tuoi figli secondo i principi in cui credi. In molti paesi te li tolgono, se non fai come dice il governo. Perciò, approfitti con gratitudine di poter insegnare loro la Parola di Dio?
Ti rendi conto e ringrazi Dio che puoi stampare letteratura che spiega la tua fede e nessuno te lo può impedire? E che la puoi anche distribuire?

La lista potrebbe continuare. Il Salmista Davide esclamava: “Anima mia, benedici il Signore e non dimenticare nessuno dei suoi benefici!”. Anche di quelli civili e politici che Dio ti concede per mezzo del governo che ha stabilito nel tuo paese.
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SIATE RICONOSCENTI!

“Maestro, abbi pietà di noi!”

Gesù si fermò, mentre camminava verso Gerusalemme e, coi suoi discepoli, si trovava presso i confini che separavano la Giudea dalla Samaria. Chi gridava erano dieci lebbrosi. Si tenevano a distanza, sapevano di non potersi avvicinare a chi era sano, erano consapevoli si essere malati, ma supplicavano che Gesù avesse pietà di loro e li guarisse.

Gesù diede loro un ordine preciso: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti!”.

Non era un ordine da niente, perché i lebbrosi potevano andare dal sacerdote solo perché verificasse se erano guariti. Ma loro erano malati. Malati incurabili e intoccabili.

Gesù chiedeva loro un grosso atto di fede.

Li possiamo immaginare, mentre si dicevano: “Che facciamo? Andiamo? Se non guariamo, saremo puniti? Mah... proviamo...”. Mentre camminano, qualcosa succede. Le loro mani rattrappite si stendono, i piedi, resi insensibili dalla lebbra, sentono le asperità delle pietre su cui camminano. Si osservano.

Poi uno grida: “Siamo guariti!”. La loro gioia è incontenibile e si mettono a correre verso casa per mostrarsi ai loro cari. Non siamo più intoccabili! Siamo di nuovo gente normale!

Uno però, un Samaritano disprezzato dagli Ebrei, si ferma e fa dietro front. Anche la sua gioia è incontenibile, ma è anche incontenibile la sua riconoscenza.

Grida: “Gloria a Dio! Gloria a Dio! Sono guarito!”. E probabilmente pensa: “Ho di nuovo dieci dita nelle mani e dieci nei piedi che funzionano, posso correre e saltare, la gente non scapperà più lontana da me e i bambini non si metteranno a piangere dalla paura e dallo schifo per la mia faccia sfigurata! Gloria a Dio! Il Maestro ha fatto il miracolo!”.

Torna sui suoi passi, ritrova il Signore, gli si butta ai piedi: “Grazie, grazie, grazie!” e lo adora.

Gesù si guarda attorno. Erano in dieci, possibile che uno solo sia tornato a dire grazie, uno che per di più è uno straniero?

Poi rialza il lebbroso e lo rassicura: “Alzati e vattene: la tua fede ti ha salvato!”. Non solo il suo corpo era guarito, ma anche la sua anima, dal valore eterno, era purificata.

Dio non ha pazienza con chi non è riconoscente e le esortazioni alla gratitudine nella Parola di Dio sono numerosissime.

Nella Bibbia è scritto che Dio si adira contro chi soffoca la verità con l’ingiustizia. Contro chi vede le meraviglie della creazione e non ringrazia Dio. Contro chi, anziché lodare e rngraziare il Creatore si dà all’idolatria. E afferma che, per questa ingratitudine, Dio abbandona le sue creature e di conseguenza, esse si buttano nell’immoralità, nell’impurità, si danno a pratiche contro natura, che le portano al giudizio. E arriva a dire che l’ira di Dio si riversa non solo su chi commette tali peccati, ma anche su chi li approva (puoi verificare tutto questo, leggendo la seconda parte del primo capitolo della lettera ai Romani, versetti da 18 a 32).

A questo punto sono d’obbligo alcune domande.

Hai l’abitudine di ringraziare Dio per il fatto che oggi sei vivo? Che hai una casa? Che hai mangiato? Che ci vedi e ci senti? Che ragioni e hai la possibilità di lavorare? Che la natura che ti circonda è bella e produce buona parte del cibo che mangi?

Se puoi rispondere “sì” a queste domande è bene. Ma ce ne sono altre, ancora più importanti.

Ne parleremo la prossima volta. Intanto leggi per intero la storia dei dieci lebbrosi, nel Vangelo di Luca capitolo 17:11-19.
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ANCORA SUI DONI...

Oggi dobbiamo concludere il nostro discorso cominciato la volta scorsa sui doni spirituali che la Bibbia elenca e che, se siamo veri credenti in Cristo, dobbiamo mettere a disposizione degli altri.
Scusate se faccio la maestra, ma ricapitoliamo il discorso dell’altra volta (anche i Romani dicevano “repetita iuvant”, cioè le cose ripetute aiutano).

Allora, ecco il riassunto:

  1. ogni credente ha almeno un dono dato dallo Spirito Santo, da usare per il bene della chiesa e per essere un membro sano e utile nel corpo di Cristo.
  2. Il nostro dono non lo scegliamo e non lo meritiamo. Usandolo non facciamo un piacere al Signore, ma siamo oggetti della sua grazia.
  3. Dobbiamo esercitare il dono secondo quello che dice la Parola di Dio. Infine,
  4. deve essere accompagnato e dimostrato da una condotta coerente.
Il prossimo punto importantissimo è: dobbiamo esercitare i nostri doni con amore. Un dono usato senza amore, con orgoglio e voglia di mettersi in mostra può fare del male, ferire e scoraggiare. E, soprattutto, fa male a chi lo esercita, perché al Signore non piacciono le persone orgogliose. E, una volta o l’altra, le sgonfia come palloncini.

La prima lettera di Giovanni ha molto da dire sul soggetto dell’amore che deve regnare fra i fratelli in fede. Ascoltiamolo.

“Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio. In questo è l’amore : non che noi abbiamo amato Dio, ma che Egli ha amato noi e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propriziatorio per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è bugiardo perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abiamo ricevuto da Lui: che chi ama Dio, ami anche suo fratello”. “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi; anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (4:7,10,11,20,21; 3:16).


Ogni commento sarebbe superfluo!

Oltre ad amare, si deve ricordare che esercitare un dono potrà costare. Dobbiamo farlo rinunciando ai nostri diritti, vivendo nella pace e considerando gli altri più importanti di noi (Romani 12:18; Filippesi 2:3). Il che non è sempre facile. A tutti piace, ogni tanto, essere serviti, riposare senza avere seccatori in giro, senza dover rispondere a responsabilità pressanti.

Ai discepoli e al Signore è successo. Se ne andavano lontani dalla gente per riposare e si sono trovati davanti 5000 uomini, più donne e bambini. I discepoli li avrebbero licenziati tutti molto volontieri, ma il Signore “ne ebbe compassione”, si mise a insegnare loro e poi diede loro da mangiare, moltiplivcando pane e pesci e usando i discepoli per la distribuzione. Come vacanza, non c’era male!

Poi un dono si esercita facendo agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi (Vangelo di Matteo 7:12). Di solito sentiamo dire: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” il che interpretato vuole dire “Vivi e lascia vivere”. Il Vangelo, invece, dice che il vero cristiano deve attivamente cercare di fare del bene al prossimo, prendendo l’iniziativa.

In più, un dono spiriuale deve essere accompagnato costantemente dal perdono (Matteo 6:14,15). Bisogna perdonare le critiche ingiuste (e fare tesoro di quelle giuste). Bisogna perdonare i giudizi negativi e passare sopra alle incomprensioni e chiarire i malintesi. Non è un programma da niente!

Infine, un dono spirituale deve essere usato con perseveranza e senza scoraggiarsi. Pensiamo a Noè, che, prima che venisse il diluvio, ha predicato per 120 anni, avvisando del giudizio imminente, e nessuno se l‘è filato!

Concludo ricordando le parole di Giacomo. “Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio: perché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne (cioè con orgoglio, arroganza, insensibilità) mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito mieterà dallo Spirito vita eterna. Non ci scoraggiamo nel fare il bene; perché se non ci stanchiamo, mieteremo a suo tempo. Così, dunque, finché ne abbiamo l‘opportunità, facciamo del bene a tutti...” (Lettera ai Galati 6:7-10).

Abbiamo pazienza: il frutto verrà. Se non lo vedremo noi, lo vedranno quelli che verranno dopo di noi. Concludo come ho cominciato: quello che la nostra mano trova da fare, facciamolo con tutta la nostra forza!

IL NOSTRO DONO SPIRITUALE: ISTRUZIONI PER L’USO

Allora, abbiamo scoperto il dono spirituale che Dio ci ha dato da usare per il bene della chiesa?

Sì? Evviva! Però, la cosa non finisce quì. Bisogna usarlo bene e secondo il piano di Dio.

Nella mia gioventù, io ho sbagliato molte volte: ho pensato di capire tutto e l’ho detto, quando avrei fatto bene a stare zitta. Mi sono buttata a fare cose che avrei potuto delegare. Ho fatto commenti fuori posto. Mi sono fatta più nemici che amici fra i non credenti che frequentavo. Purtroppo, ho dovuto imparare molte lezioni anche pesanti col passare degli anni. Oggi devo ancora migliorare.

I doni spirituali non si scelgono. Questa è la prima cosa da capire.

“Lo Spirito distribuisce i suoi doni a ciascuno in particolare come Egli vuole” (1 Corinzi 12:11). Ognuno di noi ha almeno un dono e lo Spirito lo dà ai credenti secondo le loro capacità e il compito che dovranno svolgere. È strano che alcuni non si diano pace se non hanno un certo dono un po’ ... spettacolare. Chissà, forse il versetto che ho appena citato, nella loro Bibbia non esiste...

È inutile e assolutamente sbagliato intestarsi a voler avere un dono che non si ha. Per esempio, voler predicare, se lo Spirito ci ha piuttosto dato il dono di evangelizzare a tu per tu. È sciocco pensare che ci siano doni più importanti e più benedetti di altri. Tutti sono utili e tutti devono essere usati con sapienza e con umiltà.

Questo porta al secondo punto: i doni non sono meritati. Non abbiamo nulla, in noi stessi, che non ci sia stato dato da Dio; perciò dobbiamo usare i nostri doni, sapendo che sono una grazia di Dio, che Lui ce li ha largiti e ci permette di usarli. Nella lettera ai Romani (12:1,2) siamo esortati a presentare a Dio il nostro corpo, come peccatori salvati per grazia, per essere usati come il Signore vuole, senza accampare diritti o pretese.

Terza cosa imporantissima: i doni devono essere usati nella verità, cioè basandoci sempre su ciò che Dio dice e riconoscendo che la nostra unica guida è la Bibbia. Essa è la nostra lampada (Salmo 119:105) e noi dobbiamo rimanere fermi su quello che dice. Nella terza lettera di Giovanni v. 9, è detto: “Chi passa oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non ha Iddio. Chi rimane nella dottrina ha il Padre e il Figlio”. Più di così...

Chi esercita un dono deve vivere una vita pulita e santa moralmente e spiritualmente (e questo è il quarto punto). Non vale la pena servire Dio, se la nostra vita fa acqua da qualche parte, ma “se cammniamo nella luce, come Egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro e il sangue di Gesù suo Figlio ci purifica da ogni peccato” (1 Giovanni 1:7). Perciò dobbiamo individuare i nostri peccati, confessarli al Signore e abbandonarli.

È detto che gli anziani, cioè le guide delle chiese, devono essere irreprensibili. Ma non solo loro: devono esserlo tutti i credenti, perché la loro testimonianza sia efficace. Nessuno dovrebbe poter puntare il dito contro di noi per accusarci di una vita incoerente.

Siete stanchi? Sì? Allora, finiamo a prossima volta! Ciao!

“QUELLO CHE LA TUA MANO ...

trova da fare, fallo con tutte le tue forze”. Questo incitamento, per non dire quest’ordine, si trova nella Bibbia e precisamente nel Libro dell’Ecclesiaste, cap. 9 e vers. 10, un libro, a prima vista, un po’ cupo e pessimista, ma bellissimo, scritto dal re Salomone quando era vecchio.

È un po’ uno dei motti della mia vita e fra i giovani della nostra chiesa evangelica è chiamato “versetto mariateresiano”. In fatti, lo cito spesso, soprattutto per incoraggiare me stessa.

È un versetto meraviglioso, perché non ti lascia dubbi teologici, non si presta a interpretazioni simboliche o cevellotiche e il suo contesto è inequivocabile. Ascoltatelo: “Godi la vita con la moglie (io mi permetto di aggiungere il marito) che ami, durante tutti i giorni della tua vanità (vita che sfugge come un vapore), che Dio ti ha data sotto il sole; poiché questa è la tua parte nella vita, in mezzo a tutta la fatica che duri sotto il sole. Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze; perché nel soggiorno dei morti dove vai, non v’è più né lavoro, né pensiero, né scienza, né sapienza”.

In altre parole, vivi la vita pienamente, usa ogni minuto con tutta l‘energia e l’entusiasmo possibili, approfitta di ogni occasione per essere utile, perché la vita non dura sempre e da morto non avrai modo di fare molto. Salomone non aveva idee chiarissime sull’aldilà, come la maggior parte degli Ebrei, ma i credenti in Cristo, che si appoggiano sulla Bibbia, sanno che li aspetta un meraviglioso avvenire di gioia nella presenza del Signore. E, chissà, di pieno servizio per l’eternità.

Detto questo, mentre siamo vivi, non dobbiamo perdere le occasioni per essere utili.

A me è successa una bella esperienza, un paio di settimane fa. Ero andata a Roma, all’ufficio dell’Associazione Verità Evangelica, con l’intenzione di scrivere qualcosa di utile sul mio computer.

Ma, prima di mettermici, ho chiesto: “Posso essere utile in qualcosa?”. Lo chiedo sempre, ma, in genere, mi dicono che tutto procede felicemente senza di me. Invece, mi hanno detto: “Ci sarebbero da attaccare le etichette sulle buste per la spedizione della VOCE.”

I lavori ripetitivi non sono la mia passione, ma, ricordando il versetto che ho citato più sopra (e sentendomi ultra nobile e virtuosa), ho detto: “Va bene, datemi il materiale”.

Le buste non erano poche e neppure le etichette. La VOCE va dalla Valle d’Aosta alla Sicilia e, grazie a Dio, i nostri amici son tanti.

Ho cominciato dalla Lombardia e ho finito a Bari. È un lavoro che non richiede una particolare intelligenza, basta solo fare attenzione a non scombinare i codici postali e prendere il ritmo. Umanamente, una vera pizza, ma non sapete quanto me la sono goduta.

Ho ritrovato nomi di amici vecchi dimenticati e di giovani, conosciuti di recente, e ho trovato un buon motivo per pregare per tanti, a cui di solito, non penso.

Mi dicevo: “Questo deve essere ben vecchio, chissà come gli va la salute: Signore, aiutalo a non sentirsi troppo solo... Credevo che questo fosse già morto... Questo mi ha fatta disperare durante i campi per ragazzi, ma grazie, Signore, che è rimasto fedele!... Questa ha fatto la scuola di vita cristana a Isola: Signore, aiutala a servire con gioia la sua famiglia... Ma guarda dove è finito questo! Da giovane stava nel foggiano...”.

E così via e così avanti per il pomeriggio e una parte della serata, finché mio marito non ha finito i suoi colloqui e siamo andati a casa.

Secondo Ecclesiaste 9:10, la mia mano ha trovato da fare un doppio lavoro: aiutare in ufficio e parlare col Signore di un pacco di gente. Un pomeriggio da ripetere.

Ma non finisce qui. Ne riparliamo la prossima volta.
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Provate col cibo... e una cena a singhiozzo

“Dacci delle idee per attirare i nostri giovani!”

Me lo dicono molti, in cerca di modi per spingere i giovani della chiesa e i loro amici a frequentare delle riunioni adatte a loro. Spesso, i giovani sono svogliati e raggiungerli è un’impresa non facile.
A volte sembra, addirittura, che i “nostri” siano più pigri e svogliati dei loro amici non credenti.

Però, quando c’è di mezzo il cibo le cose diventano più facili. Perciò, perché non provate una

CENA... A SINGHIOZZO?

Adesso vi spiego di che cosa si tratta.

Bisogna coinvolgere almeno tre famiglie e quattro mamme volonterose, tre delle quali dovrebbero essere pronte a aprire la loro casa (cosa di solito molto facile), e ci vuole una certa organizzazione e coordinazione, per pianificare orari e cibi. Una persona incaricata di fare i piani e vedere che siano eseguiti è necessaria. Una certa puntualità è essenziale.

Poi si procede.

Per semplificare le cose, si comincia nel locale della chiesa. Però non la si usa per cantare, pregare e studiare la Bibbia, ma per prendere l’aperitivo. Preparato con gusto da una prima mamma volonterosa. Tipo? Tramezzini, patatine e pizzette. Non troppissima roba per non sciupare l’appetito dei giovani, cosa che, in ogni modo, succede di rado.

Dopo l’aperitivo, i ragazzi dovrebbero risolvere un piccolo indovinello biblico, preparato su foglietti di carta. Alla fine del blog troverete qualche idea in proposito.

Poi, ci si mette in macchina (o si va a piedi se il paese è piccolo o se le case coinvolte sono vicine) e si va nella seconda casa dove la seconda mamma volonterosa ha preparato il primo. Sono consigliabili lasagne o pasta al forno che non scuociono e sono pronte quando arriva l’orda affamata. Anche una bella pasta e fagioli può essere appropriata d’inverno. Oppure, fate voi!

Si usano piatti, bicchieri e posate di plastica e la tavola è preparata con qualche fiore e una bella tovaglia colorata (naturalmente di carta, per non doverla lavare). Se c’è posto, i ragazzi si siedono a tavola. Se sono troppi, possono mangiare tenendo il piatto sulle ginocchia (usare piatti resistenti, per evitare disastri e versamenti sul tappeto buono!).

Poi vanno dalla terza mamma volonterosa che ha preparato il secondo. MA....

Ma, prima di partire, devono aiutare a mettere i piatti sporchi in sacchi di plastica e buttarli nel primo cassonetto che trovano. (Naturalmente i sacchi di plastica dovranno essere disponibili e la mamma NON dovrà dire che ci pensa lei a buttarli. I ragazzi devono imparare a aiutare almeno un poco).

Nella terza casa si mangia il secondo, che deve essere semplice e già pronto. Di nuovo si ripete l’operazione spazzatura.

E poi si finisce nella quarta casa dove c’è il dolce preparato dalla quarta mamma volonterosa e dove ci sarà anche qualcuno che verificherà i foglietti con l’indovinello risolto nella prima tappa. Poi con l’aiuto di una chitarra si faranno dei canti e qualcuno darà un breve studio biblico per chiudere la serata. Si chiude con un tempo di preghiera e inviti alle prossime riunioni.

È possibile anche, se necessario, fare lo studio nella terza tappa. In modo che non diventi tardi e alcuni se ne vadano a casa. Il dolce nella quarta tappa dovrebbe trattenere tutti.

Ai tempi dei nostri figli e dei loro amici una serata così era un grande successo.

Provateci e fatemi sapere.

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Ecco qualche idea per l’idovinello

  • Parlò e il sole si fermò. _________
  • Dio lo mandò e un ricino morì. _________
  • Parlò e un profeta ammonì. _________
  • Vide un lenzuolo con ogni sorta di animali. _________
  • Appese una cordicella rossa alla finestra. _________
  • Tornò con un ramoscello d’ulivo in bocca. _________
  • Elencare 5 fiori o alberi nominati nella Bibbia
  • Elencare 5 personaggi biblici col nome che comincia con A

Per il resto fate voi!

QUAL È IL MIO DONO?

Ve l’ho detto la volta scorsa. Uno dei miei versetti favoriti è: “Quello che la tua mano trova da fare fallo con tutta la tua forza” (Ecclesiaste 9:10), perché parla dell’importanza di usare bene la nostra vita finché ce l’abbiamo.

Io lo trovo utilissimo anche per scoprire quale sia il dono, o i doni spirituali, che Dio ci ha dato per essere utili al suo servizio, sia in famiglia sia in chiesa.

Molti dicono: “Sarei felice di servire il Signore se sapessi qual è il mio dono, ma non so cantare... sono timido... ho paura di pregare a alta voce... non voglio mettermi in mostra... coi bambini non ci so fare”. E aspettano. E, mentre aspettano, in chiesa non smuovono un dito neppure per sparecchiare la tavola, dopo un pasto consumato in comune, o per spazzare il pavimento dopo una riunione. O semplicemente per portare via il sacco della spazzatura. Forse li considerano lavori così umili da non poter essere considerati “doni”. Dopo tutto, la Bibbia non parla del “dono della spazzatura”!

In famiglia, poi, si fanno servire dalla mamma premurosa e non muovono neppure uno stuzzicadenti.

Ma se ne stanno lì tranquillli, aspettando che il Signore faccia apparire in cielo una scritta cubitale con la rivelazione di quello che devono fare e quale sia il loro “dono” specifico.

Se poi (spavento!) apparisse la scritta: IL DONO DI ANNA SAREBBE FARSI IL LETTO PRIMA DI ANDARE A SCUOLA, oppure IL DONO DI ALBERTO SAREBBE ACCOMPAGNARE LA NONNA QUANDO VA A RISCUOTERE LA PENSIONE, PER PROTEGGERLA DAGLI SCIPPI, non è detto che sarebbero contenti.

I doni, anche quelli spirituali elencati nella Bibbia da usare nella famiglia di Dio, sono vari e si scoprono lavorando e mettendosi a disposizione per aiutare. In genere li scoprono quelli che cominciano dalla gavetta, magari solo raccogliendo regolarmente gli innari o assicurandosi che ci sia la carta igienica nel bagno. Oppure prendendo note mentre l’anziano predica e ripassando a casa quello che hanno sentito. O facendo attenzione ai soggetti di preghiera menzionati alla riunione. O interessandosi delle persone presenti, salutando e accogliendo gli estranei che entrano nella sala di culto, magari solo per curiosare.

Troppo spesso si pensa che gli unici doni da desiderare siano quelli più vistosi, come predicare, insegnare e evangelizzare, mentre altri doni, di apparenza più modesta, come assistere chi ha dei bisogni materiali e spirituali, ospitare, donare generosamente per sostenere le missioni, sono essenziali quanto quelli di insegnamento.

L’Apostolo Paolo ha assomigliato la chiesa a un corpo, in cui tutte le membra sono utili e essenziali. La chiesa ha bisogno di mani, di piedi, di occhi e orecchie, di cuori e di muscoli. Se avesse solo una grande bocca e mani invisibili e gambette debolucce, sarebbe un vero mostro. E, a volte, certe chiese sono proprio così. Tutti a cantare e a testimoniare e pochi, pochissimi, a mettere la mano al portafogli, per pagare le bollette della luce della sala di culto.

Perciò, come riconoscere il tuo dono? Comincia a fare quello che vedi che c’è da fare. Tieni gli occhi aperti e chiedi a Dio di farti stare all’erta. E non avere paura di rimboccarti le maniche.
E, cari studenti, che avete il privilegio di conoscere la Parola di Dio, studiate bene e fate tesoro di quello che imparate. Se vi piace la matematica, forse da grandi sarete tesorieri e amministratori nella vostra chiesa. Se vi piace scrivere, imparate a esprimervi bene e a usare la grammatica giusta. Forse, un giorno scriverete dei libri utili o dei foglietti di evangelizzazione adatti alla situazione e agli avvenimenti del vostro tempo, che chissà come sarà.

Se vi piacciono i lavori pratici, diventate dei buoni elettricisti o idraulici o meccanici. Certamente in chiesa vi apprezzeranno. E quando andrete a riparare dei danni nelle case, potrete distribuire i libretti che parlano di Gesù (scritti dai vostri amici della chiesa!) e sarete dei missionari a tutti gli effetti. Se poi diventerete medici o infermieri, come sarebbe l’idea di un soggiorno fra la gente che muore di fame, non solo fisica, ma anche spirituale, in Africa?

Di come usare il vostro dono parleremo la prossima volta.

Dove vanno i soldi dell’8 per mille!

Quando, da giovane, abitavo a Firenze, per ripararmi dal caldo soffocante dell’estate, avevo preso l’abitudine di entrare nel Duomo dalla porta centrale e uscire quasi dal retro, godendomi il fresco all’interno di quella splendida cattedrale. La mia impressione è che nelle chiese faccia sempre fresco.

Evidentemente, a Genova, non bastava più il fresco naturale garantito dagli spessi muri di pietra. Ora, nella Chiesa del Gesù, sono arrivati dei confessionali high-tech, muniti di aria condizionata e isolati acusticamente, per provvedere una maggiore privacy, (“Chissà se almeno Dio sentirà le confessioni?” ha detto un giovane un po’ scanzonato).

Il giornale, che riportava la notizia, non diceva se ci siano anche inginocchiatoi imbottiti e servizio di frigo-bar per la comodità dei penitenti, ma diceva che due confessionali erano costati complessivamente 24.000 euro, in parte raccolti con offerte e certamente sovvenzionati anche da molti 8 per 1000 corroborati anche dagli spot strappalacrime della TV.

Insomma, sono finiti i tempi in cui per confessarsi i fedeli dovevano patire il freddo e la scomodità degli inginocchiatoi di pietra. Dopo tutto ci si deve adeguare ai tempi. Le penitenze però, sempre secondo il giornale, saranno “comminate alla vecchia maniera”. L’onore è salvo!

Ognuno fa quello che gli pare, ma quei 24.000 euro mi fanno arrabbiare, soprattutto perché potrebbero essere stati usati meglio e perché sono soldi sprecati, dato che l’unica vera confessione di cui parla la Bibbia è totalmente gratuita e può essere fatta in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, senza bisogno di preti e confessionali. Parlando direttamente a Dio e all’unico suo mediatore, il Signore Gesù Cristo.

L’Apostolo Giovanni ha scritto che “se confessiamo in nostri peccati, Egli (Dio) è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:9). Il Signore Gesù ha pagato sulla croce per i peccati di tutto il mondo e ha dato la sua vita al posto di tutti i peccatori. La salvezza da Lui acquistata è totalmente gratuita e donata a chi si rende conto di meritare solo l’inferno, si ravvede veramente di cuore, si arrende a Cristo e decide di vivere per Lui.

Lo hai fatto?
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Lo sapevate che.... dormire è bello?

Il mattino ha l’oro in bocca. Chi dorme non piglia pesci.

Molti proverbi popolari, più o meno esplicitamente, incitano all’operosità, a approfittare delle ore del mattino e a non essere pigri. E, sotto sotto, a dormire di meno.

Onestamente, se io non mi alzo presto la mattina, mi sento la coscienza piuttosto sporca. Mi pare di avere perso del tempo prezioso e di essere stata poco “donna di Proverbi 31”. Proverbi a parte, alzandosi presto, la giornata rende molto di più.

Sia come sia, ho letto delle cose interessanti, che forse incoraggeranno le dormiglione e rallenteranno le troppo attive. Eccole.

A quel che pare, cercare di dormire poco fa più male di quello che si pensa. Dormire almeno otto ore a notte sarebbe di grande aiuto. Qualcuno ne consiglia addiritura 10, ma deve essere uno che vive sulla luna o non è mai vissuto in una città come Roma o Milano, in cui si vive a scappa e fuggi.

Il sonno dovrebbe aiutare la memoria (questo mi ha toccato in modo particolare perché, personalmente a causa dell’età, dimentico molto. Mio marito afferma che i giovani dimenticano quanto i vecchi e che la sola differenza è che non se ne preoccupano! Sarà...).

Secondo uno studio dell’Università di Harvard, negli Stati Uniti, delle persone che sono state (poverette!) obbligate a non dormire per 35 ore di seguito, hanno reso molto meno di chi aveva dormito regolarmente (per capirlo, non ci vogliono i cervelli di Harvard. Se non si dorme si diventa come zombie!). In ogni modo, molti studiosi pensano che il cervello continui a immagazzinare informazioni anche mentre dorme. Non capisco come faccia, ma è incoraggiante.

Dormire farebbe anche bene alla linea. Sembra che il sonno influisca sugli ormoni che dicono al corpo quando deve cominciare a mangiare e quando fermarsi. Dormire poco aumenta il desiderio di mangiare e rallenta il metabolismo. Ergo, si mette su peso.

Altro beneficio del sonno: migliora la pelle (ascoltate, donne dalla pelle “matura”, come dice la crema che uso io!). La scarsità di sonno impedisce al nostro corpo di assorbire in quantità sufficiente i nutrimenti della pelle, col risultato che questa diventa meno elastica e più floscia. Il nostro corpo usa un terzo del tempo in cui dormiamo per riparare le nostre cellule.

Infine, secondo altri studiosi, dormire allungherebbe la vita. Pare che, soprattutto le donne che dormono meno di 7 ore su 24, abbiano un tasso di mortalità del 21% superiore a quello delle donne che dormono di più e sono più riposate. Mentre le ragioni non sono chiare, la mancanza di sonno è stata associata con la pressione alta, il diabete e la depressione.

A parte quello che dicono gli esperti, il riposo della notte e il sonno sono un vero miracolo: si va a letto stanche morte e la mattina ci si risveglia pronte a affrontare con entusiasmo una nuova giornata. Il Signore che ha dotato il nostro corpo di bisogno di riposo, ci ha proprio create in modo meraviglioso e stupendo, come diceva il Salmista Davide.

Dato che, quando si dorme poco, si diventa più irritabili, acide e scontente, se non insopportabili, dormiamoci su!

Buona notte e alla prossima. Grazie di tutti i vostri bei commenti.

HO UN BAMBINO DI 7 ANNI DEPRESSO... COME POSSO AIUTARLO?

Un anonimo (forse una mamma?) mi ha fatto questa domanda. È una domanda triste, pensando che si tratta di un bambino, che, alla sua età, dovrebbe essere felice e spensierato.

Data la sua giovane età, penso che sarà più facile aiutarlo. Quando sono giovanissimi sono più facilmente influenzabili verso una visione serena e felice della vita.

Dovrei farti alcune domande. Come è la vostra vita di famiglia? Non sta per caso vivendo una separazione dei genitori o un lutto? È un bambino sano, controllato di recente da un dottore? Ha degli interessi? Come passa il suo tempo? È contento a scuola? Impara facilmente? Come è il suo rapporto coi maestri? C’è forse un compagno che è poco gentile con lui?

Non sta per caso usando la “depressione” come un’arma per ottenere quello che vuole? Non voglio pensare male, ma, a volte i bambini sono capaci di tutto.

Caro anonimo, se risponderai a queste domande o mi darai qualche informazione di più, forse potrò darti qualche suggerimento più valido e specifico.
  • In generale, direi che i bambini hanno tutti un grande bisogno di essere lodati per ogni cosa buona che fanno, premiati se si comportano bene e trattati sempre in maniera gentile, anche se devono essere ripresi, corretti e puniti.
  • Devono essere sempre rassicurati del nostro amore e del nostro desiderio di fare loro del bene, anche se dobbiamo riprenderli. Non bisogna mai sgridarli in modo da togliergli la speranza e la fiducia nel nostro amore e soprattutto nell’amore di Dio. Faccio un esempio: mia mamma spesso mi sgridava (a ragione, perché ero una bambina... volitiva), ma quando le chiedevo perdono, non mi perdonava e mi rispondeva con un: ”Vedremo, come ti comporterai in seguito!”

    Questo mi faceva sentire come una condannata senza appello. Se non potevo essere perdonata, cosa potevo fare per meritarmi il favore della mamma? Potevo essere solo scoraggiata.
  • Coi bambini bisogna mantenere le promesse che si fanno, sia che si tratti di ricompense sia di correzioni, e bisogna dire sempre loro la verità.
  • Bisogna scoprire quello che li interessa e coltivare quell’interesse. Prendere del tempo per leggere con loro, giocare con loro, fare cose anche manuali che li interessano.
  • Interessarli a qualche progetto. Costruire qualcosa, fare risparmi con loro per comprare qualcosa o regalare qualcosa a qualcuno. È utile pensare ad aiutare altri.
  • Ogni giorno si deve trovare il tempo di leggere alcuni versetti della Bibbia e pregare con loro, in maniera specifica parlando a Dio dei maestri, dei compagni, dei parenti e rassicurandolo sempre che Dio gli vuole bene e che Gesù amava tanto i bambini.
  • È anche importante parlare di Dio casualmente mentre tu fai i lavori di casa e lui ti sta vicino.

Insomma ho buttato giù delle idee e ho chiesto anche mi marito di consiglirmi. Ora aspetto un tuo riscontro!

Se non mangia... prova “il club del piatto pulito”!

Se non mangia... prova “il club del piatto pulito”!

Certe mamme, se i loro bambini non mangiano, pensano che il mondo stia cascando. Invece, ogni bambino è diverso e ha appetito diverso. Molti usano il cibo come arma sicura per fare i capricci del secolo e attirare l’attenzione. O si impuntano a non mangiare, o vogliono solo una certa cosa, o dicono che gli spinaci li fanno vomitare (e vomitano) o sembrano non saziarsi mai.

Sono stata ospite anni fa, in una famiglia di amici. Avevano una bambina di circa cinque anni che era una lagna ambulante. Niente le andava bene. Soprattutto quando si metteva a tavola.

Primo sbaglio della mamma: “Mia figlia non vuole mai mangiare!” diceva mentre le allacciava il bavaglino attorno al collo. E, naturalmente, la bambina cominciava a frignare: “Non ho fame!”. Doveva essere all’altezza della sua reputazione.... Perché non dire invece: “La mia bambina va matta per gli spaghetti!”?

Secondo sbaglio della mamma: le riempiva il piatto con una porzione che sarebbe stata sufficiente per un adolescente al ritorno dalla palestra.

“Ma perché le dai tanta roba?” ho chiesto.

“Se non faccio così non mi mangia...”

“Ma odierà il cibo fino alla fine dei suoi giorni” ho detto.

“Tu non puoi capire....”

Infatti non potevo capire. Perché doveva mettere all’ingrasso quella povera bambina, insistendo per ore che mangasse e obbligandola anche, a piatto vuotato, a bere sopra tutto un bicchierone di latte?

In altre famiglie ho visto raccontare storielle, imboccando un bambino. Tipo? “Questo è per lo zio Clemente, che ha la pancia taaaaaaaanto grande”, “e questo è per la nonna Cunegonda” e per tutti i parenti fino alla quarta generazione. Ho visto rincorrere, con un cucchiaio colmo di cibo, i bambini che scappavano da tavola. E promettere premi o botte se mangiavano o non mangiavano. Naturalmente senza mantenere incentivi e né minacce.

E ho visto mamme chiamare il dottore, perché “il mio bambino non mangia”. E, se il dottore rispondeva: “Signora non lo sforzi. Mangerà quando ha fame” agganciavano offese. Follie!

A casa nostra abbiamo sempre incoraggiato i nostri figli, quando erano piccoli, a finire quello che avevano nel piatto e avevamo istituito il “club del piatto pulito”. Il segreto per ottenere il successo era mettere poco cibo nel loro piatto (due forchettate di pasta, un pezzetto di carne, un cucchiaio di verdura) e permettere di ripetere fino a che erano sazi. Così non si sprecava cibo, i bambini si divertivano e tutti eravamo tranquilli. La sola cosa che potevano rifiutare era il dolce, se c’era. Se succedeva, era la volta che cominciavo a preoccuparmi io!

L’ho detto in principio: il cibo è un’arma che i bambini usano da maestri. Non glielo permettiamo, se non vogliamo avere in futuro degli anoressici o degli obesi o degli schifiltosi insopportabili.

BELLEZZA SICURA

A me fanno ridere le pubblicità in TV. La signora che sente male alle gengive perché la dentiera le balla. Mette un prodotto e – miracolo! – la dentiera è salda. Salvo a tornare tale e quale, quando la pubblicità è ripetuta la prossima volta. Se uno ci credesse, direbbe che il prodotto vale poco!

Oppure la signora gonfia, che si sgonfia miracolosamente se beve un certo preparato, e poi si rigonfia, per riprendere lo stesso prodotto miracoloso, al prossimo stacco pubblicitario.

Molti anni fa, quando i miei figli erano piccoli, sui giornali c’era, nella pubblicità, la faccia di un uomo triste e soffrerente. La scritta era: “Poverino, come soffre! Non usa il callifugo Ciccarelli!”. Così, quando un bambino piangeva per qualche motivo, i fratelli gli dicevano: “Poverino, come soffre! Non usa il callifugo Ciccarelli...”. E giù le risate. O i pianti dell’interessato.

Fatto sta che, se si bada alla pubblicità, non dovresti mai invecchiare, dovresti camminare sempre a passo scattante e non avere mai un capello fuori posto. A meno che tu non sia Brigitte Bardot, che si può permettere di sembrare una mezza catastrofe, non puoi avere una grinza.

Però nessuna pubblicità dice che dovremmo essere belle e giovani dentro. A questo tipo di bellezza, che non si compra in negozio, non si pensa. Ma non è da trascurare, perché è essenziale.

In un ritaglio di un giornale evangelico ho trovato questi consigli. Ve li passo, in caso vi possano servire. Vengono da un certo signor Sam Levinson, di cui personalmente non ho mai sentito parlare.
  • Per avere labbra attraenti, pronuncia parole gentili, che confortano e aiutano chi ti ascolta.
  • Per avere degli occhi luminosi, sforzati di vedere che cosa c’è di buono negli altri.
  • Per avere dei bei capelli, lascia che il tuo bambino (o il tuo nipotino!) te li accarezzi e si diverta a arruffarli un po’.
  • Per avere una figura slanciata, condivdi il tuo cibo con chi ha fame (in altre parole, mangia meno).
  • Per avere un’andatura elegante e sicura, cammina con la consapevolezza che Gesù ti accompagna ovunque vai e non sei mai abbandonata.

Ho conosciuto donne molto belle, ma che non sapevano di niente. Erano solo preoccupate di apparire nel loro fulgore e, dentro, erano delle perfette oche.

Ho conosciuto anche donne parecchio bruttarelle, che però avevano lo sguardo amorevole, erano pronte a sorridere e non avevano paura, magari, di mostrare un dente un po’ storto.

Ve lo assicuro: vincevano il premio.

BUROCRAZIA ECCLESIASTICA

Le religioni inventate dagli uomini sono veramente un disastro. Tutte, dall’islam al Cristanesimo ufficiale, dalle religioni orientali alle sette che pullulano ovunque, tutte, dico, hanno un denominatore comune: insegnano che l’uomo deve sforzarsi per arrivare in cielo per mezzo dei suoi buoni proponimenti, di buone opere e riti. Eventualmente, ci arriva anche con l’aiuto della grazia di Dio e di intermediari morti e santificati e quello delle preghiere di generosi parenti benevoli e ancora in vita. Il tutto secondo i canoni della casistica e della burocrazia ecclesiastica.

A Roma c’era una volta l’abitudine di mettere in mano ai morti e ai moribondi un obolo per pagarsi l’ingresso in Paradiso (onestamente non so se ora si faccia ancora e se i romani siano diventati più avari o increduli). Certamente si dicono ancora Messe per aiutare i defunti a uscire dal Purgatorio e, fra qualche giorno, i cimiteri si popoleranno di parenti che portano fiori e accendono ceri, per dare una spinta ai cari estinti.

Sempre a Roma, sulla Scala Santa, in giro a Pasqua, la gente sale dolorosamente 27 gradini in ginocchio, pregando, per togliersi sette anni di purgatorio a ogni scalino.

Sentite poi questa: durante i lavori di restauro a un’antica abbazia irlandese è stata trovata in una tomba un’antica pergamena, chiusa in una cassetta che era stata deposta accanto alla salma. Sul documento si legge:

“Patrik, Priore del convento di Lifford, al nostro signore e amico San Pietro, portinaio di Dio onnipossente.
“Noi ti certifichiamo che è deceduto oggi stesso un certo servo di Dio, chiamato Daniel O’Rator, Conte di Croaghgorm. Ordiniamo di condurlo sensa indugi né ostacoli nel regno di Dio. Noi lo abbiamo assolto di tutti i suoi peccati e gli abbiamo concesso la nostra benedizione. Per conseguenza nulla osta a che sia lasciato passare. E affinché sia così gli abbiamo rilasciato la presente lettera di assoluzione, nel monastero di Lifford. Oggi, 30 luglio 1341”.


Nel 1341, la dottrina del purgatorio, assolutamente assente nelle pagine della Bibbia, era già stata definita dalla Chiesa Romana, ma non era diventata ancora dogma. Evidentemente non era tenuta in molta considerazione dal Priore del convento di Lifford, il quale però credeva, erroneamente, che Pietro fosse davvero incaricato di ammettere i defunti in cielo o di respingerli.
Lo ripeto: le religioni umane sono un disastro, perché danno false speranze e nessuna certezza. E questo è crudele, perché, come ad esempio il Cattolicesimo Romano, spesso sono un impasto di verità, di leggende, di tradizioni e di credenze animiste, che illudono le persone, le portano in perdizione e non insegnano la verità.

La verità del Vangelo e degli Apostoli è molto semplice: Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori, è morto al loro posto sulla croce, è risuscitato e ora offre gratuitamente il dono della salvezza a chi crede in Lui e lo accoglie come Salvatore e Signore della sua vita.

Quando ha cominciato la sua predicazione sulla terra, Gesù ha detto: “Ravvedetevi e credete all’Evangelo”. Ravvedersi significa capire e di essere un peccatore perduto e sulla strada dell’inferno, di non avere speranza se non nella grazia di Dio. Credere in chi è e cosa ha fatto Gesù, affidarsi a Lui come unico Salvatore e fare sul serio ubbidendo all’evangelo.

Troppo semplice per essere vero? Pare che per molti lo sia e preferiscano un “vangelo fai da te” oppure l’appoggio della burocrazia ecclesiastica. Ma avranno delle brutte sorprese.

Un salmo al giorno... leva l’ansia di torno

In questo periodo sto rileggendo i Salmi. Alcuni sono tristi e mi mettono angoscia, perché chi li ha scritti aveva tante difficoltà (la parte bella è che aveva l’onestà di parlarne col Signore). Altri salmi sono così gioiosi che mi mettono la voglia di saltare e ballare dalla gratitudine. Tutti mi aiutano a conoscere meglio il carattere di Dio.

Oggi vi propongo di leggere il 33. Lo leggiamo insieme e, se vi sembra una buona idea, prendete qualche nota. Leggere un salmo (o una parte di un salmo) al giorno fa veramente del bene. Provateci.

Nei primi tre versetti, del Salmo 33, il salmista Davide invita a lodare e a cantare e, se sappiamo suonare uno strumento, a suonarlo bene! Poi comincia a elencare le qualità di Dio. Ascoltate!

v. 4 – Dio parla giustamente, opera con fedeltà.
v. 5 – Ama la giustizia e riempie la terra di benevolenza.
v. 6 – È il Creatore di ogni cosa.
vv. 7,8 – Governa i mari e regola l’universo. Tutti lo devono rispettare.
v. 9 – Ha creato ogni cosa dando degli ordini con la sua parola.
v. 10 – È Signore sulle nazioni e manda all’aria i progetti dei popoli.
v. 11 – Non cambia mai.
v. 12 – Chi lo teme è beato, e chi Lui sceglie gli appartiene.
v. 13 – Sa ogni cosa.
vv. 14,15 – Vede tutti gli abitanti della terra, li ha creati e osserva come si comportano.
vv. 18,19 – È buono con chi gli appartiene e lo libera. Lo protegge nell’avversità.
v. 20 – È il nostro scudo.
v. 21 – È santo, cioè il Lui non c’è niente di peccaminoso e cattivo.
v. 22 – Fa del bene a chi si affida e spera in Lui.

Adesso rileggiamo tutta la lista e rallegriamoci, perché Dio si è rivelato in modo così preciso, perché si è fatto conoscere, perché è un Dio personale. È anche un Dio che ci vede fino nel profondo e a cui non possiamo nascondere niente. È un Dio da prendere sul serio, perché non gli sfugge nulla.

È il tuo Dio? O hai un Dio “fai da te” che ti delude e ti lascia vuoto e scontento?

Tirando le somme...

Sul matrimonio si possono dire e scrivere tante cose, ma la base per riuscire è fatta solo e sempre di alcune convinzioni. E Masimo e Alessia cominciano a rendersene conto. Non sono spaventati, ma capiscono che ci devono lavorare.

La prima cosa di cui convincersi è che tutto parte da quello che c’è nella nostra mente. Ripeto: tutto, perfino la decisione di dimagrire. Non dipende dal guardarsi allo specchio e desiderare di togliere un po’ di ridondanze, o dal fatto che vogliamo rientrare nei vestiti che sono diventati troppo stretti o che le nostre amiche benevole ci hanno detto ironicamente: “Ti stai inquartando un po’, eh?”. Dipende dalla seria convinzioni che siamo troppo grasse.

Perfino l’attuazione della venuta di Cristo sulla terra per compiere l’opera di salvezza è dipesa dalla sua decisione e convinzione di ubbidire al piano del Padre Celeste e rinunciare, per un tempo, alla perfezione del cielo. “Egli, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio, qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso....”. “Considerare” è un esercizio della mente, che provoca delle convinzioni da cui deriva ogni altra decisione.

E quando si entra nel matrimonio, secondo me, di convinzioni ce ne vogliono almeno quattro.
La prima è che il matrimonio è per la vita. Il Signore Gesù lo ha detto chiaramente: “Dio li fece maschio e femmina. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi quello che Dio ha unito” (Marco 10:6-9). Pensare che Dio ha inventato il matrimonio per la nostra gioia, dovrebbe spingere a due cose: fare molta attenzione a chi è la persona che si sposa e poi fare tutto il possibile per tenersela stretta, cercando di farle piacere, e mettendo ogni impegno per renderla contenta.

La seconda è capire il proprio ruolo. Se sono una donna, Dio mi ha fatta per essere l’aiuto adatto a mio marito nel bene e nel male, e in ogni fase della vita (Genesi 2:18; Efesini 5:22,32). Perciò mi impegnerò perché diventi un uomo secondo il piano di Dio e cercherò di non fare nulla per ostacolare questo piano.

Se fossi un uomo, mi pare che prenderei molto sul serio il mio ruolo di guida della famiglia e farei tutto il possibile per non rendere troppo pesante il ruolo di aiuto di mia moglie (1 Corinzi 11:3). La curerei teneramente, come ordina la Parola di Dio e cercherei di sopperire ai suoi bisogni morali, fisici e spirituali (Efesini 5:25).

Se nella coppia i ruoli non sono rispettati, non c’è da aspettarsi niente di buono.

La terza è decidere che si troverà un accordo. Se uno mi dice che nel suo matrimonio non ci sono stati problemi, o ha perso la memoria, o è scemo o è bugiardo.

I problemi ci sono e, prima o poi, saltano fuori. Ma l’apostolo Paolo dice ai credenti: “Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Romani 12:18). Perciò cercherò di non irritare mio marito, di capire che cosa gli fa piacere e cosa lo urta e prenderei sul serio i suoi desideri. Sarei la prima a chiedere perdono e a cercare la pace. E se fossi marito, penso che farei lo stesso. E, quando due cercano di farsi piacere, per forza, cadono uno nelle braccia dell’altro.

La quarta è non lasciare ammucchiare torti e offese. L’Apostolo Paolo dice di non lasciare tramontare il sole sui nostri dispiaceri, crucci e ferite (Efesini 4:27). E questo significa parlare, spiegarsi, capirsi, prendersi sul serio e chiedersi perdono, il più presto possibile. Non c’è altro modo.

Le preghiere serali: Una pizza mortale?

Massimo e Alessia trovavano fantastico il tempo in cui condividevano le loro impressioni e scoperte nella lettura biblica. Lei aveva cominciato a leggere da capo i salmi e Massimo stava percorrendo, capitolo dopo capitolo, il libro di Isaia.

“Senti questo che ha detto Davide! Faceva proprio per me, perché stamattina ero un po’ scoraggiata” diceva Alessia.

“Quando hai finito i salmi, leggiti Isaia. È incredibile quanto Vangelo c’è dentro!” commentava Massimo.

Però, quando era il momento di pregare, era un po’ come se un palloncino perdesse aria e si afflosciasse.

Di solito, cominciva Massimo, come capofamiglia, faceva al Signore la lista dei parenti, ringaziava per la buona giornata e chiedeva una buona notte; a volte nominava il lavoro o un malato della chiesa. Amen.

Quando veniva il turno di Alessia, bene o male, Massimo aveva detto tutto. Non era il caso di ripetere le richieste, perché il Signore le capiva alla prima. Perciò lei se la cavava con un paio di frasi, sempre le stesse e i due arrivavano all’amen finale. Possibile che fosse così noioso pregare col proprio marito?

Alessia aveva un’amica molto cara, sposata da alcuni anni. Un giorno, si fece coraggio, prese il telefonino e la chiamò: “Pronto, Sara?”.

“Ciao, Alessia, dimmi tutto.”

Alessia un po’ si vergognava, ma poi disse: “Tu e Franco pregate insieme, vero?”.

“Certo, ogni sera.”

“Ma lo trovate stimolante?... Sai, io e Massimo, sembra che diciamo sempre le stesse cose... come se dicessimo il rosario evangelico... Ci sembra che qualcosa che non funzioni.”

Sara capì al volo, perché anche a lei e suo marito era capitato di trovare dificile non cadere nella routine del “rosario evangelico” come lo aveva chiamato Alessia. Perciò disse subito: “Io e Franco preghiamo a conversazione e lo troviamo bello e utile”.

“Ma che vuol dire? Che pregate come si parla e non con preghiere complicate e con paroloni difficili?” chiese Alessia.

“No. Adesso ti spiego. Quando ci siamo sposati, con Franco avevamo deciso di pregare la sera. Abbiamo fatto l’errore di pregare a letto. A volte cominciavo io, ma dopo poco, dalla parte di Franco veniva un respiro troppo lungo e regolare. Si stava addormentando. E quando cominciava lui, idem con me”.

“È esattamente quello che succede a noi!”

“Proprio allora ci è venuto sottomano un giornale che spiegava la bellezza di pregare a conversazione. Si tratta solo di un modo molto semplice. Uno comincia a lodare il Signore e poi si ferma, così l’altro può continuare con altre lodi e ringaziamenti. Poi si ringrazia per la giornata, il lavoro in ufficio, il parcheggio trovato, una visita utile fatta a un amico. A ogni argomento, ci si ferma e si dà all’altro il modo di aggiungere qualcosa, se vuole. Se no, si passa a un altro soggetto. È molto bello quando si comincia a pregare per le persone, perché, allora, si aggiungono particolari, richieste e così via... Molto spesso preghiamo anche per i soggetti proposti in chiesa...”

“Ma non vi sentite un po’ strani?” interruppe Alessia.

“All’inizio, un po’ sì, perché è un modo di pregare a cui non si è abituati, ma poi ci si abitua e sembra la cosa più naturale, conversare con Dio che è lì con noi, come ha promesso; anzi, ora mi sembra strano sentire varie persone che pregano una dopo l’altra con delle preghiere “complete” che finiscono con l’amen. Ti assicro che la nostra preghiera in comune è cambiata dalla notte al giorno. Ci fa sentire davvero una sola cosa.”

“È un’idea; ne parlerò con Massimo” disse Alessia.

E la cosa ha funzionato. Niente più respiri lunghi e regolari da parte del partner e molta più vita e freschezza in tutto lo scambio di lodi e richieste al Signore. E anche una maggiore intesa e unità nella preghiera.

Se vi pare un’idea da provare, fate pure! Ne parleremo ancora, se necessario, ma la prossima volta torneremo sull’importanza di diventare “uno”.
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Il matrimonio non è come pensavo: Che fare?

Volere o volare, dopo il fatale “sì”, la realtà ti viene addosso. Ed è venuta addosso a Massimo e Alessia. Stanno capendo che il matrimonio non è un fidanzamento. Non è una passeggiata tenendosi per mano. Non è un convegno evangelico in cui si canta e si prega e si fanno progetti e proponimenti. È una realtà che si deve vivere, una macchina che si deve far funzionare, una nuova situazione che si deve affrontare, ma non affondare.

La prima cosa, di cui per necessità e esperienza si sono capacitati, è che il matrimonio è composto da due peccatori. Nella lettera ai Romani sta scritto: “Tutti (dico: tutti) hanno peccato” e “in me cioè nella mia carne non abita alcun bene”. E Giacomo, nella sua epistola, afferma: “Tutti falliamo in molte cose”.

Massimo si rende conto che Alessia sbaglia e pecca, e Alessia vede che Massimo pecca, almeno sette volte al giorno come dice la Bibbia.

La matematica non è un’opinione . Un peccatore più una peccatrice fanno un grosso peccatore o due peccatori. E su questa realtà devono lavorare, dato che tutti e due sono egoisti e orgogliosi. Tutti e due pensano, pur essendo credenti, di essere nel giusto e che sia l’altro quello che deve cambiare.

Piano piano, si rendono conto che non vale la pena predicare all’altro. Perciò devono lavorare su se stessi. Non è una scoperta piacevole, ma se la vita cristiana deve essere un cammino lento e faticoso verso la perfezione e se il matrimonio è un impegno a considerare il coniuge più importante di noi stessi, c’è qualche provvedimento da prendere.

Piccole cose, ma Alessia comincia a passare lo straccio sul pavimento di cucina ogni sera e Massimo le svuota la lavastoviglie.

Poi, bisogna affrontare il fatto che ognuno è il prodotto della sua famiglia e il bagaglio che ognuno si porta appresso è più consistente di quello che si pensava. Massimo non assomiglia e non si comporta come il papà di Alessia e Alessia non fa il letto come la mamma di Massimo. Non hanno gli stessi gusti. Uno è sportivo e l’altro è no. A uno piace la vita metodica e l’altro prende le giornate alla “come viene viene”. A lui piace guardare “Quark” e le partite. Lei preferisce “Sereno variabile” Anche su quello, bisogna lavorare.

Fare ognuno come gli pare? Non funziona. I due trovano un compromesso. Due giorni in palestra per uno. E una passeggiata alla settimana per tutti e due. Sulla televisione cede una volta lei e una volta (o due?) lui.

A scriverlo, qusto processo, ci vogliono due frasi. A metterlo in pratica, ci vogliono molti mesi. Ma l’importante è riuscire.

Per la vita spirituale, hanno capito che non possono dipendere uno dall’altro. Devono imparare a funzionare indipendentemente, per certi versi e per altri no. Anche per questo c’è voluto un compromesso: faranno il loro raccoglimento separati e la sera si racconterano le loro scoperte e le loro riflessioni. Ci hanno preso un gusto matto. È uno dei momenti più belli della giornata.

Per la preghiera.... ve lo racconto la prossima volta.

Pensando al matrimonio: Le realtà

Massimo e Alessia, fanno vita a due. Hanno il loro appartamentino, lavorano tutti e due e stanno bene. Lei si meraviglia ancora un po’ quando qualcuno la chiama “signora” e lui si sorprende quando gli chiedono: “Come va tua moglie?”.

Eh sì, sono marito e moglie a tutti gli effetti. Il giorno del matrimonio è stato fantastico, con tutti i parenti e gli amici che ti auguravano ogni bene. Il viaggio di nozze pure (anche se la prima notte è stata un po’ deludente). Ma nell’insieme è stato bello. Lei ha fatto un po’ di storie per il cibo greco che non le piaceva e lui preferiva stare al bordo della piscina, mentre lei avrebbe avuto piacere di andare in giro a vedere il paesaggio e arrampicarsi sulle colline per vedere tutto quello che era possibile vedere. Piccolezze.

Ora hanno incominciato la vita normale. Lui lavora in banca e lei insegna alle elementari.
La sera si ritrovano ed è un grande piacere. Cucinano insieme e mangiano insieme ridendo dei loro esperimenti culinari. Ogni tanto, proprio ogni tanto, si trovano a non essere d’accordo. Lei pensa che lui potrebbe aiutarla anche a sistemare la cucina, invece che sprofondarsi sul divano a guardare la TV e lui si rende conto che Alessia, per certi vesi è molto pignola, per altri non è così ordinata come sembrava.

“Mia mamma passava lo straccio in cucina ogni sera!” dice.

“Non è necessario, se non è sporco!” risponde lei (e pensa che, se proprio lo vuole pulito e splendente, come quello di mamma sua, perché il pavimento non lo lava lui?).

Piano piano, ognuno si rende conto che l’altro non è perfetto e che lei ha sposato un peccatore e lui una peccatrice.

Lei ha l’impressione che Massimo sia piuttosto insensibile. “Se avesse a che fare ogni mattina con 23 ragazzini, capirebbe che sono stanca e si darebbe una mossa a aiutarmi!” pensa. E lui, volere o no, la confronta con sua madre e, perfino, con sua sorella, con cui si beccava tutto il tempo. Gli sembra che Alessia abbia ancora molto da imparare. E poi gli fa un po’ troppe prediche. Non intendeva sposare una maestra personale. Lui ha bisogno di una persona comprensiva (come sua mamma!).

Quanto a curare la vita spirituale di coppia, lo trovano un po’ difficile. Leggono insieme la Bibbia, è vero, ma affrettatamente e anche le preghiere sembrano sempre un po’ le stesse. Sembra sempre che Massimo non pensi ad altro che a andare a letto (con Alessia, naturalmente!).

Poi, cosa ancora più grave, sembra anche che la vita spirituale personale non vada a gonfie vele. C’è molto meno tempo di prima, dovendo pensare alla spesa, alla casa, agli impegni con parenti e amici. Non è facile leggere la Bibbia regolarmente (prima di sposarsi Alessia si era proposta di leggere la Bibbia in un anno!) e il suo quaderno di preghiera spesso rimane chiuso.

Dove sono andati a finire i ben proponimenti prematrimoniali? Passerà, pensano. Ma non passa.

Alla prossima!
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