C’è un serpente nel mio giardino: si chiama golosità


Sono stata sei mesi in Inghilterra, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Anche lì era finita da non molto l’epoca delle tessere annonarie e delle restrizioni sui cibi.

Il cibo inglese non è niente di cui vantarsi, ma i cioccolatini inglesi sono deliziosi. Certi negozi ne avevano le vetrine piene. Avreste dovuto vedere come la gente si fermava a guardare, osservare, commentare. E poi entrava e usciva con dei bei pacchetti gonfi e ben confezionati. Durante la guerra ne avevano dovuto fare a meno; ora potevano finalmente godere! E ne ho goduto anch’io.

Il gusto e la capacità di assaporare i cibi, di distinguere fra dolce e amaro, fra salato e sciapo è un dono di Dio. Un grande dono: rende la vita più bella e varia.

Ho conosciuto un uomo che era caduto, aveva battuto la testa malamente e aveva perso il senso del gusto. Tutto per lui era “cibo”. Non poteva distinguere una patata da una bistecca, se non dall’aspetto e la consistenza. Niente aveva sapore. Poveraccio, che tristezza!

Come tutti gli altri nostri sensi, anche il gusto e la voglia di gustare devono essere tenuti sotto controllo. Se non lo facciamo il serpente della golosità, che si aggira tutto il tempo nel nostro giardino, si mette in moto e si dà un gran da fare. Ha  cominciato a tentare Eva per mezzo di un cibo bello e attraente. Ci sa prendere!

Si comincia a usare il gusto per istinto, da piccoli, succhiando il latte della mamma. Buono! In più, Dio ha messo in noi lo stimolo della fame e il desiderio di nutrirci. Così mangiamo, cresciamo, prendiamo forza, ci sviluppiamo.  Il nutrimento ci permette di muoverci e di funzionare.

Il cibo è importante. I genitori godono nel vedere i loro bambini che mangiano bene, li lodano perché finiscono tutto quello che hanno nel piatto. Nei primissimi mesi e anni di vita, il cibo è quasi la cosa più importante nel rapporto fra genitori e bambini. Quasi più delle carezze. È così importante che diventa presto l’arma segreta e vincente che i bambini maneggiano per ottenere ciò che vogliono.

“Non mi piace... non lo voglio... non ho fame...”. E le mamme ci credono. Perciò danno da mangiare patatine invece di frutta a merenda e brioches e biscotti invece di pane burro e marmellata a colazione. Non parliamo poi di come si nutrono gli adolescenti, che fanno a gara per visitare McDonald’s.

Il cibo può diventare un dio in molte famiglie. Se ne parla, lo si cerca, lo si adora, ci si abbuffa. E il corpo si ingrassa, il fegato ne soffre e la pressione del sangue va su. Del peso non si parla.  

La trappola del cibo è che, anche se consumato in gran quantità, non danneggia il cervello, come fa invece il vino. Perciò uno può ragionare a meraviglia e diventare una botte (pensi anche tu a Giuliano Ferrara?) senza risentirne. In America, ho visitato con mio marito molte chiese evangeliche sanissime quanto alla dottrina. Ho sentito molti pastori (magari con misura di vita XXL) tuonare contro l’uso del vino, ma uno che tuonasse contro l’uso eccessivo del cibo e i mali dell’obesità non l’ho mai sentito. Come mai?

La Bibbia dice dobbiamo essere “temperati”, che significa moderati, in ogni cosa (quindi anche nel cibo). E Paolo affermava che teneva il suo corpo “in schiavitù, perché non avvenga che, avendo predicato agli altri, io stesso sia squalificato” (1 Corinzi 9:27). Bravo!

Come fare? Come sempre, il caro libro dei Proverbi ci viene in aiuto: “Quando ti siedi a mensa con un principe, rifletti bene su chi ti sta davanti; mettiti un coltello alla gola se sei ingordo” (23:1).

Dato che, di solito, da buoni credenti, preghiamo prima di mangiare e siamo alla presenza non di un principe qualsiasi, ma del Re dei re, pensiamoci, prima di chiedere (o di accettare) un bis. Funzionerà.

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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama autocompiacimento


Io odio il fegato. Non mi piace né come sapore né come consistenza.  Però, quando lo dico a qualcuno, la risposta spesso è: “Se tu lo assaggiassi come lo cucino io (o come lo cucina mia mamma) ti piacerebbe e cambieresti idea”.   Sarà, ma non ci credo. Punto.

Fegato o no, un po’ convinti di essere “er meglio”, come dicono a Roma, almeno in qualcosa, lo siamo tutti. 
Abbiamo tutti il nostro piccolo e privato serpentello di autocompiacimento a cui teniamo e che non consideriamo affatto pericoloso. Mentre, invece, lo è.  

Forse, sarà per come teniamo la casa, per come svolgiamo il lavoro in ufficio, per la scuola che abbiamo frequentato, o la chiesa a cui apparteniamo o la regione o nazione da cui proveniamo o il modo in cui educhiamo i nostri figli o curiamo il marito. Sarà quello che sarà, ma, bene o male, tutti ci vantiamo e il serpentello del nostro autocompiacimento ci accompagna tutto il tempo.

Naturalmente non siamo così sfrontati come quel cavaliere medioevale che affermava: “Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata!”.  Siamo molto meglio di lui e gestiamo il nostro autocompiacimento con maggiore prudenza. Per esempio, facciamo precedere i nostri autoelogi da frasi come “modestamente parlando” o “nella mia pochezza” (frase caratteristica dei predicatori!) o “lo dico solo perché mi conosci e sai che è vero”, o ancora “correggimi se sbaglio” (ma non lo fare!).  

La realtà di fondo è che, purtroppo, siamo tutti orgogliosi, superbi e abbiamo di noi stessi un’opinione ultrapositiva.  Non ci credete? Basta pensare che arriviamo perfino a autocompiacerci dei nostri difetti! 
Fateci caso. Lo sentiamo e lo diciamo: “Perdo la pazienza... sono gelosa... non lo sopporto...”. Però, la conclusione di solito è: “Purtroppo sono fatto (o fatta) così! Prendetemi come sono!”.

L’Apostolo Paolo esortava i credenti di Roma dicendo: “Dico a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la  misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno... Avendo pertanto doni differenti, secondo la grazia che ci è stata concessa, se abbiamo dono di profezia, profetizziamo... se di ministero attendiamo al ministero... se di esortazione all’esortare... chi dà, dia con semplicità, chi presiede lo faccia con diligenza, chi fa opere di misericordia le faccia con gioia” (12:3-8).

Ci sono sempre mille cose che dobbiamo ancora capire e imparare, perciò diamoci una calmata, prima di metterci in cattedra.  C’è ancora tanta umiltà da imparare e esercitare, tanta pazienza da usare. Tanto autocompiacimento da tenere sotto controllo e da ridimensionare.

Il Signore Gesù sapeva tutto, conosceva tutto e capiva tutto. Eppure ha detto: “Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore”. Una persona mansueta è una persona domata, capace di ubbidire, ascoltare, consigliare con amore. Col suo aiuto, imitiamolo.

E quando ci riusciamo, diamo a Lui la gloria e ripetiamo le parole di Isaia: “Signore, tu ci darai la pace; poiché ogni opera nostra sei tu che la compi per noi!” (26:12).

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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama invidia


Invidiare significa, secondo il dizionario Zingarelli, “provare un sentimento di rancore e di astio per la fortuna, la felicità o le qualità altrui”.  Biblicamente, significa provare un sentimento che trasgredisce il decimo comandamento che ordina di “non desiderare (la Riveduta dice “concupire” che è molto più efficace e grafico) la casa, la moglie del tuo prossimo né la sua serva, il suo bue, il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

La Bibbia racconta di dieci fratelli che odiavano e invidiavano  tanto un loro fratello che decisero di ammazzarlo. Unicamente per la pietà di uno di loro, finirono “solo” per venderlo come schiavo e gli risparmiarono la vita. Si tratta di Giuseppe e dei suoi fratelli e la loro storia si trova nel Libro della Genesi dal capitolo 37, fino alla fine del libro. Vale la pena leggerla, perché contiene anche il rimedio per vincere il serpente dell’invidia. Un serpente mortale, che abita anche nel mio giardino. E nel tuo.

A volte crediamo che la nostra sia un’invidia “buona”. Vorrei sapere fare questo o quello come il tale o il talaltro. Vorrei avere quello che ha il tale, per... Vorrei conoscere la Bibbia come... Vorrei un marito come... Se avessi una moglie come... Vorrei una macchina, una casa, un lavoro, una famiglia, una capacità come...  E dopo il “come” aggiungiamo un nome: Gino, Anna, Giorgio, Tizio, Sempronio. E lì, casca l’asino. Stiamo invidiando qualcuno e Dio ordina di non farlo.

L‘invidia non è mai buona. Salomone ha scritto nel Libro dei Proverbi: “Un cuore calmo è la vita per il corpo,  ma l’invidia  è la carie delle ossa” (4:30).  Non è mai buona perché indica insoddisfazione, insicurezza, scontentezza per quello che Dio ci dà o ci ha dato. E anche pigrizia.

Vorresti conoscere la Bibbia come il Tale? Applicati, leggila di più e studiala. Procurati dei libri, dei commentari e  consultali. Vorresti avere una casa pulita e ordinata come ...?  Alzati prima e mettila in ordine. Fai come Guglielmo, mio marito, che ammetteva di provare un po’ di invidia per chi aveva fatto il Seminario, mentre lui aveva studiato solo psicologia e giornalismo. Ebbene, si è iscritto a dei corsi speciali e, a circa 50 anni, si è preso la laurea in teologia anche lui. A pieni voti.

L’invidia non è un serpente che morde e avvelena come il rancore, ma è un serpentello che sta lì e sibila piano piano. Guarda quello... vedi quella... immagina... E ti rode.

Per tenerlo a bada (non illuderti di vincerlo una volta per tutte!) il metodo è abbastanza semplice.

Comincia a ringraziare Dio per come sei e per i doni che ti ha dato. Hai delle qualità da sviluppare, delle capacità da usare, delle potenzialità da valorizzare? Mettile a disposizione di Dio e Lui le userà.

I discepoli sapevano pescare e Dio li ha trasformati in pescatori di uomini. Paolo era un dottore della legge e Dio ne ha fatto un apostolo straordinario. Lidia era mercante di porpora e Dio ne ha fatta una donna ospitale, utile e generosa. Tabita sapeva cucire e usava quello che sapeva fare. Quando è morta, che testimonianza ha lasciato! Degli armadi pieni di vestiti per i poveri!

Seconda cosa: apprezza le capacità che hai, non cercare di essere quello per cui Dio non ti ha fatto.  Non tutti possiamo essere musicisti, scienziati, poeti o medici. Un buon muratore è valido quanto un architetto. Uno progetta e l’altro esegue.

Terza cosa: impara a rallegrarti di quello che hai. Paolo ha scritto, lui che aveva studiato, che poteva vantarsi della sua famiglia e dei suoi titoli: “Ho imparato a accontentarmi dello stato in cui mi trovo”  (Filippesi 4;12).  Non invidiava la ricchezza di Filemone, l’oratoria di Apollo, la prestanza fisica di chi era più giovane e più sano di lui. Diceva piuttosto con grande umiltà : “Per la grazia di Dio sono quello che sono” (1 Corinzi 15:10). Certamente parlava del suo servizio e della sua salvezza, ma si rallegrava anche del  fatto che Dio lo stava usando.

Anche noi, se ricordiamo che se abbiamo un cervello che ragiona, una mente che pensa, un corpo che funziona è solo merito e frutto della grazia di Dio, e che Lui ha scelto esattamente per ognuno di noi la mente, il cervello e il corpo che abbiamo, avremo ampie ragioni per non invidiare l’erba del vicino, ma di coltivare con molta cura quella del nostro giardinetto. 
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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama rancore


“Puoi immaginare una cosa simile? Avevo raccolto un po’ di fiori di campo, li avevo messi in un bicchiere e mia cognata me li ha buttati dalla finestra. Me la son legata al dito!”

Chi mi parlava era una donna vecchia, credente da anni. Sapeva molto della Bibbia, ma quello  “sgarbo” che una cognata le aveva fatto almeno mezzo secolo prima, non le era mai andato giù. E, mentre me lo raccontava, i suoi occhi erano cattivi, come se la cosa fosse successa dieci minuti prima.

Il serpente chiamato “rancore” è uno dei più terribili e velenosi. Ti rode, ti morde, ti tormenta. Riaffiora con la sua testa malvagia e - zacchete! – ti azzanna. Purtroppo si aggira nel giardino di ogni persona, credente o miscredente che sia.

Qualcuno ci dice una parola poco gentile, o non ci chiede scusa per una dimenticanza, o fa un commento cattivo su uno dei nostri figli, su nostro marito o su nostra moglie o, addirittura, ci ferisce profondamente, lui sbuca fuori dall’erba e si mette a strisciare. Non fa rumore, ma è lì. Aspetta.   

Noi, dal canto nostro, ne parliamo col Signore, se siamo credenti.  Gli diciamo che siamo addolorati, tristi, offesi, che pensiamo di essere nel giusto. Piano piano,  ci viene voglia di vendicarci,  ma questo al Signore non lo diciamo!

Non ci vengono neppure in mente le parole dell’Apostolo Paolo: “Non fate le vostre vendette, miei cari... non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene” (Romani 12:19,21) e neppure ricordiamo l’ammonimento di Giacomo: “Ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte” (1:14,15). In un credente non produce la morte spirituale, ma alza una barriera fra lui e Dio. E il serpente, chiamato rancore, striscia un po’ di più e si avvicina. Questa volta, morde.

Non sto solo raccontando una favola: parlo di una realtà che ho sperimentata. E sono sicura, che lo hai provato anche tu, almeno una volta.

Però conosco anche il rimedio che mette in fuga il serpente chiamato rancore. È un rimedio semplice che si chiama “perdono”. E bisogna usarlo al più presto!

Molti mi hanno detto, con tono magnanimo: “Se mi chiede perdono, lo perdono!”.

“Sbagliato!” ho detto io.

“Perché sarebbe sbagliato? È solo giusto!” hanno risposto.

“No. Se aspetti che ti chiedano perdono per perdonare a tua volta, il tuo è solo un perdono umano. È un ‘io ti dò, se tu mi dai’.

“Il perdono cristiano, che ha insegnato Gesù, è diverso. È perdonare per primo, che te lo chiedano o no. Egli lo ha fatto sulla croce nei confronti di quelli che lo stavano uccidendo e insultando. Lo ha fatto Stefano, il primo martire, verso quelli che lo lapidavano e l’ha fatto l’Apostolo Paolo verso chi gli aveva fatto del male.

“Il perdono fa bene a te, perché ti scioglie quel nodo allo stomaco che ti fa male e che vuole vendetta, perché è un’ubbidienza a un ordine preciso di Dio. È un sine qua non. O ubbidisci o stai male”.

Nel momento preciso in cui dici: “Io perdono”, il serpente si allontana. Non se ne va per sempre. Resta sempre in agguato, ma questa volta se ne sta con la coda, se l’avesse!, fra le gambe.
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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama solitudine


“Mia moglie non mi capisce. Se mi capisse, mi lascerebbe in pace quando torno a casa dal lavoro.”

“Mio marito non mi capisce. Se mi capisse, una carezza ogni tanto me la farebbe”.

“I miei genitori non mi capiscono. Se mi capissero, mi lascerebbero in pace a farmi i fatti miei”.

Almeno una volta nella vita, tutti ci siamo sentiti soli. 
Terribilmente soli.

Quando ci morde, nel nostro giardino, il serpente della solitudine, di solito è perché ci sembra che nessuno, ma proprio nessuno, si occupi di noi. Riesce a morderci anche se siamo in un convegno di mille persone, o in compagnia di una persona a cui vogliamo bene. Morde meglio,  quando ci pare che nessuno si accorga di noi. Io telefono e nessuno mi telefona. Io  scrivo e nessuno mi scrive. Io stendo la mano e nessuno me la stringe. In genere, non è vero. Ma così ci sembra.

Uno solo ci può capire a fondo quando siamo soli: Gesù.

Nessuno è stato tanto solo quanto Lui, quando era sulla terra. Non aveva una moglie. Non aveva una casa. Aveva una madre, fratelli e sorelle, che non lo capivano. La gente non lo capiva. I discepoli lo ascoltavano e spesso non lo capivano. I religiosi lo odiavano e dicevano che faceva i miracoli per opera di Satana. La gente lo seguiva e Lui si rendeva conto che lo seguiva perché moltiplicava il pane e li guariva dalle malattie.

La notte spesso si ritirava per parlare e comunicare col suo Padre celeste. Ma, come uomo, era solo.

Che cosa mi rende “solo”?

Se non sono credente, sono separato da Dio, lontano da Lui. Posso cercare di divertirmi e di distrarmi, ma quando rientro in me stesso sono totalmente solo. Separato da Dio, con una barriera che mi divide da Lui.

Se sono credente e mi sento solo, spesso la ragione è la stessa: ho peccato.  Ce l’ho con qualcuno, devo 
perdonare qualcuno, sono offeso, deluso, provo rancore. Peggio ancora: ce l’ho con Dio.  Il mio peccato di credente  mi tiene lontana da Lui.

Come ha vinto la solitudine Gesù? L’ho detto poco fa: cercava la comunione con suo Padre e diceva: “Colui che mi ha mandato è con me, egli non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli piacciono” (Giovanni 8:29).  Se faccio quello che Dio mi comanda e sono in armonia con Lui, forse sarà un po’ solitario, ma non sarò “solo”.

Personalmente ho trovato utile fare alcune cose.

  • Guardo la realtà in faccia. La solitudine è un fatto della vita. Una volta o l’altra la devi affrontare.
  • Curo la mia vita spirituale, senza appoggiarmi su nessuno. Molti uomini di Dio si sono sentiti soli e Dio è venuto in loro aiuto. L’apostolo Paolo, mentre era da solo in prigione,  scriveva a Timoteo: “Nella mia prima difesa nessuno si è trovato al mio fianco ma tutti mi hanno abbandonato... Il Signore però mi ha assistito e mi ha reso forte, affinché il mio messaggio fosse proclamato ...” (2 Timoteo 4:16).
  • Credo alle promesse del Signore. “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò” (Ebrei 13:5), “Quelli che conoscono il tuo nome, confideranno in te, perché, o Signore, tu non abbandoni quelli che ti cercano” (Salmo 9:10).
  • Cerco qualcuno più solo di me. Non per piangere sulla sua spalla, ma per confortarlo. Funziona.
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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama abitudine


Alcune donne americane di origine italiana, discuteveno su come preparare e cucinare le polpette.

“Io ci metto la salsiccia.” “No, la salsiccia non ci vuole: solo carne di manzo magra.” “Meglio pollo e mollica di pane.” Poi la discussione continuava, se ci vuole l’origano o il peperoncino, il pane grattugiato o l’uovo, se si friggono o si saltano in padella. Ogni donna giurava sulla sua ricetta come veramente italiana. Le poverette non sapevano che ogni donna italiana fa le polpette con la sua personale, privata e precisa ricetta. E che ogni regione italiana, in ogni modo, ha le sue ricette. Le migliori, naturalmente.

Quando mi hanno chiesto cosa ci mettevo io, italiana doc, nelle mie polpette, e ho risposto: “Quello che ho!” mi hanno guardata come se venissi da Marte. Non era possibile!

Io, mentre le ascoltavo, pensavo a quanto le abitudini governano la nostra vita. Ti danno sicurezza, ti aiutano a funzionare, dal modo di cucinare le polpette a dove si va in vacanza. Imprimono il ritmo della giornata. Sono lo schema secondo cui ci si muove.  Le abitudini sono buone e ti fanno da  stampella.

Invece, c’è una nemica mortale della nostra vita, e specialmente del matrimonio. Non si chiama abitudini, ma abitudine, al singolare.  Mi spiego: abitudine, significa tirare i remi in barca, lasciarsi scivolare con la corrente, non cercare mai niente di nuovo, di fresco, di attraente. Significa apatia, mancanza di entusiasmo e di aspettazione. Vivere ogni giorno come l’altro.

Quando nel mio giardino mette piede e fa il suo nido il serpente dell’abitudine, le cose si mettono male. L’abitudine è piatta, noiosa, opaca. Rovina la relazione del marito con la moglie, dei genitori coi figli, ammazza anche la vita di una chiesa. Non c’è più niente che ti entusiasma, che ti dà una spinta. Non c’è più vita. È noia totale.

Con l’abitudine si affievolisce spesso l’unione fra coniugi, a cominciare dalla loro unione sprituale.  Lui fa sempre la stessa preghiera. Lei legge sempre gli stessi salmi e non trova niente di entusiasmante da condividere col marito. Quando assistono a uno studio biblico, non trovano niente di stimolante di cui parlare.

Dopo di che, anche l’unione morale scricchiola. Lui si immerge nei suoi hobby e lei si butta sui nipotini. Se non li vede tutti i giorni, non sa cosa fare.

Dell’unione fisica non si parla neppure. Non c’è più attrazione. Lui ci starebbe ancora, almeno qualche volta, ma lei “non si sente”. Tanto è sempre la stessa solfa, una semplice abitudine. “Che barba! Che noia!” come diceva Sandra Mondaini. 

Al serpente dell’abitudine si deve fare molta attenzione, perché le situazioni non restano mai allo stesso 
punto. Il marito può trovare una collega molto più  interessante della moglie e la moglie può decidere di andare molto troppo spesso a dare una mano alla figlia che abita lontano. Con quello che ne può derivare e seguire...

Che fare? Pensarci a tempo.

Fare cose insieme, pianificare qualche uscita, magari solo per una pizza. Non fare vacanze sempre e solo con amici o con parenti, ma funzionare come coppia. Condividere quello che si legge. Stare insieme, viaggiare, ospitare. Coltivare l’unione. Cantare e camminare insieme. Ripetersi che si sta bene insieme. Al ritorno da un mio viaggio, mio marito mi ha fatto trovare una nostra foto con scritto: “Ecco due persone che si vogliono bene, che stanno bene insieme e stanno meglio quando SONO insieme”. L’ho incorniciata e appesa nel bagno!

Non aspettarsi l’impossibile. Lodare più che criticare. Incoraggiare più che sgridare. Esercitarsi nel servirsi reciprocamente. Chiedersi: che cosa gli fa piacere, che cosa la potrebbe aiutare, come lo posso stimolare, cosa le direi se fossimo ancora fidanzati...

Infine, parlare per trovare un’intesa e decidere che si troverà un’intesa.

A volte è più facile che uno dei due si renda conto per primo che l’abitudine è in agguato. Farà bene a alzare la bandierina rossa e prendere provvedimenti!
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C’è un serpente nel mio giardino: si chiama egoismo


Mentre Eva era nel giardino meraviglioso, che Dio aveva dato a lei e a suo marito, Adamo, come abitazione, fece capolino un serpente che le parlò con grande astuzia: “Come! Dio vi ha detto che non dovete mangiare i frutti del giardino....?”.  Satana comicia sempre di lì: insinua un dubbio sulla Parola di Dio e offre un’alternativa.

E quando il dubbio è  insinuato, ascoltato, considerato e preso sul serio, la frittata è fatta. O, nel migliore dei casi, le cose prendono una brutta piega. Faccio un esempio.

Gesù ha insegnato chiaramente: “Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge e i profeti” (Matteo 7:12).

Il che, interpretato, vuol dire semplicemente che quando io vorrei una parola di approvazione e non la ricevo... quando vorrei un aiuto e non me lo danno... vorrei un po’ di compagnia, mentre sono sola ... dovrei prendere la palla al balzo e fare a qualcuno esattamente quello che mi piacerebbe fosse fatto a me. Cioè dire una parola di incoraggiamento, trovare qualcuno da aiutare e fare almeno una telefonata a chi so che è da solo e, magari, malato. Semplice, no? 

A quel punto, arriva nel mio giardino il serpentaccio Satana che mi dice: “Come! Gesù ti dice che dovresti prendere tu in mano la situazione e fare il primo passo verso qualcuno?  Ma Gesù non ti capisce, chiede cose impossibili. La sua parola fa richieste assurde! Il vero significato di quelle parole è al massimo “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Perciò metti su muso duro, aspetta finché qualcuno non si muove e non ti chiede come mai sei un po’ cupa. Allora di’ la fomula che non fallisce mai:  “In questa chiesa (casa, associazione, scuola biblica, club) non c’è amore!”

E, nell’andarsene, Satana sveglia, nel mio giardino, un serpentello velenoso quanto lui, ma più rispettabile. E’ Il serpentello che si chiama egoismo e che comincia a lavorare sul mio ego, che io preferisco chiamare “amor proprio”.  Mi fa ricordare quanto IO ho fatto per gli altri, quanto IO mi sono sacrificata per andare a trovare questo e quella, quante cose gentili IO ho fatto a centinaia (macché, diciamo migliaia!) di persone. E così via e così avanti.

Così il “fatele anche voi a loro” di Gesù diventa un negativo “fatelo voi prima a me”.

L’egoismo è uno dei serpentelli più brutti che ci siano. Quando entra in azione fa disastri. Scava inimicizie, incomprensioni, malintesi. Sfascia famiglie, divide le chiese, mette veleno negli uffici. Così la sposina vuole farsi la doccia e rilassarsi anziché preparare la cena.  Il marito non muove un dito per aiutare la moglie che ha lavorato anche lei tutto il  giorno. Gli amici ti propongono una spaghettata, ma si deve fare a casa tua, perché, a casa loro, i bambini devono dormire e non disturbare la nonna che li guarda. Ci sarebbe da accompagnare una vecchietta a ritirare la pensione, ma la poveretta deve arrangiarsi da sola. Ci vorrebbe...  bisognerebbe... si dovrebbe...

Eppure, nella Parola di Dio, l’ordine (non il consiglio!) “tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele  anche voi a loro, perché questa è la legge e i profeti” è sempre lì.

Da chi comincia l’ubbidienza e il “fare agli altri, quello che vorrei fosse fatto a me?...” Da me, mi pare.  E da te. Punto e basta.
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Ma voi non siete tornati a me...


Oggi, 1 agosto, mentre scrivo, qui a Roma fa un caldo bestiale, come forse sta facendo anche da voi se siete in Italia. Il caldo ti fiacca, ragion Ia fatica, tutto ti pesa e tutto diventa difficile.

I metereologi dicono che dipende da questo vento e da quell’anticiclone e profetizzano sciagure per il futuro. Gli ecologisti affermano che dipende dal riscaldamento globale e gli economisti prevedono che la crisi diventerà più pesante, mentre i coltivatori hanno paura per i loro raccolti e i commercianti sono spaventati.

La mia modesta opinione è che Dio ci stia parlando e che nessuno, o pochissimi, se ne stiano  rendendo conto. Proprio come succedeva al tempo del profeta Amos,  che si rivolgeva al popolo ribelle, comunicando loro le parole di Dio, e diceva: “Vi ho fatto mancare il pane... ma voi non siete tornati a me”.

“Vi ho anche rifiutato la pioggia quando mancavano ancora tre mesi alla mietitura... ma voi non siete tornati a me.”

“Vi ho colpiti con ruggine e carbonchio, le locuste hanno divorato i vostri numerosi giardini, le vostre vigne, i vostri fichi, i vostri ulivi, ma voi non siete tornati a me.”

“Ho mandato la peste in mezzo a voi... ma voi non siete tornati a me.”

“Vi ho sconvolti... ma voi non siete tornati a me.”

Se si legge tutto il capitolo 4 del libro di Amos, i particolari sono abbastanza spaventosi.

Perciò la conclusione è ovvia: “Perciò farò come ho detto, o Israele. Poiché farò questo contro di te, preparati, Israele, a incontrare il tuo Dio”. Ovvero: “Se non ti ravvedi, non scamperai!”.

Dio usa tutti i mezzi per chiamare a sé i peccatori e i disubbidienti. Usa le buone maniere promettendo benedizione, grazia e salvezza a chi si converte a Lui, e usa le cattive per indurre la gente a ascoltarlo.

“Il clima bizarro, in cui viviamo oggi, potrebbe essere un suo metodo per avvertirci?”chiedete. Io propendo per il sì.

Ad ogni modo, non c’è da prendere alla leggera ciò che è scritto nell’Apocalisse: “L’angelo versò la sua coppa sul sole e al sole fu concesso di bruciare gli uomini. E gli uomini furono bruciati dal gran calore”. E la reazione a questo giudizio sarà: “Gli uomini bestemmiarono il nome di Dio che ha il potere su questi flagelli, e non si ravvidero per dargli gloria” (16:18). Che disastro!  

Quando questi giudizi avverranno non lo sappiamo. Oggi, forse, siamo solo ai prodromi di ciò che avverrà alla fine. Una cosa è però certa: quello che Dio dice si avvererà.

Allora, non sarebbe una buona cosa ascoltare gli avvertimenti di Dio e non dover sentire quella parola tremenda: “Non siete tornati a me”?

Tanto più che oggi Gesù dice ancora: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore e voi troverete riposo per le anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:28-30). Pensiamoci.
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KEEPING UP WITH THE JONES


È un modo di dire americano che significa “ tenere il passo coi vicini (i Jones)” e non permettere che ti  superino. Non so come lo direbbero gli Inglesi, che si vantano di parlare un inglese diverso da quello degli Americani, ma nella loro celebrazione per l’inaugurazione delle Olimpiadi mi pare che abbiano voluto non solo tenere il passo coi loro predecessori cinesi, ma che li abbiano voluti superare alla grande. Strafacendo.

L’idea di rifare la storia dell’Inghilterra era originale, ma la rappresentazione non finiva mai, con tutte quelle centinaia di persone, addestrate alla perfezione come robot e tutti quei cambiamenti di scena. Perfino la Regina, non potendo superare nessuno nei cappelli a cilindro, si è superata diventando la ragazza di James Bond. Sia come sia, la cerimonia è finalmente finita e le gare sono cominciate.

La smania di superare i vicini (o i lontani) è una gran brutta malattia. Si vuole avere la macchina un po’ più grande di quella del collega, il balcone un po’ più fiorito di quello della vicina, la cerimonia di matrimonio della figlia un po’ più ricca e elaborata di quella della cugina, le vacanze un po’ più esotiche di quelle del vecchio compagno di scuola, ritrovato dopo anni. E così via. Mai essere da meno!

È una grande sciocchezza, perché è un atteggiamento che mette in moto una spirale senza fine. Meglio stare nei limiti che ci possiamo permettere e, magari, anche un po’ al di sotto. E ci troveremo bene.

La Parola di Dio insegna a accontentarci di quello che abbiamo e il decimo comandamento ordina di non desiderare la roba degli altri.  La competizione fa male, è indice di invidia, orgoglio e desiderio di mettersi in mostra.

Un caso in cui la Bibbia dice che dobbiamo superare chi ci sta vicino è nel rendergli onore. “Quanto all’amore fraterno siate pieni di affezione gli uni verso gli altri, quanto all’onore, prevenitevi gli uni gli altri” (Lettera di Paolo ai Romani 12:10).  Un’altra versione afferma che dovremmo “fare a gara” nel renderci onore reciproco.

In altre parole, saluto per primo chi mi sta vicino e che, forse, è timido o insicuro. Cedo il posto migliore e più comodo a chi ne ha bisogno, non mi servo del pezzo più grosso del dolce che mi è offerto.  Se vedo qualcuno che fa una cosa giusta, lo lodo. Se un predicatore ha predicato bene, glielo dico e lo ringrazio. Se un vicino non mi usa gentilezza, cerco di essere gentile io.  Sono cose da nulla, ma che dimostrano rispetto e apprezzamento.

E un apprezzamento deve andare anche al nostro Capo del Governo, Mario Monti, che ha impedito che le Olmpiadi si facessero eventualmente a Roma. Ci ha fatto risparmiare una barca di soldi e, se avessimo dovuto cominciare a raccontare la storia dela città eterna, cominciando dalla lupa e da Romolo e Remo, quando saremmo andati a dormire?  A Olimpiadi finite.
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