UN’IDEA PER FINIRE L’ANNO (o per cominciarlo).

Sarò breve, perché ho mille cose da fare. Ma ve lo voglio dire.
Ho preparato un giochetto per finire l’anno, da fare dopo la cena e prima che comincino i botti. In un cestino ho messo tanti cartoncini con scritto
IO RINGRAZIO PER...

e li distribuirò ai presenti.

Ognuno dovrà scrivere alcune cose per cui ringrazia o il Signore o qualcuno per qualcosa. Lo firmerà e poi tutti leggeranno il loro biglietto a alta voce.

A qualcuno spunterà un lacrimuccia e per qualche ringraziamento scoppierete in una bella risata. Provateci e sarà un successo.

Io su un cartellone dovrei scrivere le migliaia di nomi dei miei amici e fan che mi seguono e che mi dicono che mi vogliono bene. Grazie a tutti e buona fine del 2009 e buon 2010!

Ci sentiamo l’anno venturo!

UNA BUONA MAMMA CHE NON CAPIVA TUTTO

“I miei genitori non mi capiscono!”

Me lo hanno detto tanti adolescenti, maschi e femmine, e, a volte, da giovane l’ho detto anch’io (naturalmente fra me e me, dato che nessun tipo di ribellione era permesso nella mia famiglia).

È normale che sia così. Fra i genitori e i figli corrono gli anni di una generazione e, in una generazione, le cose cambiavano anche ai miei tempi. Figuriamoci oggi. Tutto va molto più celermente. I figli spesso, per certi versi, ne sanno più dei genitori e certamente si intendono più di loro di computer e telefonini.

Quella che manca nei ragazzi, oggi come ieri, è l’esperienza che si sviluppa negli anni. Ma loro non se ne curano.

Anche una mamma nel Nuovo Testamento non sempre capiva suo figlio, il quale ne sapeva molto più di lei. Era Maria, la mamma terrena di Gesù.

Aveva rischiato un bel po’ per averlo, dopo che un angelo del Signore le aveva detto che lo avrebbe concepito per opera dello Spirito Santo e che sarebbe stato il Figlio di Dio stesso. Lei aveva capito di essere oggetto di una grazia speciale e aveva accettato quella realtà incomprensibile con grande umiltà, dicendo all’angelo: “Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola”.

Ma la situazione non era facile. Come dirlo a Giuseppe, il suo fidanzato? Le avrebbe creduto? L’avrebbe denunciata come infedele? Cosa avrebbe detto la gente che l’avrebbe vista col pancione. Secondo la legge ebraica avrebbe anche potuto essere ripudiata e lapidata.
Dio la protesse, rassicurò Giuseppe per mezzo di un sogno e il Bambino nacque a Betlemme, esattamente come aveva predetto l’antico profeta Michea.

La vita di Maria e Giuseppe non fu tranquilla. Quando Gesù aveva circa due anni, dovettero emigrare in Egitto, per sfuggire alla persecuzione del re Erode, che voleva far morire il bambino. Quando poterono tornare in Israele, andarono a abitare a Nazaret, da cui provenivano.

Finché Gesù non ebbe trent’anni, le cose andarono tranquille. Giuseppe e Maria ebbero altri figli e figlie (Matteo 13:55,56). Gesù era un figlio esemplare, aiutava il padre nella bottega, frequentava la sinagoga. L’unica volta che aveva fatto stare in pensiero i suoi era quando aveva dodici anni. La famiglia era andata a Gerusalemme per la pasqua e, al ritorno, i suoi genitori non lo avevano più trovato.

“Dov’è Gesù? Dove non é? L’avete visto?”

Maria e Giuseppe tornano a Gerusalemme e trovano il loro ragazzo che discuteva coi dottori nel tempio. Maria lo rimprovera gentilmente e lui risponde che doveva stare nella “casa di suo Padre”. Mah...

Quando ha 30 anni, Gesù va via di casa e va a farsi battezzare nel Giordano da suo cugino Giovanni il Battista. Poi si mette a predicare, a fare miracoli, a chiamare dei discepoli. E come parlava bene!

Però, così pensavano in famiglia, esagerava! Non dormiva, mangiava quando poteva, la gente non gli dava pace. A Nazaret avevano addirittura cercato di ammazzarlo. Quello che è troppo, è troppo!

Maria e i fratelli decidono che era andato fuori di testa e lo vanno a cercare (Marco 3:21) in una casa stipata di gente, dove aveva guarito un paralitico.

“Tua madre e i tuoi fratelli, ti cercano!” dicono a Gesù. Gesù risponde: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?... Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre” (Marco3:33-35).

Gesù prende le distanze dalla sua famiglia umana. Era già successo una volta, nella cittadina di Cana in Galilea, in occasione di un matrimonio a cui erano stati invitati Maria, Gesù e i discepoli. Era venuto a mancare il vino e Maria lo aveva detto a Gesù.

Gesù le disse delle parole strane: “Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta” (Giovanni 2:4). Per tutta risposta, Maria diede un ordine molto preciso ai servi: “Fate tutto quello che vi dirà” (v. 5).

Sono le uniche parole di Maria riportate nei Vangeli e pronunciate dopo che Gesù aveva cominciato il suo ministero. Sono tutte un programma. Descrivono la vita di tranquilla ubbidienza di Maria, un’ubbidienza a cui esorta tutti noi.

“Fate tutto quello che Gesù dirà.” Lo facciamo?

Maria, come del resto i discepoli, non capiva appieno le azioni e le parole del Figlio, ma sapeva che quello che diceva era giusto. E che doveva essere ascoltato.

Rimase nell’ombra e ebbe il grande coraggio di osservare l’agonia e la morte di Gesù sulla croce (Giovanni 19:25). Dopo la resurrezione e l’ascensione di Gesù, stava nel tempio, pregava e aspettava, con gli apostoli e i suoi figli, la discesa dello Spirito Santo (Atti 1:14).

Dopo questo, non sappiamo altro di lei. È stata una donna, favorita dalla grazia, certamente. Ma è stata anche una normale madre di famiglia, con le sue preoccupazioni e i suoi dubbi. Non è nata senza peccato, il suo corpo non è stato assunto in cielo, come insegna la tradizione della chiesa cattolica, non è vissuta senza sbagliare.

Il suo corpo è in terra e aspetta la resurrezione. La sua anima è in cielo.

Al ritorno di Cristo, risusciterà e andrà a incontrare suo Figlio, Colui che lei stessa ha chiamato “Dio mio salvatore” (Luca 1:47).

Mentre viveva, capiva in parte. Un giorno, come tutti i credenti, anche lei comprenderà pienamente l’estensione della grazia largita da Dio Padre, per mezzo del sacrificio di suo Figlio.

La sbandata della tigre

Così anche Tiger Woods, il mago americano del golf, che vinceva tornei e avrebbe saputo infilare una pallina anche nella crina di un ago, marito di una splendida modella bionda, ha avuto la sua sbandata finale, dopo un numero consistente di altre. Una volta o l’altra, succede a tutti i grandi. Sembra che i soldi e la fama facciano loro credere di poterla fare franca su tutto e tutti.
Ha avuto, in ogni modo, il buon gusto di ritirarsi dalla professione, chiedere perdono e cercare di rimettere insieme la famiglia.

Non voglio però parlare necessariamente di Woods, ma dei commenti sul suo caso che ho sentito in TV. Secondo i giornalisti italiani, quello che lo ha rovinato è stato il fatto che è andato contro i principi dei benpensanti e dei tradizionalisti americani e che la mentalità protestante non tollera certe trasgressioni. Perciò ha dovuto lasciare lo sport.

Perciò, se non vivi in America e se non pratichi una religione da bigotti, non hai problemi. L’infedeltà, l’immoralità e la vita dissipata non turbano più chi è largo di idee. Dieci amanti? Vuol dire che ci sai fare!

Il problema è che Dio non è né benpensante, né tradizionalista, né protestante: è santo e il peccato non gli piace. Nella sua Parola, la Bibbia, dice: “Sappiate che il vostro peccato vi ritroverà”. Se non in questa vita, dopo la morte. E quello che Dio dice, lo fa.

Il rimedio, allora, non è lasciare lo sport o i milioni che esso può fruttare, cercare di raccogliere i pezzi di una vita sregolata e raffazzonare il rapporto con la moglie. E neppure è fare buoni proponimenti per il futuro, decidendo di cambiare vita.

Il rimedio è uno solo: diventare una “nuova creatura”, umiliandosi davanti a Dio, chiedendogli perdono e credendo che solo in Cristo c’è la salvezza. Naturalmente, facendo sul serio e capendo che la vita cristiana,significa vivere con l’impegno di imparare da Cristo e di vivere facendogli piacere.

UN CUORE BUONO E UNA RICHIESTA POCO SAVIA

Anni fa, la cosa che molte madri desideravano più di ogni altra per i loro figli, era un impiego sicuro, possibilmente un posto statale.

Dato che il Ministro Brunetta non era ancora in circolazione con la sua caccia agli sfaticati, una volta avuto quel posto, ci si poteva mettere a dormire fra due guanciali. Lavoro e pensione erano assicurati e la mamma si poteva mettere tranquillamente alla ricerca di una buona moglie per il figlio e di un giovane per “sistemare” le figlie.

Anche una mamma, nominata nella Bibbia, aveva un po’ la stessa mentalità. Non c’è da stupirsene: i genitori vogliono assicurare un futuro sicuro ai loro figli.

La donna si chiamava Salome, abitava in Galilea, aveva un marito, proprietario di una barca, con degli operai che lavoravano per lui e due figli che collaboravano nell’azienda. Nell’insieme la famiglia se la passava piuttosto bene. Erano ebrei e timorati di Dio.

Un giorno, Gesù passò sulla riva del lago, vicino alla barca di famiglia, si fermò, vide i due figli che rassettavano le reti, e li chiamò perché lo seguissero e diventassero “pescatori di uomini”. I due, Giacomo e Giovanni, non ci pensarono neppure un momento e si unirono immediatamente a quel Maestro che faceva miracoli e predicava meravigliosamente.

Niente è detto del padre, il quale probabilmente non fece nessuna obiezione alla decisione dei figli, né della madre. Questa la troviamo solo più tardi, insieme con un gruppo di donne, che seguivano Gesù e i discepoli e prestavano assistenza al gruppo, andando di villaggio in villaggio (Luca 8:2; Marco 16:40,41). Evidentemente, Salome aveva creduto anche lei in Gesù, aveva capito che era il Cristo e voleva collaborare con Lui come poteva e sapeva.

Non è detto se la sua assistenza sia stata costante o saltuaria. È certo che, quando il Signore stava andando a Gerusalemme e si avvicinava il momento in cui avrebbe dato la sua vita sulla croce, essa era con i discepoli e col Signore.

Gesù, poco prima, aveva detto delle parole solenni. “Ecco noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi sacerdoti e degli scribi; essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito, flagellato e crocifisso; e il terzo giorno risusciterà” (Matteo 20:18,19).

Sia i discepoli sia chi era vicino a Gesù comprendeva che le cose stavano precipitando, ma la loro comprensione era nebulosa. Gesù parlava della sua morte, ma aveva parlato anche del suo regno e della resurrezione...

Salome si avvicina al Signore per fargli una richiesta. Probabilmente pensava: “In qualunque modo vadano le cose, Gesù è il Messia, il Cristo di Dio, deve stabilire il suo regno... i miei figli, insieme con Pietro, sono fra i suoi discepoli più speciali... hanno visto la trasfigurazione... sono stati con Lui quando ha risuscitato la figlia di Iairo... un posto speciale lo meritano...”.

La donna, insieme coi figli, si inginocchia davanti a Gesù e Lui le chiede cosa vuole. “Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra, nel tuo regno” (Matteo 20:21).

Sembrava una richiesta logica, anche se piuttosto pretenziosa e esagerata. La mamma si preoccupava di “sistemare” i figli con un buon posto statale, nel regno futuro. Ma il Signore, con gentile fermezza, le rispose che l’assegnazione delle posizioni spettava solo a suo Padre e che i suoi due figli avrebbero dovuto bere anche loro il calice della sofferenza (infatti, Giacomo morì martire per mano di Erode (Atti 12:1) e Giovanni finì la sua lunga vita esule nell’isola di Patmo). Poi Gesù ammonì che chi voleva avere un posto importante nel suo regno avrebbe dovuto essere il servo di tutti, esattamente come aveva fatto Lui.

Non si sa se Salome chiese perdono per la sua impertinenza, ma certo capì la lezione. Continuò la sua strada verso Gerusalemme e certamente vide tutta la trafila del processo di Gesù, la flagellazione, gli scherni, l’infamia e osservò la crocifissione del Signore da lontano con altre donne. E la mattina della resurrezione andò al sepolcro portando aromi per imbalsamare il corpo del Signore e trovò la tomba vuota (Matteo 27:55,56; Marco 16:1).

Dato che Gesù affidò a Giovanni Maria, sua madre, forse Salome prese anche cura di lei. A volte, ho sentito dei predicatori biasimare Salome, per la sua richiesta. È vero ha sbagliato, ma ci sono anche alcune lezioni importanti da imparare da lei.

  • Amava il Signore e lo ha servito praticamente come poteva e sapeva.
  • Non ha trattenuto i suoi figli dal seguire il Signore, sia nel periodo del successo, quando molti osannavano il Maestro, sia nei momenti bui che sembravano che il suo ministero fosse una sconfitta totale e il pericolo era grande anche per i suoi seguaci. Un buon esempio da imitare.
  • Non ha avuto paura di identificarsi coi seguaci di Cristo davanti alla folla inferocita che chiedeva la crocifissione di Gesù (a differenza dei discepoli, che, ad eccezione di Giovanni che stava con Maria vicino alla croce, fuggirono per paura dei Giudei).
  • Ha continuato a amare il Signore, volendo almeno ungere di profumo il suo corpo esanime. Ed è stata ricompensata diventando una testimone della resurrezione.
Quanto alla sua richiesta avventata, è un neo comprensibile. Quale mamma non desidera che i suoi figli siano apprezzati e riconosciuti?


Perciò impariamo a rallegrarci se li vediamo seguire il Signore anche umilmente, disposti a essere i servi di tutti.

INCULCA AL FANCIULLO LA VIA CHE DEVE TENERE

“Glielo raccomando, fratello Paolo, è un giovane bravo e ama tanto il Signore. Ma non è molto forte. Veda che mangi e che si riguardi...”.

Chi parlava era Eunice, una credente fedele e premurosa. Insieme con sua madre Loide, stava congedando suo figlio, che stava partendo per un lungo viaggio missionario con l’Apostolo Paolo. Le due donne avevano gli occhi lucidi, ma erano anche riconoscenti (e forse fiere) che Paolo avesse scelto il loro Timoteo, perché lo accompagnasse nella sua opera di proclamazione del Vangelo di Cristo.

C’era in loro una certa ansia, è vero, perché Timoteo non era un fusto e loro lo avevano sempre curato con grande attenzione. Poi i viaggi erano pericolosi e faticosi. Ma il loro impegno nell’allevare quel ragazzo nelle vie del Signore stava dando dei frutti. Timoteo era considerato un discepolo, uno che imparava e seguiva il Maestro, e tutti i credenti ne dicevano un gran bene. E ora era un missionario a tutti gli effetti. Avrebbe accompaganto Paolo e chissà quante altre cose avrebbe imparato!

Chi ha letto il Nuovo Testamento sa che Timoteo seguì Paolo, servendolo come un figlio, ricevette degli incarchi importanti e fu fedele al Signore a cui si era consacrato.

Era cresciuto a Listra, una città dell’Asia Minore, una colonia romana non di grande importanza, piuttosto remota, ma ben difesa da montagne.

Suo padre era greco, la mamma e la nonna erano giudee e conoscevano bene le Sacre Scritture. L’ambiente della città era pagano e, data la situazione di famiglia e la cultura del posto, le due donne avevano curato molto l’istruzione spirituale del loro figlio e nipote.

A un certo punto, erano arrivati in città due predicatori che annunciavano la buona notizia della salvezza per grazia, per mezzo di Cristo, il Messia. Avevano fatto anche un grosso miracolo: avevano guarito uno zoppo nel nome di Cristo. Era uno che non aveva mai camminato e che ora camminava!

Al che, la popolazione decise che i due fossero Giove e Mercurio, che fossero scesi in terra e avessero operato la guarigione. Immediatamente, il sacerdote del tempio di Giove organizzò una bella processione con l’intenzione di sacrificare delle vittime in onore dei due “dei”, che però rifiutarono gli onori umani e invece predicarono l’Iddio vivente e vero.

Molti si convertirono e c’è chi pensa che fra loro ci fossero anche Loide, Eunice e Timoteo. Fatto sta che, quando Paolo ritornò a Listra dopo un certo tempo, trovò un bel gruppo di credenti in quella città. E, quando partì, prese con sé Timoteo.

Non si sa più nulla della nonna e della mamma di Timoteo, ma il loro esempio è importante. Hanno curato non solo il corpo, ma anche l’anima del ragazzo che Dio aveva affidato loro.
L’ambiente pagano non era favorevole. Il padre di Timoteo non era credente. Forse viaggiava lontano dalla famiglia, forse era già morto. Il piccolo gruppo di credenti che si era formato era minacciato dai Giudei ostili al messaggio di Cristo.

Sarebbe stato facile nascondersi, far finta di niente, evitare problemi. Invece no, Timoteo fu pronto a seguire Paolo e la mamma e la nonna non lo impedirono.

Oggi, l’ambiente in cui i nostri figli e nipoti crescono è tanto pagano quanto quello in cui crebbe e visse Timoteo. Se non di più. Le pressioni a cui i ragazzi sono esposti sono forti. La TV, il consumismo, l’attrazione della droga, l’insegnamento della scuola sono tutto fuorché cristiani.

Che fare? Fare quello che hanno fatto Loide e Eunice e poi Paolo. Istruirli fin da piccoli nella Parola di Dio e dare loro un esempio di fedeltà e coerenza che non dimenticheranno.

IL CORAGGIO DELL’UBBIDIENZA

La situazione in famiglia era abbastanza strana. Un marito e due mogli, come si usava a quel tempo; parecchi figli da una e nessuno dall’altra.

Una moglie che, ogni mese, vedendo che non era incinta, scoppiava in lacrime, mentre l’altra si pavoneggiava, mostrando il suo bel pancione ogni volta che aspettava un figlio e che non risparmiava commenti acidi sulla sterilità dell’altra.

La prima moglie si chiamava Anna e la seconda Peninna. Il marito, Elkana, si barcamenava fra le due. Voleva molto bene a Anna e cercava goffamente di mostrarle il suo affetto. Le dava una doppia dose di cibo e le diceva che il suo amore avrebbe dovuto farla contenta più dei figli che, evidentemente, non venivano.

Ma Anna non voleva cibo: voleva un bambino!

Abitavano a Rama e, ogni anno, Elkana saliva a Silo per adorare il Signore e portava con se le sue due mogli e i figli. I pianti di una moglie e le frecciate dell’altra erano costanti. Facevano parte del ménage.

Il sacerdote che custodiva il tempio si chiamava Eli e faceva il suo mestiere di religioso senza molto impegno. I suoi due figli erano dei perfetti delinquenti. Approfittavano dei fedeli che venivano a offrire sacrifici, si facevano dare le parti migliori delle vittime, anziché offrirle al Signore, e minacciavano chi si opponeva loro. Il padre diceva loro che facevano male, ma non faceva nulla per impedire la loro condotta. Come troppi genitori di oggi, non vi pare?

Durante una di quelle visite annuali, Anna non riusciva a guardare Peninna con tutti quei suoi bei figli, mentre mangiavano contenti, e scoppiò a piangere. Si rifugiò nel tempio e pianse, pianse e pianse ancora.

Poi fece una preghiera molto impegnativa: “Signore, se mi dai un bambino maschio, sarà tuo. Lo consacrerò a te finché vivrà”.

Eli le si avvicinò e le parlò col tatto di un elefante: “Hai bevuto troppo, vai fuori a smaltire la tua sbornia!”

Anna gli rispose con grande gentilezza: “Non sono ubriaca. Sono tanto triste e stavo pregando, spandevo la mia anima davanti a Lui”.

“Va in pace, e il Signore ti esaudisca!” le rispose Eli.

Dopo quella preghiera, qualcosa successe nel cuore di Anna: aveva messo il problema nelle mani del Signore, gli aveva fatto una promessa e ora il problema non era più suo. Era del Signore. Tornò da Elkana, chiese da mangiare (possiamo immaginare il viso meravigliato di quel marito?). Il suo viso era disteso e sereno.

Dopo un anno stringeva fra le braccia un piccolino, a cui mise nome Samuele. Lo allattò, lo curò con grande tenerezza, lo vide crescere. Quando fu divezzato, risalì al tempio e mantenne la sua promessa: lasciò a Eli il suo bambino, il suo tesoro tanto desiderato, perché imparasse a servire il Signore.

Ogni anno lo andava a trovare e gli portava una tunica nuova (intanto la sua vita era cambiata di molto, perché, dopo Samuele, ebbe ben tre figli e due figlie!). Come ci sarà rimasta Peninna che la prendeva tanto in giro?

Samuele, dal canto suo, cresceva e era gradito a Dio e agli uomini e il Signore era con lui. Il ragazzo non trascurava nessuna delle parole che Dio gli diceva e, a un certo punto, Dio gli rivolse una chiamata precisa a seguirlo (questa storia, con molti altri particolari si trova nella Bibbia nel primo Libro di Samuele capp. 1-3).

In seguito, Samuele divenne un giudice fedele che il Signore usò per guidare il suo popolo.

Ma torniamo a Anna. Come ogni donna, desiderava un figlio e, prima di concepirlo e di metterlo al mondo, in preghiera aveva promesso al Signore di consacrarlo a Lui, perché lo servisse. Aveva promesso che non lo avrebbe tenuto per sé.

Non era stata una promessa da niente, dato che lo portò al tempio quando era ancora molto piccolo e lo mise sotto la custodia di Eli, che come educatore valeva piuttosto poco. In più, sapeva che sarebbe cresciuto con davanti agli occhi l’esempio dei due figli di Eli, che la Bibbia chiama scellerati. Un bel coraggio. Ma una promessa è una promessa e si deve mantenere. Anna è stata ricompensata.

Ogni donna credente, quando si accorge di essere incinta, certamente chiede molte cose al Signore: che il piccino sia sano, che non abbia difetti, che sia buono, che cresca bene, che sia intelligente. Credo che ognuna, con suo marito, preghi anche che diventi un credente e serva il Signore.

Ma quante di noi fanno come Anna, che ha allevato Samuele per il Signore e poi lo ha avviato, costi quello che costi, nelle sue vie con consapevolezza, perseveranza e coerenza? È un lavoro impegnativo e, a volte, pesante. Ma ne vale la pena.

CON UN PADRE COSÌ...

Come vi piacerebbe avere un marito pagano, crudele, infedele? Ascoltate la descrizione di uno, che si chiamava Acaz. La si trova nella Bibbia, nel Libro dei Re e nel Libro delle Cronache.

“Acaz... non fece ciò che à giusto agli occhi dell’Eterno, suo Dio, come aveva fatto Davide, suo padre; ma seguì l’esempio dei re d’Israele e fece passare perfino per il fuoco suo figlio (lo bruciò in una fornace come sacrificio agli dei), seguendo le pratiche abominevoli delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figlioli d’Israele; offriva sacrifici e incenso sugli alti luoghi, sulle colline, e sotto ogni albero verdeggiante”, “fece perfino delle immagini di metallo fuso per i Baali” (2 Re 16:2-4; 2 Cronache 28:2).

Acaz era re di Giuda, aveva iniziato a regnare a vent’anni ed era ribelle a Dio, sebbene avesse avuto un padre e un nonno fedeli al Signore. Aveva preso in moglie Abi (o Abija), il cui nome significava “mio padre è Jehova” e “Volontà di Dio”.

Abi era una donna fedele e il nome, che le era stato dato dai genitori, rispecchiava il suo carattere. Era figlia di un certo Zaccaria, contemporaneo del profeta Isaia. Proprio Isaia aveva scelto Zaccaria, perché fosse, insieme al sacerdote Uria, un testimone attendibile di una tragica profezia che aveva scritta (Isaia 8:1).

Da Achaz, probabilmente prima che salisse al trono, Abi ebbe un figlio, al quale mise nome Ezechia, che significa “forte nel Signore” e chissà quanto quella mamma ha pregato perché quel nome divenisse una realtà! Con l’esempio di suo padre c’era da avere paura!

Abi fu esaudita. Ezechia fu un buon re, che fece onore al suo nome, fece del bene a Israele e camminò interamente nelle vie di Dio (2 Cronache capp. 29-32). Infatti, soppresse gli altari sulle colline, dove suo padre aveva fatto sacrifici agli dei pagani e fece a pezzi il serpente di rame che Mosè aveva innalzato, ma che era diventato oggetto di culto (anche i ricordi migliori possono essere travisati!).

Riaperse e restaurò le porte del tempio, ristabilì il sacerdozio, celebrò la pasqua e mise ordine nel culto levitico. Vide una straordinaria liberazione da parte del Signore, ottenendo una grande vittoria sul re d’Assiria. Alla fine della sua vita, ebbe una sbandata e, per il suo orgoglio, fu punito. Ma, nell’insieme, fu un buon re.

Come è possibile che un figlio buono e fedele provenisse da un padre infedele come Achaz?

È vero che la grazia del Signore è sempre più grande di qualsasi peccato, e può fare qualsiasi cosa, ma è anche vero che, si solito, usa degli strumenti umani per manifestarsi e agire. Molto probabilmente il mezzo che Dio trovò a sua disposizione fu proprio Abi, la donna che si chiamava “mio padre è Jehova” e “volontà di Dio”.

Ezechia sapeva troppe cose, per averle scoperte da solo: sapeva che solo Dio deve essere adorato e che gli idoli non sono nulla. Sapeva che il tempio era chiuso, mentre doveva essere un luogo di adorazione e di servizio per Dio. Sapeva che il culto era stato trascurato e che le feste solenni, stabilite da Dio, non erano state osservate. Agì con coerenza. Fece coraggiosamente un bel ripulisti e ristabilì il culto.

Certamente, da adulto, ha ascoltato le profezie di Isaia, ma da piccolo avrà ascoltato soprattutto gli insegnamenti di sua madre e, forse, anche quelli del nonno Zaccaria. Forse, proprio dalla mamma, sarà stato messo al riparo dalle follie religiose del padre, che fece passare altri figli attraverso il fuoco e li sacrificò al demonio. Dalla mamma imparò che Dio è grande e che “onora quelli che lo onorano”. Non solo. Che è un Dio a cui ogni essere vivente renderà conto.

Sia come sia, è essenziale che ai piccoli siano inculcate le verità eterne della Parola di Dio. Non è mai troppo presto per cominciare. Se siamo genitori, o solo mamme o nonne, e in casa c’è un marito o un padre malvagio e infedele, non perdiamo neppure un momento per istruire i piccoli cuori che Dio ci ha affidati. Porterà frutto al momento giusto.

NON HANNO AVUTO PAURA

Vecchia come sono, spesso mi trovo a dire; “Me lo ha insegnato mia mamma... mia mamma lo cucinava così... mia mamma diceva... mio padre non me lo permetteva...”

L’influenza dei genitori, e quella soprattutto della mamma nei primi anni di vita di un bambino, buona o cattiva che sia, è incredibilmente forte. Se ci fate caso, una mamma solare, in genere ha figli ottimisti. Una mamma negativa spesso ha figli che vedono più il lato nero delle situazioni che quello luminoso.

La Bibbia parla di alcune mamme che ebbero una grossa influenza sui loro figli.

Una di loro era ebrea e viveva in schiavitù in Egitto con la sua famiglia. Era un momento difficile. Il Faraone che era vissuto in precedenza aveva trattato gli Ebrei molto bene. Aveva riservato loro una zona del paese, dove avrebbero potuto esercitare la pastorizia e prosperare. Poi gli era succeduto un altro re molto meno benevolo e molto preoccupato del fatto che gli Ebrei diventavano troppo numerosi.

Che fare? Semplice: i bambini ebrei maschi che venivano al mondo nel paese dovevano morire. (La storia si ripete: in Cina fino a poco tempo fa, il governo aveva deciso che nascevano troppe bambine. Di conseguenza l’ordine era che si dovevano abortire o uccidere appena partorite.)

Le levatrici ebree non ubbidirono all’ordine del re, tennero in vita i bambini e allora fu emanato l‘ordine di eliminare i maschietti, buttandoli nel Nilo. Ci avrebbero pensato i coccodrilli.

A quel tempo a Amram e Jokebed, una coppia ebrea, della tribù di Levi, nacque un maschietto bellissimo. Lo tennero nascosto per tre mesi, ma, alla lunga, sarebbero stati scoperti e puniti. E il bambino sarebbe stato ucciso.

“Jokebed, che facciamo? Il bambino cresce e non lo possiamo più tenere nascosto. Ma buttarlo nel fiume... mai!”

“Amram, io avrei un’idea...”

L’uomo ascolta, poi dice: “Va bene e che Dio ci aiuti. In ogni modo, all’ordine del re noi non ubbidiremo, costi quel che costi. Nostro figlio non lo ammazziamo”.

E Jokebed manda a effetto il suo piano. Prende un canestro, lo rende impermeabile con pece e bitume, ci adagia il bambino, lo copre bene, lo porta al fiume, e lo mette in un canneto, in modo che la corrente non lo porti via. La figlia più grandicella rimane a fargli la guardia da lontano. Possiamo immaginare le preghiere di quella mamma perché il piccolo sia protetto. E, mentre prega, le guance le si rigano di lacrime e lo stomaco le diventa come un nodo. Ma ha fede che Dio opererà.

Il piccino è nel canestro e la figlia del Faraone, con le sue serve va a fare il bagno al fiume. Vede il canestro, lo fa prendere, lo apre. Il piccolo piange. È tutto rosso. Ha fame. La principessa si commuove. “Deve essere un piccolo ebreo” pensa, “quanto è bello... Bisogna dargli da mangiare...”

Appare la sorellina: “Volete che vada a chiamare una balia?”

“Sì, va’...”

Miriam corre: “Mamma, mamma, sbrigati! Devi venire a dare il latte al piccolo. La principessa l’ha trovato!”

Jokebed corre, il petto le fa male da tanto è gonfio di latte. Arriva dalla principessa che ha fra le braccia il piccolo che urla dalla fame.

“Prendi questo bambino, allattalo. Ti pagherò”. Jokebed se lo attacca al petto. Poi lo porta a casa, lo cresce, gli insegna a camminare. E lo istruisce. Gli canta i canti degli Ebrei che parlano di Dio per addormentarlo, gli racconta le storie di Noè, di Abramo, di Giacobbe e di Giuseppe. Gli spiega che è figlio di Ebrei, del popolo scelto dall’Iddio creatore del cielo e della terra. Di un Dio che non si vede con gli occhi, ma che agisce e salva. Un Dio tutto diverso da quei brutti dei degli Egiziani che non vedono, non parlano e non sentono.

Il bambino ascolta, assorbe l’insegnamento dei suoi genitori, forse per tre o quattro anni (allora i bambini prendevano il latte per più tempo di adesso!). Poi Jokebed lo riporta alla reggia, alla figlia del faraone, che lo adotta e gli dà il nome Mosè, che significa “tirato fuori dall’acqua”. Essa lo fa istruire come un principe in tutta la sapienza degli Egiziani e gli mette a disposizione onori e ricchezze. Più o meno, fino all’età di 40 anni.

A quel momento, una svolta. La Parola di Dio racconta: “Per fede (la fede che aveva imparata da piccolissimo dai genitori) Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato col popolo di Dio, che godere per breve tempo i piaceri del peccato; stimando gli oltraggi di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa” (Ebrei 11:24,25). Il buon seme gettato quando era piccolo, aveva attecchito.

Il resto della storia di Mosè è nel Libro dell’Esodo ed è magnifica.

La storia dei suoi genitori è un esempio di coraggio e di fedeltà, che dovrebbe spingerci a istruire i nostri figli nelle vie di Dio, nei primissimi anni della loro vita, quando le loro menti sono ancora libere e pronte a assorbire le verità della Parola di Dio e prima che psicologi e maestri non gliele riempiano di ogni sorta di bugie e nozioni false. Non aspettiamo che “capiscano” e decidano per conto loro, ascoltando più i compagni di scuola che i genitori.

A VOLTE, RINGRAZIARE È DIFFICILE

Qualche settimana fa, abbiamo celebrato il funerale di una cara amica e sorella in fede, membro fedelissimo della nostra chiesa evangelica a Roma. Ha sopportato con grande coraggio e pazienza una lunga malattia, senza dare segni di sfiducia o di ribellione verso Dio. Ringraziando sempre il Signore perché, come diceva, “non ho troppo dolore. Solo un po’ di fastidio”.

Attorno alla sua bara, molti, anche non credenti, hanno testimoniato della sua fede e della sua costante calma e fiducia nel Signore. Una bella eredità.

Io la conoscevo da almeno quarant’anni. Di religione era stata protestante e aveva una certa infarinatura del contenuto della Bibbia, ma non aveva una fede personale. Era un tipo molto deciso, anche con una buona dose di umorismo. Come molti Protestanti, pensava di essere perfettamente a posto con Dio. Dopo tutto, aveva frequentato il catechismo e conosceva la dottrina giusta!

Aveva cominciato a frequentare uno studio biblico per donne, nella casa di una nostra amica comune, mentre i suoi figli, con i miei e altri bambini, partecipavano a un’ora di insegnamento biblico chiamato “Ora Felice”. Noi mamme leggevamo insieme e commentavamo il Vangelo di Giovanni.

Quando siamo arrivate al terzo capitolo, in cui si racconta la visita a Gesù di Nicodemo, un Fariseo sincero e integro, ma all’oscuro della verità che Gesù era venuto a portare, l’interesse di Moni, così si chiamava la donna protestante, è aumentato. Anche lei era onesta e religiosa.

Le parole di Gesù a Nicodemo la colpirono: “Se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio”. E un po’ più avanti: “Se uno non è nato d’acqua e di Spirito non può entrare nel regno di Dio; quello che è nato dalla carne è carne; e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo” (vv. 3,5,6,7).

“Questa cosa non l’avevo mai sentita nella mia chiesa. Cosa significa?” chiese.

“Per dirlo in parole semplici” le ho spiegato, “quando nasciamo in questo mondo, nasciamo con una personalità che ci viene dai nostri genitori e che è caratterizzata dal peccato, per cui anche se vogliamo fare il bene, non ci riusciamo perfettamente. E Gesù ha detto che dovremmo essere perfetti come è perfetto Dio, per poter stare con Lui”.

“Ma questo è impossibile!”

“Hai ragione. Per noi è impossibile, non possiamo diventare perfetti” ho detto. “Ma è per questo che Gesù dice che dobbiamo ricevere da Lui una nuova natura, la natura sua. Lui la innesta dentro di noi. In questo modo, diventiamo figli di Dio, entriamo a far parte della sua famiglia e possiamo chiamarlo padre e comunicare con Lui.”

“Interessante. Ma come succede?”

Le ho letto, sempre nel terzo capitolo di Giovanni, il versetto 16: “Iddio ha tanto amato il mondo (e tu fai parte dell’umanità, ho commentato) che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui, non perisca (non vada all’inferno per l’eternità), ma abbia vita eterna (la vita di Dio).

Ci fu una pausa. “Ma io a Gesù ci credo!”

“È vero. Ma bisogna credere e capire alcune cose precise” ho detto. “Dobbiamo renderci conto che, così come nasciamo, abbiamo una natura cattiva che pecca e che con questa natura assolutamente non possiamo andare in cielo, come Gesù ha detto a Nicodemo.

“Poi bisogna capire che Gesù è venuto in terra, proprio per pagare per la natura cattiva di tutti gli uomini. Ha pagato morendo in croce al nostro posto, e prendendo su di sé il nostro peccato. Lui è l’unica via che ci porta a Dio. Se lo crediamo con tutto il cuore, ci apriamo a Lui e lo accogliamo come nostro Salvatore, Gesù fa il miracolo: ci fa nascere di nuovo.”

“Allora, io cosa devo fare?”

“Se lo credi con tutto il cuore, glielo devi dire. Digli che sai che per te non c’è speranza, ma che ti affidi a Gesù come tuo unico Salvatore e Signore e che lo seguirai per tutta la vita.”

Raramente ho sentito da un adulto una preghiera più sincera, per chiedere a Dio il dono della salvezza. Da quel momento, Moni è diventata una nuova creatura e non ha avuto più tentennamenti. È rimasta fedele fino alla fine.

La Parola di Dio dice che dobbiamo ringraziare il Signore in ogni circostanza.

È difficile non avere più Moni con noi e non vederla più al suo posto in chiesa. Ma si può – e si deve – ringraziare perché non soffre più, perché è pienamente felice nella presenza del suo Salvatore e perché ha lasciato dietro di sé una bella testimonianza di fedeltà.
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