Vado a casa!

Il testo che segue è tratto dall'opuscolo "Vado a Casa" scritto da Maria Teresa a marzo 2013. Se vuoi riceverne delle copie da distribuire, scrivici a: assverev(AT)tin.it






“Signor Standridge, porti subito sua moglie al Pronto Soccorso per una trasfusione. I livelli del suo sangue sono bassissimi. Abbiamo già informato il suo dottore.”

Avevo appena fatto dei prelievi di sangue in un centro medico e le cose sembravano davvero gravi. Non mi aspettavo niente di simile, anche se, da alcune settimane, mi sentivo piuttosto debole e con poca energia. Siamo andati subito al Pronto Soccorso di un grosso ospedale romano, vicino a casa nostra, e ben presto stavo sdraiata su un lettino, con un ago infilato nel braccio e una bella sacca di sangue, a cui ne sono seguite altre due, che trasferiva il suo liquido, goccia a goccia, nelle mie vene.

Da allora sono cominciate le novità e le sorprese, di un ricovero all’ospedale, altre analisi e prelievi anche di midollo che hanno portato a una diagnosi di leucemia mieloide acuta, a cui i dottori hanno aggiunto l’aggettivo poco promettente di “terminale”.

Così oggi, senza particolari dolori e, apparentemente, ancora in buona salute e con una buona misura di forza, mi trovo a pensare in modo molto pratico e realistico, alla mia “andata a casa col Signore” quando Lui vorrà. Forse molto presto.

Cosa ho provato davanti a una notizia di questo tipo?

Onestamente, sorpresa e quasi incredulità. Ma anche tanta tranquillità.
Già da qualche anno, quando ero invitata a fare degli studi biblici in qualche Convegno per donne, dicevo ridendo che, data la mia età di più di 85 anni (ora vado verso gli 89), le organizzatrici avrebbero fatto bene a procurarsi anche una “ruota di scorta” in caso io avessi dovuto declinare l’invito. Ma, onestamente, data la mia salute che credevo di ferro, lo dicevo scherzando come se in realtà fossi immortale.

Oggi gli scherzi sono finiti e la realtà è diversa. È una realtà fatta di una certa tristezza (sarei bugiarda se dicessi il contrario), ma anche di grande tranquillità.

Tristezza perché la leucemia è una realtà che parla di distacco da Bill, l’unico amore della mia vita, con cui ho passato più di 56 anni di vita, ho avuto la gioia di servire il Signore, in una specie di simbiosi spirituale e anche intellettuale, ho condiviso la passione per la Parola di Dio, l’impegno nell’allevare quattro figli, e la responsabilità di aiutare molti a conoscere e crescere nella fede biblica.

So che dopo la mia partenza Bill si sentirà un po’ come “mutilato”, ma so che il suo amore per il Signore, la sua Parola e gli Italiani lo sosterranno e aiuteranno a servire finché ne avrà la forza.

Naturalmente non mi piace neppure l’idea di lasciare i figli e anche delle nuore e un genero che mi vogliono bene e dodici nipoti (uno sposato) e due pronipotini, uno più caro dell’altro. Ma il momento del distacco verrà. Però la mia gioia è che tutti affermano di amare il Signore e perciò sono nelle sue mani.

Ma parliamo adesso delle ragioni della mia serenità.

Ho accolto Gesù nella mia vita come Salvatore e Signore quando avevo 20 anni. Da allora la grazia di Dio mi ha circondata e il favore immeritato del Signore mi ha avvolta e protetta.

So di essere salvata e la mia fede si basa sulle promesse della Parola di Dio. Una che mi consola in modo particolare è nella lettera dell’Apostolo Paolo a Tito: “Dio ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il lavacro della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso su noi abbondantemente per mezzo di Cristo Gesù nostro Salvatore, affinché giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna” (3:5-7). Più di così, che cosa si può desiderare o sperare?

Poi ho avuto l’onore di ricevere dal Signore una chiara chiamata a servirlo a pieno tempo, ho frequentato la scuola biblica, ho avuto degli insegnanti di grande valore, ho vissuto lo straordinario tempo di fervore evangelistico e spirituale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e ho partecipato all’inizio del nuovo periodo di libertà politica in Italia che ha permesso di iniziare campi per giovani, scuole estive, convegni e ogni sorta di attività che il Signore ha benedetto. In ogni nuovo progetto evangelistico mi buttavo a capofitto.

I miei studi universitari mi hanno preparata per avere anche un ministero di scrittura che mi ha portata a mettere a disposizione del Signore le capacità che Lui mi aveva date.

Attraverso gli anni ho imparato a nutrirmi della Parola di Dio e ho capito l’importanza di approfondirne la conoscenza e di affondare le radici della mia fede nell’ubbidienza a quello che essa dice. Senza una buona riserva di questo tipo di conoscenza, la vita cristiana può diventare molto difficile e essere molto piatta.

Confesso anche che ho fatto molti sbagli di cui ho dovuto chiedere perdono al Signore, ai miei cari, a fratelli e sorelle e ho capito che il perdono è la chiave della vita cristiana. Specialmente è essenziale nella famiglia umana e in quella di Dio.

Chi non perdona ha capito poco dell’amore di Dio. Ma chi pratica la confessione dei propri peccati di credente, sa che il sangue di Cristo lo purifica e gli permette di camminare poi nella luce (1 Giovanni 1:8-10).

Dopo tanti anni di cammino col Signore ho capito che “in me, nella mia carne, in Maria Teresa, non abita alcun bene” (Romani 7:18), ma quello che ho fatto di buono è Lui che l’ha fatto per me e in me (Isaia 26:12).

Durante un convegno a Isola del Gran Sasso, Daniele, uno dei nostri figli, in una meditazione ha sottolineato il fatto che Gesù dopo la resurrezione portava nel suo corpo i segni del suo martirio per noi. I discepoli hanno visto quelle cicatrici e con quel suo corpo risuscitato Gesù è salito in cielo.

Nella visione dell’Apocalisse, Giovanni, più tardi, lo ha visto come un “agnello, in piedi, che pareva essere stato immolato” (5:6) e io, con miriadi di credenti (e spero anche te) contemplerò per tutta l’eternità i segni del prezzo pagato da Gesù per la mia redenzione e mi spingerà a adorarlo nella perfezione.

È un pensiero meraviglioso che mi umilia, ma anche mi riempie di grande riconoscenza.

Con affetto, Maria Teresa
Roma, marzo 2013

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A Dio sia la gloria!

Carissimi lettori di questo blog,

Maria Teresa è andata con il suo Salvatore il 3 agosto 2013.

I suoi funerali sono stati celebrati l'11 agosto nella sala della Chiesa Berea, in via della Magliana Nuova 290, Roma.

Sul sito della Chiesa Berea è allestita una pagina in memoria della nostra cara sorella, con un video delle sue esequie e con delle testimonianze e riflessioni sull'opera di Dio. Puoi visualizzarla cliccando QUI.

CE LA FACCIO DA ME!



È successo molti anni fa, con un operaio che era venuto a casa per aggiustare delle tubature o qualcosa di molto molto alto in casa nostra.

Io ero una ragazzetta e lo guardavo con grande ammirazione perché mi sembrava un artista del circo. Bello, alto, muscoloso e ben abbronzato.

“Io a queste cose sono abituato. Faccio questo e altro!”

È salito su una scala, ha rifiutato ogni aiuto di mio padre che aveva offerto di reggergli la scala, si è spenzolato per acchiappare qualcosa che pendeva e “sbabang” è caduto giù, scala, arnesi e tutto, come un sacco di patate. Un bel botto. Mia mamma lo ha dovuto medicare con alcol, pomata e cerotto.

Commento: “Non mi era mai successo prima!”.

L’autofiducia è uno dei lati più comuni del nostro io.

Ce la faccio da me... Sono abbastanza bravo per... Ci riuscirò di certo... E che ci vuole?...

Mi fa ricordare l’apostolo Pietro e a alcune sue bravate. “Signore, tutti ti abbandoneranno, ma io no. Sono pronto a tutto. Non ti rinnegherò mai!”. E poi...

Basta pensare a quella volta che era in barca coi discepoli e il Signore gli aveva detto di attraversare il mare di Galilea. I discepoli partono, si scatena una tempesta, tutti hanno paura, gridano. Finalmente vedono Gesù che viene camminando sull’acqua.

Il Signore dice loro: “Sono io, non abbiate paura!”.

Sarebbe dovuto bastare. Gesù era lì e li aveva rassicurati.

Ma a Pietro non bastava, ci voleva mettere del suo: “Se sei tu, fammi venire da te sull’acqua!”.

“Vieni!”

Pietro scende dalla barca (forse pensava “Io sì che sono qualcuno! Ora cammino anche sull’acqua!”) e comincia davvero a camminare.

Poi guarda le onde e sente il sibilo del vento e comincia a affondare terrorizzato. Gesù lo afferra e i due entrano nella barca. Il mare si calma. E Pietro si becca anche un gentile rimprovero: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.

La fiducia in se stessi è una grande nemica delle vittorie spirituali. Parli del peccato alle persone e ti rispondono che non hanno mai fatto niente di male. Parli del bisogno assoluto di salvezza e ti dicono: “Salvezza?! Mica merito l‘inferno!” e continuano per la loro strada. Pieni di fiducia in loro stessi e nella loro bontà.

Il libro dei Proverbi dice una cosa molto saggia: “C’è una via che all’uomo sembra diritta, ma essa conduce alla morte” (14:12).

Non so, a che punto stai tu, ma c’è da fare tanta attenzione anche all’autocertezza spirituale, quella che ti fa dire: “Io posso ogni cosa in Cristo che mi fortifica” e che a volte ti fa partire verso mete che Gesù non ti ha assegnate. Ne parliamo un’altra volta.
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C’è speranza se… Consiglio n. 10


Abbiamo parlato delle diversità fra uomo e donna, di usare tatto e comprensione fra marito e mogli, di non permettere ai propri genitori di interferire nella vita matrimoniale, di non riversare tutto l’amore sui figli e così via. Spero che questi consigli vi siano serviti a qualcosa.

Oggi chiudiamo la serie e sarà un po’ come nelle sagre paesane, quando ci sono i fuochi d’artificio e si arriva al gran finale con una serie assordante di pim-pum-pam. Spero che il gran finale raggiungerà il suo scopo.

Il consiglio n. 10 è: Imparate a affrontare le difficoltà.

A questo punto, penso che l’abbiate capito: i conflitti si presenteranno anche nel vostro matrimonio.

Se li considererete una cosa cattiva in sé, porteranno solo problemi. Se li considerate una cosa normale, e soprattutto risolvibile, non saranno più seri di un brutto raffreddore o di un mal di testa.

Se due coniugi con una personalità forte decidono di non discutere mai le proprie opinioni, reprimeranno i conflitti, ma i risultati saranno disastrosi e l’abisso fra loro diventerà pressoché incolmabile.

La vera soluzione sarà nel saper trarre il maggior vantaggio dal conflitto e usarlo in maniera positiva.

Allora, che fare?

  1. Pregate prima di discutere, chiedendo onestamente al Signore di aiutarvi a realizzare una buona intesa e tenendo presente il fatto che Gesù è lì con voi, seduto con voi. Se vi trovate a discutere prima di aver pregato, sarà meglio che vi fermiate a farlo o rimandiate la discussione.
  2. Esprimetevi con chiarezza e con forza, ma senza perdere la pazienza. A volte, quando si discute, si crede di avere a che fare con un medium che sa leggere nel pensiero. Nessuno di noi ha sposato la maga Circe o il mago Merlino. Perciò non sperate che il vostro coniuge capisca quello che non dite. Se siete scoraggiati, non dite mai: “Lo sapevo, non valeva la pena che parlassimo, tanto non ci capiamo”. È la cosa meno savia da fare, perché costruisce un muro fra di voi. Continuate a parlare, perché ne vale sempre la pena.
     
  3. Introducete nuove idee nella discussione e possibilmente suggerite qualche soluzione, allo scopo di arrivare a una conclusione positiva, anziché entrare in ragionamenti complicati e contorti.
     
  4. Incoraggiate vostro marito o vostra moglie a esprimere opinioni e desideri senza reticenze, cercando sempre di imparare dall’altro qualcosa di utile e di capire esattamente quello che pensa.
     
  5. Dopo che vi siete espressi, cercate dei punti di contatto. Elencate alcune cose in cui vi siete trovati a pensare nello stesso modo e costruite su quei punti comuni.
     
  6. Fate in modo che ogni conflitto diventi un gradino su cui salire per crescere nella comprensione del pensiero di Dio e di ciò che desiderate profondamente.
     
  7. Non sperate necessariamente sempre in una conclusione del tipo “e vissero felici e contenti” perché non sarebbe realistica, ma permettete a Cristo di aiutarvi a maturare e a capirvi di più. E sopra ogni cosa, riconfermatevi sempre il vostro amore e la vostra stima. 

Il vostro matrimonio non sarà mai senza conflitti o momenti di tensione, ma applicando questi consigli brevettati e collaudati diventerà più ricco, e sempre più soddisfacente e cementato. Parola di chi l’ha provato.

C’è speranza se… Consiglio n. 9


L’ho visto succedere con i figli, con i collaboratori, coi giovani della chiesa: una lode vale più di dieci esortazioni e di venti fervorini.

Non parliamo poi dell’importanza di lodare il proprio coniuge.

Se siete fiere di vostro marito, diteglielo. Se sa fare un lavoro in casa, lodatelo. Se riesce bene nel suo lavoro, onoratelo.

Il consiglio n. 9 è: Non sottovalutate mai l’importanza della lode. 

Ci vuole così poco per fargli sentire che, per voi, è la persona più importante al mondo. Il sorriso con cui lo accogliete quando torna a casa dal lavoro, il commento gentile che potrete fare sul suo conto davanti ai figli o agli amici, sarà per lui più importante di qualsiasi regalo anche molto costoso.

Qualcosa di buono e di vero da dire si potrà trovare sempre anche sulla moglie. Sul suo pollice verde, sulla sua attenzione nell’apparecchiare la tavola, sul modo in cui riceve gli ospiti, sul fatto che fa mai mancare dei fazzoletti puliti e stirati.

Il marito della donna dei Proverbi l’aveva capito e lo praticava, fino al superlativo, dicendo: “Molte donne si sono comportate da virtuose, ma tu le superi tutte!” (31:28).

Non solo è una pratica che evidentemente anche Dio approva, avendola inclusa nella Bibbia, ma che è pure contagiosa.

Infatti, dei figli di quella donna straordinaria è detto che “si alzano e la proclamano beata”!

Una moglie mi ha detto che suo marito ogni giorno la loda per qualche cosa. E perfino trova qualche lato buono nei suoi sbagli! Non c’è da meravigliarsi che la loro casa sia un piccolo angolo di cielo.
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C’è speranza se… Consiglio n. 8


Il consiglio n. 8 guarda avanti: In qualsiasi matrimonio le diversità di personalità e di temperamento ci saranno, ma potranno essere risolte. Evviva! 

Pare che ci siano di solito tre stadi quasi in ogni matrimonio.

Il primo stadio dura più o meno a lungo. Esso è caratterizzato dal fatto che i giovani sposi continuano nell’atmosfera del fidanzamento e considerano il proprio compagno come l’allegoria ambulante della perfezione.

Nel secondo stadio cominciano a rendersi conto che delle diversità esistono, che i difetti vengono a galla, e che molti sogni fatti non corrispondono alla realtà. Per esempio, mio marito pensava che io fossi una donna ultraorganizzata, mentre la realtà dei fatti era che anch’io dimenticavo molte cose, ne lasciavo fuori posto delle altre, e non ero puntuale come un orologio svizzero. Anzi.

D’altra parte, avendo sposato un laureato in psicologia, pensavo che con lui avrei risolto ogni problema. Che delusione, quando gli parlavo di qualche difficoltà e lui mi rispondeva: “Eh, sono problemi…” . Cosa lo avevo sposato a fare?

È una tragedia se la coppia si ferma a questo punto e pensa che i problemi non si possano superare e che, dopo tutto, forse il suo matrimonio è stato uno sbaglio.

Quando arrivano a questo punto e gli sposi si rendono conto che delle differenze esistono e che i problemi sono anche profondi, i due si devono fermare. Decidere di parlarne, discutere su cosa fare, mai nominare la parola “divorzio” e soprattutto riaffermare davanti a Dio l’indivisibile unità del loro amore.

Dio non si spaventa se gli diciamo che siamo arrivati al punto del “chi me l’ha fatto fare?”, anzi dichiara di essere un Dio capace di dipanare qualsiasi matassa. E lo farà!

Questa ammissione onesta e sincera, porterà al terzo stadio, in cui gli sposi si renderanno conto che i problemi si possono affrontare e che le difficoltà si possono ridimensionare, se si affrontano con l’aiuto dello Spirito Santo.

A quel punto essi imparano a prendersi come sono, capiscono come possono contribuire al bene l’uno dell’altro, con lo scopo finale di farsi del bene reciprocamente e, soprattutto, di piacere a Dio.

Così per mezzo di questo processo di dare e ricevere, si determinerà una bella armonia fra due vite che vivono una vita sola.

No! Non è un sogno utopistico. È qualcosa che si può davvero realizzare, quando i due sono dei veri credenti e sono ben decisi a fare del loro matrimonio un successo.

Chi invece rifiuta di seguire questa strada e rimane nel secondo stadio avrà una vita difficile. Troverà che si allontana sempre più dal suo compagno e si avvierà sulla strada dell’incomprensione, della freddezza, del dolore.

Che stadio sai vivendo, tu?
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C’è speranza se… Consiglio n. 7


“Non pettegolare sui membri della famiglia” era il consiglio dato la volta scorsa per aiutare una coppia a funzionare armoniosamente, senza creare incrinature nella propria unione e screzi in famiglia.

Il consiglio di oggi riguarda specialmente le giovani mamme ed è, secondo me, importantissimo.

Consiglio n. 7: Quando arriva il primo bambino, non riversate su lui tutto il vostro affetto.

Il primo bambino porta tanta gioia nella casa, ma, a volte, può anche diventare causa di tensioni.

Un piccolino è un tesoro da scoprire. È bello e tenero, ha un modo tutto suo di succhiare e di piangere. È così piccolo che, quando si prende in braccio, sembra che ti sfugga di mano. Deve fare il ruttino, deve essere cambiato e lavato. Può dormire a pancia sotto o starà megio su un fianco? E quei rigurgitini, sono pericolosi? E chi più ne ha più ne metta.

Anche il papà, naturalmente, non sta nella pelle. Quel piccolino se lo guarda e se lo coccola. Però, con razionalismo maschile, a un certo punto, lo mette giù nella culla. Che si faccia un bel pisolino! Ma se piange… che fare?

È una grande tentazione, per la mamma inesperta e giovane, fare sì che la nuova minuscola vita che le è affidata in quel fagottino morbido, diventi un’occupazione costante che le porta via tutto il tempo.

Così il marito, dopo gli entusiasmi delle prime settimane, si sentirà trascurato e dimenticato, come se l’amore della mamma per il piccolo avesse cancellato l’amore che prima la moglie aveva riservato a lui.

La mamma, perciò, dovrà fare tanta attenzione a trovare l’equilibrio giusto fra le cure che dedica al bambino e il tempo che dedica al marito.

Farà attenzione a non farsi trovare in vestaglia e leggermente odorante di caciotta quando il marito tornerà a casa dal lavoro.

Preparerà i pasti con la stessa cura di prima e cercherà di regolare gli orari in modo che tutto l’ordine che regnava prima che il piccolo arrivasse non sia sovvertito.

Così l’amore e la cura che i due sapranno riversare insieme sul bambino cementerà il loro amore.
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C’è speranza se… Consiglio n. 6


Il consiglio n.6 di oggi è: Non tirate fuori le magagne del presente e non pettegolate. 

È importante avere una certa gelosia della reputazione del proprio marito e perciò sarebbe savio parlare dei suoi difetti solo al Signore.

Lo stesso dovrebbe fare il marito nei riguardi della moglie. Così fra i due si creerà un’atmosfera di lealtà e di sicurezza.

La fiducia è la pietra angolare del vero amore.

E non pettegolate sulla famiglia dell’uno o dell’altro.

Troppe cognate pettegolano sui parenti acquisiti e suocere commentano sulle nuore.

Ricordate Miriam, la sorella di Mosè? Mormorò, trovò da dire sulla moglie che Mosè aveva sposata. Non tenne la cosa per sé, ma ne parlò con Aaronne suo fratello.

La nuova moglie era etiope e non era di puro sangue ebreo. Che disonore per la famiglia!

Il Signore la vide, la sentì e la riprese dicendo: “Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?”. E non si limitò a una riprensione verbale, ma colpì anche Miriam con la lebbra. Il che portò non poco scompiglio fra il popolo.

Dio non vuole che i suoi figli siano maldicenti e partecipino a pettegolezzi e mormorii, né contro parenti né contro fratelli e sorelle in Cristo, che sono sempre deleteri.

Facciamo di tutto perché nelle nostre famiglie non ci siano delle Miriam. Spesso non ci rendiamo neppure conto di quanto male facciano le nostre critiche, quante incrinature nei matrimoni possono provocare e, purtroppo anche divisioni nelle chiese, quando i parenti frequentano la stessa comunità!
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C’è speranza se… Consiglio n. 5


La volta scorsa ho scritto che il perdono dovrebbe essere la “colla” che unisce una coppia nel suo cammino giornaliero.

Alcuni mi hanno detto: “Io non riesco a perdonare come Dio, perché è detto che Dio dimentica i peccati e io proprio a dimenticare non ci riesco”.

Onestamente, io non penso che si possa dimenticare, perché la memoria è una facoltà meravigliosa che Dio ci ha dato.

E non ho la minima idea di che cosa significhi profondamente l’affermazione di Dio, “non mi ricorderò più dei loro peccati”. Può darsi che abbia una specie di tasto su cui è scritto “del” come in un computer e che proprio lo usi con i nostri peccati quando li confessiamo? Non lo so.

Ma so per certo che non ci ritorna su, non li rivanga e non ce li rinfaccia. Non ne parla più. Questo è il suo modo di “non ricordare”.

E questo è il consiglio n.5: Non state a tirar fuori sempre i peccati e gli sbagli del passato. 

I coniugi faranno bene a parlare tranquillamente del loro passato. Se ci sono cose che turbano la coscienza dell’uno o dell’altro dovrebbero essere portate alla luce, per evitare che creino dei pericolosi complessi di colpa o blocchi nella loro relazione. Una volta che le cose sono chiarite e spiegate non dovrebbero essere più tirate fuori. Basta, fatto e finito!

Marito e moglie devono applicare al loro passato le parole dell’Apostolo Paolo in Filippesi 3:12-15: “Non che io abbia già ottenuto tutto questo (la piena conoscenza di Cristo e la sua perfezione e il premio per il suo servizio); ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono stato anche afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando (non pensandoci più) le cose che stanno dietro, e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù”.

L’amore vero deve preoccuparsi del presente. Il passato deve essere perdonato e sepolto per sempre.

Il vero amore e la vera fede cristiana si innalzano al di sopra dei sospetti e dei rancori e vivono secondo quanto Dio ha insegnato.

In un mio libro sull’educazione dei bambini, ho parlato dell’importanza di perdonare in maniera definitiva e ho raccontato che uno dei nostri figli aveva pitturato alla piccassiana una parete, accanto al suo letto. Era stato sgridato, punito e, dopo aver chiesto perdono, era stato perdonato.

Il giorno dopo, mentre cercavo di ripulire la pittura, mi sono permessa di commentare che aveva combinato un gran pasticcio.

 La sua reazione è stata: “Chi l’ha fatto, è stato perdonato!”. Per lui il pasticcio non esisteva più.

Permettete al sangue di Cristo, che purifica e lava ogni peccato, di coprire e lavare ogni peccato e vivete secondo il comando del Signore: “Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo”.

Alla prossima, col consiglio n. 6!
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C’è speranza se… Consiglio n. 4


Prima di sposarmi, l’ho fatto anch’io, vedendo qualche difettuccio nel mio caro. Ho detto fra me e forse stupidamente anche a qualche amica: “Una volta sposati lo aiuterò a cambiare”.

Scordatevelo! Nessuno cambia, se il Signore non lo aiuta a cambiare. Perciò il consiglio n.4 è: Accettatevi l’un l’altro così come siete.

Il matrimonio non è una specie di riformatorio in cui la moglie si impegna a fare da mentore al marito, naturalmente facendo precedere ogni esortazione dall’espressione “caaaaaaaaro, se fossi in te…”, e il marito vorrebbe essere un Pigmalione, capace di trasformare la mogliettina in una specie di bambola senza personalità secondo i suoi desideri.

Mariti e mogli si devono prendere realisticamente per quello che sono, coi loro difetti e le loro buone qualità. Ogni essere umano ha pecche, pregi e debolezze.

Uno degli scopi del matrimonio è crescere insieme, incoraggiandosi e aiutandosi reciprocamente a diventare più simili a Cristo possibile.

Nella sua lettera ai credenti di Colosse, prima di parlare specificatamente dei doveri della coppia, Paolo ha esortato tutti a prepararsi un bel guardaroba di abiti con cui rivestirsi (3:12-14). Eccolo.

“Vestitevi, come eletti di Dio, santi e amati,
  • di sentimenti di misericordia, cioè di comprensione. Tutti abbiamo sposato un peccatore o una peccatrice, con difetti, con bagagli di ferite di esperienze spesso negative, provenienti da ambienti diversi, se non addirittura da culture diverse. 
  • Aggiungete vestiti fatti di benevolenza, cioè di desiderio sincero di fare del bene e di volere prima di tutto il bene dell’altro, 
  • fatti di umiltà, cioè di quel sentimento che considera l’altro più importante di me e dei miei interessi personali, 
  • fatti di mansuetudine, cioè della capacità di sottomettersi ai bisogni dell’altro per accrescere il suo bene vero e profondo, 
  • cuciti con pazienza, sopportazione, comprensione, 
  • foderati di sopportazione (in altre parole, sostenetevi, sorreggetevi gli uni gli altri). In questo periodo non mi sento molto forte fisicamente. Quanto bene mi fa il braccio di chi mi aiuta a camminare più sicura e a non inciampare! 
  • E perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi d’un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Il perdono dovrebbe essere la “colla” che unisce la coppia e la cementa, e deve essere usato biblicamente e costantemente. 
  • Infine coprite tutto con un mantello… E al di sopra di tutte queste cose, vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione”

Per oggi mi pare che basti.
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C’è speranza se… Consiglio n. 3


Il consiglio n. 1 era: Tenete presente la differenza fra uomo e donna e il loro modo diverso nell’affrontare i problemi.

Il secondo era quello di non vivere insieme coi genitori di uno o dell’altro e neppure troppo nelle loro vicinanze.

Il terzo consiglio è:
Affrontate le mancanze del vostro partner con tatto e comprensione. 

Quando pensiamo che l’altro abbia veramente torto, che faremo? Decideremo di ammonirlo immediatamente?

No. Sarebbe controproducente. Sarà molto meglio mettersi il freno a mano, comprendere quale sia la volontà del Signore e pregare. È incredibile come la preghiera può cambiare il nostro ateggiamento.

Nella preghiera, non cominciamo a accusare il nostro partner davanti al Signore (questo è già il mestiere diurno e notturno del diavolo). Cerchiamo piuttosto di capire le ragioni delle mancanze del nostro caro, o della nostra cara.

Forse scopriremo che abbiamo ferito il suo orgoglio dicendo per esempio: “Come guida della famiglia non vali proprio un tubo!” oppure: “Se non ci fossi io, andremmo tutti in malora!”. Forse ricorderemo che il nostro caro, o cara, ci ha parlato una volta di avere un senso profondo di inadeguatezza o di inferiorità e lo abbiamo dimenticato o non ne abbiamo tenuto conto.

O capiremo che ha paura, che è stanco, che è stato oggetto a commenti poco lusinghieri in ufficio o in chiesa. Che da bambino aveva un padre che gli diceva che era una nullità. Ricorderemo che qualche esperienza o a scuola o sul lavoro ha provocato in lui, o in lei, ferite profonde.

Così, quando avrete pregato e pensato, affrontate con calma a tu per tu, il problema, senza cercare di giocare agli psicologi, senza dire parole pesanti, prendendovi anche la vostra parte di colpa e discutetene nello spirito di 1 Corinzi 13, in cui sono elencate le caratteristiche dell’amore, che è anche gentilezza, comprensione, pazienza, sopportazione.

 E, se possibile, usate anche un po’ di umorismo gentile e sincero, che non guasta mai. Ma che non sia “umorismo” tagliente!

I risultati saranno, di solito, positivi!
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C’è speranza se… Consiglio n. 2


Il primo consiglio per il buon successo di un matrimonio riguardava l’importanza di tenere conto del fatto che uomini e donne affrontano i problemi da angoli diversi. Gli uomini sono razionali e le donne sono emotive.

Il secondo consiglio è:
Se possibile, non vivete coi genitori né di lui né di lei. 

Contrasti anche seri si determinano quasi invariabilmente se una giovane coppia cerca di vivere nella stessa casa dei genitori.

Una coppia che comincia una vita a due ha già abbastanza prolemi da affrontare e angoli da smussare senza andare a cercarsene di più. Le coppie sposate da poco spesso trovano difficile perfino abituarsi a un nuovo modo di apparecchiare la tavola, di piegare gli asciugamani, di gestire le luci di casa e così via. Figuriamoci se ci si aggiungono gli sguardi solleciti della suocera che non approva il modo di stendere le camicie della sposina, o i consigli di una madre che, in nessun modo, vuole cambiare la disposizione di qualche quadro ninnolo ingombrante.

Gesù citò la Genesi dicendo: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una stessa carne” (Matteo 19:4).

Dio, nella sua sapienza, ha comandato la separazione della coppia dai genitori al momento del matrimonio. In questo modo si evitano le interferenze dei genitori sui comportamenti dei giovani sposi e formazioni di pregiudizi su uno o su un altro, scontri riguardo agli orari, aggiustamenti faticosi di abitudini, cambiamenti nei modi di cucinare, convivenze troppo strette data la piccolezza dell’appartamento da condividere.

Per non parlare poi dei problemi che sorgono quando nasce il primo nipotino!

Molti giovani pensano che sia una buona idea vivere coi genitori almeno per un breve periodo, “fino a che non ce la potremo fare da soli”, ma finiscono per pentirsene amaramente e per piangerci su, anche per tutta la vita.

Perciò, ragazzi, cominciate la vostra a due da soli e col Signore e, se possibile non vivete neppure nella stessa strada o vicinato dei suoceri o dei genitori.

Però quando vi fate visita, fate in modo che siano visite felici e preparate in ogni dettaglio!
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C’è speranza se… Consiglio n.1


Quali probabilità avete che il vostro matrimonio riesca?

A questa domanda un noto giornalista ha risposto: “Nessuna, a meno che non abbiate la volontà di considerarlo il lavoro più importante della vostra vita e non prendiate neppure un giorno di vacanza”.

Il matrimonio è un’esperienza ricca e soddisfacente per coloro che sono pronti a sacrificare idee e opinioni fisse, pur di piacere a Cristo e l’uno all’altro.

Questa è la base con cui il giornalista ha formulato questi brevi consigli (li scriverò uno alla volta), che sono un po’ come dei cartelli indicatori che mostrano la strada verso la riuscita del vostro matrimonio.

CONSIGLIO N. 1
Rendetevi conto che uomini e donne non affrontano i problemi nello stesso modo.

L’uomo di solito si mette davanti ai problemi e ragiona a freddo, mentre le donne li vivono piuttosto basandosi sui sentimenti e le emozioni. Chi non capisce questa diversità basilare esistente fra uomini e donne, si rende responsabile di gran parte delle tensioni e delle frizioni che si determinano in una famiglia.

La tentazione principale dell’uomo è diventare amaro verso la donna per questo suo modo di affrontare i problemi e la vita. Ecco perché Dio ha specialmente comandato la tenerezza agli uomini: “Mariti, amate le vostre moglie, e non vi inasprite contro di loro” (Colossesi 3:19).

La tendenza è così profonda e la tentazione è così forte, che Dio ne ha parlato anche per bocca dell’Apostlo Pietro. “Parimente, voi mariti, convivete con loro con la discrezione dovuta al vaso più debole che è il femminile. Portate loro onore, poiché sono anch’esse eredi con voi della grazia della vita, affinché le vostre preghiere non siano impedite” (1 Pietro 3:7).

La donna, d’altra parte, tende a diventare irritata contro suo marito, il quale sembra fare solo dei calcoli razionali. Per questo, Dio le dice: “Voi mogli siate soggette ai vostri mariti” e cercate di pensare che essi vogliono il vero bene vostro e della famiglia. Se pensate che non affrontino bene il problema, dategli fiducia e accomodatevi al loro modo di fare.

È sempre bene ricordare che la ragione senza emozioni sarebbe dura e senza vita, ma anche che le emozioni senza ragione sarebbero inutili e deleterie. Perciò moglie e marito si completano a vicenda e diventano strumenti di crescita spirituale l’uno per l’altra.

Alla prossima, col secondo consiglio indispensabile!
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Troppo stanco per pregare


Ma quanto è difficile pregare! Se c’è una cosa che Satana cerca di ostacolare è proprio la pratica del nostro raccoglimento e la nostra vita di preghiera. Ecco cosa usa. 

L’abitudine 
Preghiamo e le nostre preghiere sembrano sempre uguali. Cominciamo allo stesso modo e seguiamo sempre la stessa formula e finiamo con la  solita frase “nel nome di Gesù”.

Chiediamo le stesse cose, e c’è proprio poca freschezza nelle nostre richieste. A volte, anche se usiamo una lista di preghiera, sembra un po’di leggere l’elenco del telefono. E il nostro cuore è freddo e lontano. Ci abbiamo fatto l’abitudine.

Trattiamo il Signore come se fosse il garzone del supermercato
Gli facciamo la lista di quello di cui abbiamo bisogno e amen. Non aspettiamo neppure un momento per capire se abbiamo chiesto una cosa giusta, se il nostro atteggiamento è buono, se preghiamo con sottomissione. 

Ma c’è di più.

La stanchezza fisica
La mattina ci alziamo stanchi e con poca voglia di pregare. La sera siamo troppo stanchi per pregare e ci addormentiamo pregando. Pregare dovrebbe essere una gioia, mentre a volte diventa una fatica. Da che dipende?

Siamo troppo occupati
Vogliamo pianificare e organizzare ogni minuto della nostra giornata e cerchiamo di seguire degli orari impossibli. Magari la riempiamo di cose buone e attività utili, anche spirituali e di testimonianza. Ma se siamo troppo presi dalle attività e trascuriamo la preghiera, il raccoglimento e la meditazione, significa che siamo troppo occupati per funzionare bene. Ho sentito una frase molto appropriata a questo riguardo: “Guardatevi dall’aridità di una vita troppo attiva”. Parole sante.

Dobbiamo capire che la parte più importante della nostra vita cristiana è la nostra comunione  con Dio. E da questa comunione dipendono la potenza e il peso della nostra testimonianza, la gioia di servire e l’efficacia di ciò che facciamo. 
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Fede sincera: ma che vuol dire?

“Ogni religione è buona purché sia praticata con sincerità.” Me lo ha detto una signora quando ero ragazza e ero ai miei primi timidi tentativi di testimonianza (da poco avevo capito che la Bibbia era il libro di Dio su cui volevo basare la mia fede e costruire la mia vita).

Io ero cresciuta sotto la dittatura fascista in cui si diceva che “il Duce ha sempre ragione” e guai a chi obiettava. Perciò, quella della signora mi era sembrata, in un primo momento, un’affermazione di lodevole tolleranza.

Poi, però, mi sono resa conto che la matematica non mi tornava. In nome della fede erano state fatte guerre e carneficine e non era possibile che tutte le fedi, anche se seguite con sincerità, fossero giuste. Se una diceva il contrario di quello che diceva un’altra, non era possibile che fossero tutte e due vere.

Questo era vero circa 70 anni fa ed è vero ancora ai nostri giorni.

Oggi la tolleranza è diventata quasi la religione ufficiale. Il Papa strizza l’occhio a ebrei e musulmani in nome del monoteismo e alcuni movimenti cattolici aprono alle religioni orientali. È possibile che tutti abbiano ragione?

L’Apostolo Paolo, parlando dell’amore che scaturisce da un cuore puro e da una buona coscienza, diceva anche che questo amore proviene da una “fede sincera” (1 Timoteo 1:5). Che cosa intendeva? Parlava di una fede senza aggiunte né contaminazioni umane, pura, basata unicamente su quello che la Bibbia afferma.

Nel versetto della sua prima lettera, precedente a quello in cui aveva parlato del cuore puro, della buona coscienza e della fede sincera (v. 5), aveva esortato Timoteo a non occuparsi di “favole, genealogie senza fine, che suscitano discussioni invece di promuovere l’opera di Dio” (v. 4) e subito dopo il v. 5, aveva messo in guardia il suo collaboratore contro gente che fa “discorsi senza senso, che vogliono essere dottori della legge, ma in realtà non sanno né quello che dicono né quello che affermano con certezza” (vv. 6,7,8). Di questo sono maestri i fondatori delle sette e i loro seguaci che citano a vanvera il greco, che non hanno mai studiato, parlando delle dottrine dei loro fondatori.

Allora, in che cosa consiste la fede “sincera” di cui parlava Paolo?

Essa è fatta di tre elementi semplici e controllabili nella Bibbia: il primo è la SOLA Scrittura, composta dall’Antico e dal Nuovo Testamento, senza le aggiunte di tradizioni che non solo alterano la Scrittura, ma anche ne annullano il messaggio (per esempio, la dottrina del purgatorio, mai nominato nelle Parola di Dio, che promette una sicura purificazione dei peccati mediante anni di sofferenze). “Ogni parola di Dio è affinata col fuoco. Dio è uno scudo per chi confida in Lui. Non aggiungere nulla alle sue parole, perché Egli non ti rimproveri e tu non sia trovato bugiardo” (Proverbi 30:5,6).

Il secondo elemento è che la salvezza dell’anima è per SOLA fede, senza l’aggiunta di opere meritorie, penitenze e indulgenze inventate dai religiosi. È una salvezza prodotta dal sacrificio infinito di Gesù sulla croce, il quale ha pagato per i peccati di tutti gli uomini e che Egli offre in dono (Romani 6:23), a chi stende la mano e la riceve credendo in Cristo quale unico Salvatore e unico Signore (Atti 4:12). “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il lavacro della rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su noi, per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, affinché giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna” (Tito 3:5-7).

 Il terzo elemento è la SOLA grazia, cioè il favore immeritato che Dio è pronto a concedere a chiunque crede in Cristo, perdonandogli tutti i peccati, senza l’aggiunta di sacramenti e opere meritorie. “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, è il dono di Dio. Non è in virtù di opere, affinché nessuno si vanti” (Efesini 2:8,9).

Questa è la fede sincera, riscoperta secoli fa da Lutero, che noi dobbiamo proclamare.
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Chi vedi?

Un ragazzo ha chiesto a suo padre: “Papà, che cosa è la coscienza?”.

“È quella vocetta dentro di te che ti fa sentire se sei stato bravo o se hai fatto qualcosa di sbagliato. Se hai fatto del male non ti fa stare tranquillo e se hai fatto bene…”

“Ti fa stare felice” concluse il ragazzo.

“Sì” rispose il papà. “Così quando ti guardi allo specchio, non avrai niente da rimproverare alla persona che vedi riflessa.”

“Ho capito. Ora vado a giocare a calcio e se non do una spinta per far cadere un nemico, avrò rispetto di chi vedo allo specchio! Ciao!”

Il ragazzo ci rideva su, ma aveva capito.

Nel versetto che abbiano cominciato a leggere la volta scorsa, c’era scritto che l’amore di Dio produce un cuore puro e una buona coscienza.

La prima volta che una coscienza ha cominciato a rimordere è stata quando Adamo e Eva hanno peccato e si sono andati a nascondere da Dio. Avevano paura del castigo.

Da allora, ogni essere umano che nasce ha una coscienza che gli fa avere paura della punizione di Dio se fa male, gli fa sentire che ci saranno per lui un giudizio, un Dio a cui dovrà rendere conto e che dopo questa vita c’è l’eternità (Ecclesiaste 3:11).

La coscienza è importante, ma la gente comune, molto spesso, per non dire quasi sempre, la mette a tacere e non l’ascolta. Si scusa, trova attenuanti per ogni peccato che commette.

Il credente, invece, ci fa caso. Quando ha accolto Gesù nella sua vita e ha ricevuto per grazia il dono della salvezza, l’opera dello Spirito Santo che lo ha fatto nascere di nuovo, ha scavato nel profondo del suo essere e lo ha purificato fino nel profondo della sua coscienza. La lettera agli Ebrei dice che “il sangue di Gesù, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purifica la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente” (9:14). Che gioia! Anche la macchia più nascosta, il peccato più remoto è stato lavato. Dio ci vede puliti.

Siamo puliti, è vero, ma non diventiamo perfetti. Pecchiamo ancora e la coscienza ci avverte, come una lucetta rossa che si accende quando c’è un pericolo o un guasto nella macchina. Dobbiamo ascoltarla e confrontarla sempre con la Parola di Dio che penetra in noi come una spada sottile (Ebrei 4:12). Non dobbiamo tirarci indietro, ma lasciarci indagare come diceva Davide nel Salmo 139:23,24, e permetterle di mettere in luce i nostri errori. Mai e poi mai, dobbiamo prendere alla leggera gli avvertimenti della coscienza. E non fare come alcuni nominati nella Bibbia, che hanno trascurato di ascoltare la loro coscienza (1 Timoteo 1:19,20) e che hanno “fatto naufragio quanto alla fede”.

Appena un peccato è individuato, lo dobbiamo confessare a Dio, senza scuse. Allora il sangue di Cristo, che ha già operato profondamente al momento della nuova nascita, continuerà la sua opera di purificazione (1 Giovanni 1:9).

Dopo di che, dobbiamo credere che Dio ci perdona e dimentica il nostro peccato, nel senso che per Lui non esiste più. È cancellato e non deve tormentare più neppure noi.

Una sorella olandese, parlando alle donne, lo spiegava così e non l’ho mai dimenticato: “Dio getta i nostri peccati nel fondo del mare e poi mette un cartello con scritto ben chiaro: DIVIETO DI PESCA”. Più chiaro di così…

Come va la tua coscienza? Tu, quando ti guardi allo specchio, chi vedi?

Una buona medicina per il nostro paese

Abbiamo parlato lunedì scorso dell’amore di Dio e del nostro amore per Lui. In un’altra lettera, Paolo parla dell’amore che procede da un cuore puro (1 Timoteo 1:5), da una buona coscienza e da una fede sincera. Questo è l’amore che noi dobbiamo avere.

Deve venire da un cuore puro, cioè purificato, pulito e rinnovato dallo Spirito santo.

Ho scritto questo post il 29 aprile 2013 dopo avere sentito il discorso del nuovo Presidente del Consiglio. Era pieno di buoni proponimenti, di promesse e di speranze. Probabilmente, mentre lo pronunciava, credeva a tutto quello che diceva e faceva appello alla collaborazione e all’impegno dei suoi colleghi e del popolo italiano. Parole e proponimenti giusti. Ma potranno essere messi ad effetto? Ne dubito.

Non perché le autorità non vogliano fare bene e non vogliano il bene della nazione, ma perché hanno a che fare con uomini, per natura egoisti e con un cuore non puro. E, forse, hanno anche a che fare col loro cuore.

La Bibbia non fa mistero sul cuore dell’uomo e dice che è insanabilmente malvagio e ingannevole (Geremia 17:9) e Gesù ha detto che dal “cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni” (Matteo 15:19).

Gesù stesso non si fidava neppure della gente che alla festa di Pasqua lo lodava e acclamava “perché conosceva quello che era nell’uomo” (Giovanni 2:25). Proprio in quell’occasione un uomo religioso molto sincero (se fosse vivo oggi, probabilmente sarebbe un pezzo grosso in Vaticano) andò a trovarlo di notte, probabilmente per non farsi vedere dai suoi colleghi, per esprimere il suo rispetto per Gesù. Aveva capito che era il Messia venuto da Dio.

Gesù interruppe il discorsetto di circostanza di Nicodemo e gli disse pari pari: “Se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3:3) e gli spiegò che, nonostante la sua sincerità e integrità, aveva bisogno di un rinnovamento radicale interiore, di una trasformazione che Gesù chiamò “nuova nascita”. Non gli disse che doveva battezzarsi, fare penitenze o pellegrinaggi, ma che doveva credere in Lui e in Dio che lo amava e voleva salvarlo.

Ecco le parole precise di Gesù: “Iddio ha tanto amato il mondo (mi piace immaginare che Gesù lo abbia guardato con amore negli occhi e gli abbia fatto capire che Dio lo amava come amava ogni altro essere umano mai vissuto sulla terra) che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna” (v. 16).

Nicodemo non professò di credere in Cristo in quel momento, ma quelle parole lo colpirono. In seguito cercò di difendere Gesù quando era accusato dagli altri sacerdoti (Giovanni 7:50,51) e dopo che Gesù era stato ucciso, ebbe il coraggio di andare a chiederne il corpo per seppellirlo degnamente (Giovanni 19:39). Le sue azioni dimostrarono che il suo cuore era cambiato. Era diventato puro.

Un cuore puro ama, non progetta il male, non si vendica, non è egoista. È un cuore che non agisce per orgoglio e cerca il bene degli altri.

Sarebbe bello se il cuore degli Italiani diventasse così. E sarebbe bello anche se noi Italiani, che conosciamo la verità e per la grazia di Dio siamo nati di nuovo, cercassimo di inondare il nostro paese di foglietti di evangelizzazione, parlassimo di più del Vangelo ai nostri vicini e pregassimo di più per le nostre autorità. Certamente qualcosa cambierebbe.
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Ho tanta fede!

“La fede è un gran dono.” Me lo diceva spesso una vicina di casa, quando abitavo fuori Roma. E poi aggiungeva: “Io ne ho tanta”.

Ora abito a Roma e lei mi telefona ancora, mi ripete la stessa cosa e mi decanta la sua fede (e, a dire il vero, loda, bontà sua, anche la mia). Ma guai se le dico che non ogni tipo di fede è utile e che la fede deve essere messa su qualcosa di vero e di affidabile, altrimenti è pura illusione. Allora mi dice che non devo criticare e che in ogni religione c’è del buono, e che Dio ci penserà Lui a giudicare. Il nostro sembra un dialogo fra sordi.

La realtà è che tutti abbiamo fede. Anche l’ateo ne ha una, dato che crede che non ci sia Dio. Il buddhista crede di essere lui dio. Un altro crede di essere Napoleone risuscitato. Una donna, anni fa, è venuta nel nostro ufficio e ci ha detto che aveva fede di stare per partorire di nuovo Gesù.

Madre Teresa di Calcutta, che ha fatto molto del bene e che anche molti evangelici hanno pensato fosse una grande cristiana, così ha definito il suo credo: “Spero di poter convertire delle persone. Ma non come voi pensate… Quando incontriamo Dio e lo accogliamo nella nostra vita, noi ci convertiamo. Allora diventiamo un induista migliore, un musulmano migliore, un cattolico migliore secondo la religione a cui apparteniamo. Che cosa sceglierei io? La via cattolica, per voi sarà forse l’induismo, per un altro il buddhismo, secondo la coscienza di ognuno. Dovete accettare l’idea di Dio che voi stessi vi fate…” (da: Desmond Doig , “Mother Teresa: Her people and her work – Harper e Row, 1976, p. 156).

Salomone diceva : “C’è una via che all’uomo pare giusta, ma finisce col portare alla morte” (Proverbi 14:12). Molte persone avranno delle sorprese molto dolorose, un giorno, quando saranno davanti alla loro eternità.

La fede deve essere basata su qualcosa di certo per avere valore. Quella fondata sulla Bibbia, un libro che non è mai stato smentito e si dimostra sempre più vero, è una fede sicura. Propone una fede basata su ciò che Dio Padre ha detto e su ciò che suo Figlio Gesù Cristo ha fatto. Egli è l’unico oggetto di fede di cui ci si può fidare.

Egli è stato categorico: “Chi ascolta la mia Parola e crede a Colui che mi ha mandato ha vita eterna e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Ev. di Giovanni 5:24). Lo ha potuto affermare perché era Dio e lo ha dimostrato. Non ha mai detto una bugia e in tutta la sua condotta ha personificato l’amore, la santità e la giustizia di Dio.

Ha potuto chiedere ai suoi accusatori: “Chi di voi mi convince di peccato?” (Ev. di Giovanni 8:46) e nessuno ha potuto accusarlo.

Ha potuto affermare: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Ev. di Giovanni 14:9). Non solo ha vissuto una vita irreprensibile, ma è arrivato a caricarsi di tutto il male che gli uomini hanno mai compiuto e compiranno e a subire al loro posto la loro giusta condanna. Egli “giusto è morto per gli ingiusti”. Dopo essere morto sulla croce è risuscitato a prova della sua divinità.

 Perciò ha potuto dichiarare: “Chi crede in me, ha vita eterna” (Ev. di Giovanni 6:47), “voi morrete nei vostri peccati, se non credete che io sono il Cristo” (Ev. di Giovanni 8:21) “Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti di mio Padre e dimoro nel suo amore. Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa” (Ev. di Giovanni 15:10,11).

Su Lui e sulla Parola di Dio baso la mia fede. E sono certa che non sarò delusa.
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Circondata dall’amore

In questo periodo di malattia inaspettata e molto seria, sono circondata da una incredibile ondata di amore, tenerezza e affetto. Arrivano lettere da tante parte, alcune da persone che penso di non avere mai conosciuto peronalmente. Evidentemente le ho dimenticate!

Una mi ha colpita e ve la traduco (è arrivata dall’America da un certo George P.) perché mi ha toccata in modo speciale. Spero che faccia bene anche a qualcuno che forse è malato… terminale (quando il Signore lo deciderà)! E anche a chi sta bene e pensa di essere immortale.

Eccola.

Oggi hai appreso che hai il cancro (la mia leucemia lo è). Probabilmente la notizia farà scattare la paura nel tuo cuore.

Amica, posso dirti un segreto? Dio conosce la fine dal principio.

Il dolore forse sarà grande, il sentiero davanti a te sarà buio, ma Colui che ha creato l’universo, può darti gioia nel profondo del cuore.

Ti ha chiamata a un periodo di sofferenza e ha promesso di darti forza.

La tua mèta è eterna. È la vita in Cristo.

Spesso noi fissiamo la nostra mente sul dolore fisico e il trantran della nostra vita, ma Dio vuole aiutarci a guardare oltre i cieli, al cielo eterno con Lui.

I suoi scopi sono sempre buoni, Egli vuole rendere più forte la nostra fede, ma i nostri cuori a volte sono testardi e vorrebbero un po’ di tregua e tranquillità.

Il nostro Dio ci ama davvero e fa ciò che è necessario per aiutare i nostri cuori, che si sviano facilmente, a dimorare e avere fiducia solo in Lui.

Perciò, getta tutti i tuoi pesi sul Signore, il tuo Dio, perché nessuno ti ama più di Lui, e abbandonati fiduciosa nelle sue braccia eterne. 

Per la cronaca, sto ancora bene, posso vivere quasi normalmente, le trasfusioni mi danno la spinta quando è necessario e l’amore del Signore, quello dei miei cari e di una miriade di amici e fratelli mi circondano. Cosa potrei chiedere di più?
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Discutere: un’arte poco italiana…

A me la politica interessa abbastanza, anche se le chiacchiere dei politici in TV lasciano il tempo che trovano. Ma mi sembra importante capire a cosa pensano i nostri capi e o loro controcapi e quante bugie ci raccontano.

Ma che differenza c’è fra come discutono gli Italiani dagli Americani e gli Inglesi!

Direte subito che noi abbiamo il sangue più caldo e quelli sono delle pappe molle, ma io dico che almeno si dimostrano civili e sono comprensibili.

Inoltre, ubbidiscono e rispettano i loro moderatori. Se hanno a disposizione tre minuti per parlare, tre minuti sono. Punto e basta. Inoltre, non interrompono chi parla, non gli gridano addosso, non lo contraddicono mentre ancora sta parlando e non lo insultano e non gli danno del bugiardo. Se poi sono smentiti o ridimensionati, sparano le prossime cartucce.

Le discussioni sono normali, perché ognuno di noi ha la sua testa, la sua preparazione, le sue convinzioni. Succedono nelle famiglie fra sposi, genitori e figli, nelle scuole e negli uffici fra colleghi, nelle chiese fra fratelli in fede. Niente di male. Il male è quando una discussione diventa una specie di partita di pugilato verbale e una lotta per sostenere un punto di vista senza badare a quello degli altri. E finisce in una litigata non risolta.

Per discutere bene, bisogna, prima di tutto, partire con l’intenzione di trovare un accordo. Se si è credenti, è una buona idea pregare (almeno mentalmente) prima di cominciare e ricordare che si è alla presenza del Signore.

Poi si deve imparare a ascoltare e cercare di capire il punto di vista dell’altro. Senza offendersi, inalberarsi e spazientirsi. Questo, a volte, è difficile perché l’interlocutore la fa un po’ troppo lunga, la prende da Adamo e Eva e non viene al dunque. Oppure parte arrabbiato e belligerante, come un galletto litigioso…

Però, una volta capito il suo punto di vista, si deve rispondere con calma e cercare qualche punto in cui dare ragione all’avversario per poi esporre il proprio punto di vista. Importantissimo: spiegarsi in modo da essere capiti. A volte si arriverà a un accordo.

Altre volte bisognerà decidere che d’accordo non si è, ma non se ne farà una ragione di discordia interminabile. Anzi, si dovrebbe cogliere l’occasione per chiedersi reciprocamente perdono, dato che il torto non è mai da una parte sola. Una volta chiesto e concesso il perdono, il problema è chiuso. Ognuno forse resta della sua opinione, ma non se ne parla più. Non si tirano fuori le cose messe a riposo.

Purtroppo ci sono invece sposi che portano avanti discussioni, che in realtà sono crucci e offese, per anni e non trovano pace. Altri dicono che ci mettono una pietra sopra, ma sotto la pietra ci mettono la dinamite. Altri si separano o non si parlano per mesi.

Perfino i discepoli discutevano fra loro su chi fosse il maggiore. Forse uno diceva che era credente da più tempo e perciò aveva più conoscenza, un altro che aveva ascoltato con più attenzione il Signore, un altro che era parente di Gesù, un altro che quando camminavano da un villaggio a un altro aveva portato i fagotti più pesanti. Tutte cose inutili.

Cosa disse loro il Signore? “Chiunque vorrà essere grande tra di voi, sarà vostro servitore, e chiunque di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo, appunto come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Matteo 20:26,27).

La persona con cui abbiamo delle divergenze non deve mai diventare un nemico, ma uno a cui proviamo di fare del bene. Che ne so? Offire la pietanza favorita al marito brontolone, una rosa regalata alla cognata difficilina, un bigliettino pieno di affetto al figlio ribelle, un “ti voglio bene” a una collega scorbutica. Fate un po’ voi!
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PRONTO, CHI EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEÈ?

Abbiamo parlato dell’arte di lodare, di sgridare, di raccontare e oggi arriviamo all’arte di telefonare. È vero che i telefonini stanno prendendo il posto dei telefoni fissi e gli iPad quello dei telefonini. Ma ancora si usa il telefono fisso, specialmente fra persone di una certa età, perciò un po’ di savoir faire si può sempre imparare e praticare.

Sento squillare il telefono, rispondo: “Pronto!” e dall’altra parte una voce mi chiede: “Chi èèèèèè?”.

Un momento, questo non è gentile. Se hai telefonato, di’ chi sei tu e chiedi gentilmente la persona con chi vuoi parlare. Non aspettare che ti chiedano chi sei e cosa vuoi.

Poi, dato che non sai se la persona che hai cercato ha tempo per chiacchierare o no, chiedi se è un momento adatto o no. Poi, di’ quello che ti sta a cuore e vedi come va la conversazione.

Se chiedi di parlare per due minuti, sii sicuro che non diventino venti.

Non ti dilungare, non divagare e non annoiare con ghirigori inutili, a meno che tu non sappia con certezza che il tuo interlocutore non ha niente da fare, che sia una persona sola e bisognosa di compagnia.

Se chiedi delle spiegazioni, e la persona all’altro capo del filo te le dà, non la contraddire solo per la gioia di ribadire le tue idee. Magari, se non hai capito bene, chiedi qualche altro schiarimento e poi di’ che ci penserai su. Ma non discutere all’infinito.

Se devi esprimere delle lamentele NON telefonare: litigare al telefono è la cosa più pericolosa che ci sia, perché non si vedono le espressioni facciali della persona con cui si parla, non ci si può rendere conto del suo umore e si finisce solo per farsi dei nemici. Le discussioni è meglio farle a voce, ma di queste parleremo la prossima volta.

Ancora un paio di osservazioni riguardo al telefono: non mi sembra una buona idea mandare i figli a rispondere alle chiamate, perché spesso non sono i migliori segretari. Infine, promettete un premio ai bambini se non verranno a farvi la lagna o a piagnucolare mentre parlate con qualcuno. Naturalmente mantenete la promessa e siate sicuri che la ricompensa sia data e non rimandata!

Ciao!
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Quando racconti…. Stringi!

La gente parla troppo. Parla, parla e parla e non pensa che forse tu non hai tempo di ascoltare e hai altre cose da fare. In più, spesso, quando uno ha finito, non sai perché ti abbia parlato. Cosa voleva dire? Tutto si è perso in una valanga di parole.

Altri, quando cominciano a raccontare qualcosa, fosse solo per dirti che hanno fatto un salto dal verduraio per comprare quattro pomodori, ti cominciano un romanzo. Ecco: “Sai, non mi ero accorta che non avevo più pomodori, perché ieri sera era venuta mia cognata, sai quella che ha sposato mio fratello dopo che la moglie se n’era andata con un altro… una storia terribile… e mi aveva chiesto i pomodori e io che non so mai dire di no, sono fatta così!, glieli ho dati… Volevo anche telefonarti per sapere se ti mancava qualcosa, ma mi sono dimenticata… ho tante cose per la testa… Sapessi… ”.

Mi sono spiegata? Alla fine della chiacchierata, non sapevo perché l’amica mi aveva chiamata, cosa mi voleva veramente dire (forse chiedermi se avevo bisogno di qualcosa?) e che cosa avrei potuto fare io. Non credo che mi volesse solo informare sui quattro pomodori mancanti, ma non so davvero dove volesse andare a parare!

Anche raccontare è un’arte. Nessuno te la insegna a scuola, non la trovi nei manuali, perciò pochi la conoscono e la usano. Ma sarebbe importante impararla, perché aiuterebbe a non perdere tempo e a non farne perdere agli altri. E renderebbe la gente molto più simpatica.

Ecco un paio si dritte.

• Prima cosa, è essenziale pensare a cosa voglio dire, e se sia veramente necessario. Poi, quanti dettagli voglio raccontare? A cosa voglio arrivare? Devo badare al dove, come, quando e perché.

Per esempio, voglio raccontare a un amico un incontro che ho fatto, mettiamo alla posta, dove ero andata per spedire un pacco. “Sai chi ho visto? Giorgio, quello che veniva a giocare a palla a volo quando eravamo al liceo. Ero alla posta e stavo aspettando il mio turno per spedire un pacco e si è seduto accanto a me e mi ha chiesto se lo riconoscvo. È cambiato un bel po’ da allora, ma mi ricordavo la sua parlata e il suo modo di fare gentile. Abbiamo fatto una bella chiacchierata. Dice che dovremmo ritrovarci tutti per una pizza, come ai vecchi tempi…”.

Se il mio interlocutore vuole saperne di più, se ha tempo (e se io ho tempo) si va più nei dettagli, facendo attenzione a non pettegolare, a non raccontare dettagli privati e a non fare commenti inappropriati.

• Seconda cosa, pensare bene se quello che sto per raccontare sarà utile a chi mi ascolta e se farà del bene. Se no, meglio tacere!

• Terza cosa, ricordare la parola di Salomone: “Nella moltitudine delle parole non manca la colpa, ma chi frena le sue labbra è prudente” (Proverbi 10:19). “Non essere precipitoso nel parlare e il tuo cuore non si affretti a proferire parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sulla terra: le tue parole siano dunque poche, poiché con le molte occupazioni vengono i sogni, e con le molte parole, i ragionamenti insensati” (Ecclesiaste 5:2,3).

Posso ancora fare un appunto? Quando si prega da soli, Dio ci ascolta con molta pazienza. Ma Lui stesso esorta, quando si è in pubblico (per esempio in una riunione di preghiera) a non usare troppe parole. Preghiere brevi e ben pronunciate a alta voce possono essere concluse da un “amen” consapevole di chi ascolta. Altrimenti, sono difficili da seguire e tolgono a altri il privilegio di pregare.

Ne volete sentire un’altra che un vecchio fratello diceva? Eccola: “Chi prega a lungo in pubblico, vuol dire che prega poco a casa”. Sarà?
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Anche sgridare è un'arte

Da bambina sono stata sgridata spesso e sveramente. Quando succedeva, pensavo con una certa rabbia: “Quando avrò figli, non li sgriderò mai!”.

Santa innocenza! Quando i figli li ho avuti, ho capito che le sgridate sono necessarie. Ma ho anche capito che sgridare è un’arte. Una sgridata ben fatta porta un buon effetto. Una catena di sgridate irrita, scoraggia e fa del male. E indurisce.

Per prima cosa, bisogna essere sicuri che la sgridata sia meritata. A volte, è facile rimproverare senza essere a conoscenza di tutti i particolari e si rischia di essere ingiusti.

Meglio informarsi, così, nel frattempo, la collera si calma e si ragiona meglio.

Poi la sgridata deve essere breve, precisa e circostanziata (sembra linguaggio da tribunale, non vi pare?). A volte la facciamo troppo lunga o funzioniamo a scoppio ritardato.

Ecco un ricordo della mia adolescenza.

È successo, mentre ero alle medie, che, allora si chiamavano”ginnasio” e duravano cinque anni. A quel tempo, noi ragazzi avevamo ancora un certo timore dei professori e delle punizioni dei presidi, ma, una mattina, non ricordo perché, avevamo proprio fatto indignare un professore.

Era un piccoletto, bruttarello, tracagnotto, con gli occhiali a stanghetta e con la montatura d’oro. In più parlava nel naso.

Ci sgridò di santa ragione, non tralasciando nessun particolare, e disse che andava dal signor Preside a far rapporto. Noi restammo silenziosi e allibiti (avevamo un sacro terrore di un brutto voto in condotta, che poi avrebbe influenzato tutta la media dei voti). Il prof. uscì dalla classe sbattendo la porta.

Silenzio.

Dopo qualche secondo, la porta si riaprì e apparve la testa del professore, il quale, con una voce che suonava come la tromba del giudizio, ci disse: “In-de-li-ca-ti!”. La porta si richiuse. Evidentemente il poveretto non pensava di averci rimproverati a sufficienza e voleva mettere la ciliegia sul gelato, come tocco finale.

Il più monello dei ragazzi cominciò a ridere e la sua risata diventò contagiosa. Tutti cominciammo a ridere fino alle lagrime. Sapete, di quel riso isterico che non riesce a calmarsi.

Quando il Preside venne, ci trovò rossi in faccia. Alcune ragazze avevano le lagrime a forza di ridere. Una ramanzina chiuse tutta la faccenda.

Ma il professore, poveraccio, rimase col soprannome di “indelicato” fino a che non andò in pensione.

Per non diventare eccessivi con le sgridate, a volte, è meglio buttare un po’ tutto in caciara. Ricordo che, una volta, i miei figli adolescenti avevano fatto un macello tale che nella loro camera sembrava che ci fosse passato Attila, flagello di Dio. Decisi di fare la faccia feroce e di ordinare che mettessero ordine al più presto. Comiciai la mia filippica e, in quel momento preciso, mi venne il singhiozzo: “Crede-te di fa-re bene e di esse-re br-avi co-mpo-port-ando-vi così?”

Uno dei gemelli mi mise la mano sul braccio e disse: “Abbiamo capito… mettiamo a posto!”. Poi ordinò al fratello minore di portarmi un bicchier d’acqua e tutto finì in una bella risata. Con la calma, la stanza fu messa a posto.

Infine, e questa è la cosa più importante, bisogna sgridare con amore e secondo Dio.

L’Apostolo Paolo, scrivendo a Timoteo, diceva: “Predica la Parola, insisti in ogni occasione favorevole o sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e di pazienza” (seconda lettera 4:2).

E se dopo la sgridata i figli vi chiedono perdono, non rispondete MAI: “Vedremo!”. Perdonate.
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Impara l’arte di… lodare

“Ha scelto la buona parte…”, “ha fatto quello che poteva…”, “lasciatela stare, lo ha fatto per me, in vista della mia sepoltura”, “Sta bene, buono e fedele servitore”, “Hai detto bene”, “Tu sei beato...”. 

Queste e altre frasi di Gesù sottolineavano la sua approvazione per azioni giuste compiute o parole dette da qualcuno. Egli era sempre pronto a lodare e a difendere chi faceva bene e diceva cose buone. Egli conosceva bene l’arte di lodare. 

Lodare e sottolineare quello che uno fa di buono, e dirlglielo, fa sempre del bene. 

Personalmente ho trovato che, quando erano piccoli, una lode ai figli faceva molto più effetto di una sgridata. Se mettevano in ordine la camera, quando tornavano da scuola trovavano un cartello con scritto sopra “BRAVI!” e se finivano bene i compiti senza fare storie, spesso ricevevano un piccolo premio. E, al suo ritorno dall’ufficio, mio marito veniva prontamente informato delle loro prodezze. Succedeva tutti i giorni? NO, ma succedeva. 

Alcuni mi dicevano che facevo male a lodarli, perché, a quel modo, incoraggiavo il loro orgoglio. Sarà, ma io non ci ho mai creduto! 

Naturalmente, le lodi devono essere meritate e sincere (la prossima volta parlerò di sgridate) e non devono avere l’aria di un pagamento per una promessa mantenuta o un’ubbidienza fatta in seguito a una minaccia. 

Devono sottolineare una buona qualità, notare un’azione gentile, mettere in risalto un buon atteggiamento. 

Esattamente come faceva Gesù, quando, ad esempio, ha difeso Maria che aveva cosparso il suo capo con un profumo molto costoso, nonostante le critiche, o quando si era messa ad ascoltare ciò che Lui diceva, anziché aiutare sua sorella che si affaticava per cose meno importanti. Oppure quando ha affermato di non avere mai trovato tanta fede quanta ne aveva avuta un centurione romano che gli aveva chiesto la guarigione di un suo servo o in una donna che aveva insistito per ottenere la liberazione della sua bambina indemoniata. O ha sottolineato la gratitudine di un solo lebbroso su altri dieci che aveva guarito. 

Il proverbio dice che una mela al giorno toglie il medico di torno. Io dico anche che una lode al giorno potrebbe migliorare, rischiarare, rallegrare l’atmosfera di molte famiglie. 

Provaci
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Pensare al cielo… è difficile!

Un giovane mi ha scritto. “So che sei malata e mi domando come fai a essere così tranquilla, al pensiero che presto lascerai questa terra. Io ho un problema: non riesco a bramare il momento che incontrerò Gesù; mi riesce difficile pensare a un’eternità nella quale lo adoreremo continuamente. Non credo che ciò sia dovuto a una mancanza di fede o amore per il Signore, né che sia un problema che ho solo io”. Bruno

Hai fatto bene a parlarmi del tuo problema. Penso che il tuo sentimento sia una normale reazione emotiva all’idea astratta dell’eternità.

Non è affatto strano che tu abbia questi sentimenti. Sei normale, sei giovane, hai probabilmente molti anni di vita davanti a te. Perciò è naturale che tu pensi a viverli pienamente e gioiosamente, tanto più che hai fede nel Signore e sei consapevole del suo aiuto e della sua presenza costante. Certamente hai progetti e piani ed è più che normale che tu abbia voglia di vederli realizzati.

D’altra parte, più amiamo e più conosciamo una persona e più desideriamo passare del tempo insieme. Sono sposata da 56 anni con mio marito e, onestamente, lo amo e lo apprezzo più di quando ci siamo sposati. Allora eravamo innamorati e pieni di passione, ma l’amore profondo si sviluppa nel tempo, perché è fatto di comunione di idee, di proponimenti e desideri comuni. Non si sviluppa in poco tempo, ma è qualcosa che si matura con gli anni.

La stessa cosa succede nella nostra “storia di amore col Signore”. Dopo la conversione ci sono entusiasmo, scoperta, passione. È un periodo magnifico. Ma una relazione profonda con Lui si sviluppa nel tempo, leggendo e approfondendo la conoscenza della sua Parola, pregando, meditando sulle sue promesse e imparando a conoscere sempre più la sua grazia, il suo amore, la sua misericordia e la sua disciplina. Più lo si conosce e più si vuole stare con Lui. E più si pensa quanto sarà bello abitare nella casa che Lui ci prepara.

In secondo luogo, sono le prove, le difficoltà, le malattie e le debolezze della vecchiaia che spingono di più i credenti a pensare e desiderare il ritorno del Signore, per stare eternamente con Lui.

Un giovane che sta bene, a certe cose pensa meno. Se, come scrivi, la tua intenzione è di seguire e servire il Signore e approfondire la tua relazione con Lui, Egli stesso ti guiderà sempre più e si farà sempre più conoscere da te. Perciò non ti preoccupare; vivi per Lui e con Lui pienamente ogni giorno della tua vita. Fai piani come se tu dovessi vivere fino a cent’anni, ma vivi ogni giorno come se fosse il tuo ultimo. È una formula a prova di bomba.

E sai che cosa mi rallegra tanto, ora che sono vecchia, vicina al “trasloco” nella casa celeste, dopo avere pienamente goduto la mia vita sulla terra servendo il Signore?

Sono i versetti in Apocalisse 22:3-5: “Nella città ci sarà il trono di Dio e dell’Agnello; i suoi servi lo serviranno, vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome scritto sulla fronte. Non ci sarà più notte; non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce del sole, perché il Signore Iddio li illuminerà e regneranno nei secoli del secoli”.

Che prospettiva meravigliosa! Serviremo ancora e non ci stancheremo!
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Festa grande in cielo!



“Tu non mi puoi obbligare a fare quello che vuoi. Voglio toccare il fondo e fare a modo mio”. Così si è espresso il figlio di un nostro amico. Era un ragazzo cresciuto in una chiesa evangelica. Spero che abbia messo la testa a posto.

Mi auguro che nessuno di voi abbia un figlio ribelle. A mio marito e a me non è successo niente di simile e ne siamo infinitamente riconoscenti al Signore. Penso che io sarei andata ai matti dal dispiacere.

Su una vecchia VOCE del VANGELO, di 25 anni fa, ho trovato questi consigli basati sulla parabola del figlio prodigo, con particolare attenzione alla figura del padre, che simboleggia Dio. Spero che non vi debbano mai servire, però…

Rileggete, tanto per cominciare, la parabola nel capitolo 15 del Vangelo di Luca.

  1. Il padre non ha diseredato il figlio ribelle che gli chiedeva la sua parte di beni. Non lo ha minacciato. Non c’è segno di odio o di desiderio di vendetta nel suo atteggiamento. Non ha trattenuto il figlio. Ha semplicemente acconsentito alla sua richiesta e ha continuato a amarlo.
  2. Il padre non si è lasciato sopraffare dalla disperazione. Alcuni genitori cadono a pezzi (come penso sarebbe successo a me) se un figlio si ribella. Il padre della parabola non ha permesso che la condotta del figlio lo annientasse. Ha continuato a vivere e a amare.
  3. Il padre non ha inseguito il figlio. Spesso l’insistenza nel richiedere l’ubbidienza e le troppe esortazioni allontanano più che mai i figli dalla famiglia. Il padre descritto da Gesù ha lasciato il figlio libero. Alcuni rispettabilissimi servitori di Dio hanno fatto lo stesso con dei loro figli ribelli. Ci vuole molto coraggio a farlo, ne sono sicura, e in alcuni casi ha funzionato.
  4. Il padre non ha negato al figlio i suoi diritti, gli ha dato la sua parte di eredità. Non lo ha trattenuto con un ricatto, nonostante la mancanza di rispetto del figlio, che lo stava trattando come se fosse già morto. Fece come gli era chiesto.
  5. Il padre non smise mai di sperare. Continuò a aspettare il figlio ribelle, a tenere le braccia aperte, perdonandolo in cuor suo. Credeva, evidentemente, nel suo ravvedimento.
  6. Il padre non rinfacciò al figlio il male che aveva fatto. Il suo perdono fu incondizionato e totale. Il suo abbraccio pieno di amore, ha parlato più di mille discorsi.
  7. Il padre fece una grande festa quando il figlio tornò pentito e desideroso del suo perdono. La festa fu grande e completa. Non ci furono rimproveri e quelle terribili frasi che cominciano con : “Te lo avevo detto!” oppure “Se mi avessi dato retta!”.

Il padre della parabola è un simbolo del Padre celeste e al suo modo di trattare chi appartiene alla sua famiglia, ma non è ubbidiente e sottomesso a Lui.

Quando il figlio si è ribellato non lo ha costretto all’ubbidienza, ma ha permesso che facesse le sue esperienze negative, dolorose, umilianti e comprendesse, per mezzo di esse, quanto stolta fosse la sua condotta.

Siamo sempre responsabili delle nostre scelte. Il Padre celeste continua a amarci, ma lascia che sperimentiamo i risultati delle nostre scelte sbagliate. Continua a amare e, quando rientriamo in noi stessi, magari pieni di piaghe e di lividi, e capiamo che abbiamo peccato e lo confessiamo, chiedendo perdono, ci perdona. Allora le sue braccia, che erano sempre state tese verso di noi, si aprono e ci stringono incondizionatamente. Bello, no? (Leggi 1 Giovanni 1:8,9).

La gioia in cielo è grande quando un peccatore si ravvede, ha detto Gesù. 
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Il dilemma di tanti: figli in chiesa o no?

Ho ricevuto una bella lettera da Anna, una sorella in fede, che chiede il mio parere se i bambini dovrebbero essere abituati a stare buoni e calmi al Culto della domenica mattina e alle riunioni di preghiera o se sarebbe meglio che qualcuno li tenesse occupati in un altro locale.

Anna è propensa alla prima possibilità (ha due bambini di 3 e 5 anni) mentre altre sorelle tendono a sostenere la seconda opzione per paura che i bambini si annoino e respingano in blocco la chiesa e le riunioni quando saranno più grandi.

Dal tono della lettera, mi pare di intuire che la cosa stia creando qualche dissenso o malumore fra i credenti.

Per prima cosa, premetto che una chiesa, numerosa o no, dovrebbe essere guidata, istruita e corretta da uomini scelti da Dio e approvati dalla chiesa, che la Bibbia chiama “anziani” o “vescovi”. Se c’è un pastore, dovrebbe farsi coadiuvare da uomini spirituali e maturi. Chi ha altri compiti, come la scuola domenicale, la riunione dei giovani o delle sorelle, deve seguire le loro direttive.

Nel caso specifico, di cui Anna parla, le guide dovrebbero decidere che cosa sia meglio nella loro situazione specifica, riguardo alla presenza di bambini durante le riunioni. E i genitori di bambini piccoli dovrebbero accettare la loro guida.

Personalmente, quando i nostri figli erano piccoli (ne avevamo quattro) e frequentavamo un’Assemblea dei Fratelli, abbiamo sempre portato ai culti e alle riunioni settimanali i nostri bambini da quando erano in culla. Via via che crescevano, sedevano con me e mio marito (due per ognuno!) e avevano imparato che la sala di culto era un luogo strano in cui si stava calmi e silenziosi.

Portavamo libretti speciali, riservati alla domenica, da sfogliare e colorare, e giochi silenziosi con cui tenersi occupati. Non disturbavano e così si abituavano a frequentare la chiesa (solo una volta mio marito ha dovuto uscire e disciplinare uno dei gemelli che non si comportava secondo le regole). Piano piano, via via che crescevano, li abbiamo abituati a ascoltare, a ricordare i canti e, a casa, cercavamo di ripetere quello che era stato detto e fatto. Naturalmente, senza fare commenti negativi sulla lunghezza della predica o su preghiere troppo estese.

Sono convinta che i bambini imparano a amare la “chiesa” e a stare buoni, se, quando sono a casa, i genitori li hanno abituati a ubbidire, a stare calmi quando necessario e a non fare capricci.

È essenziale, poi, che i genitori mostrino entusiasmo all’idea di frequentare le riunioni e insegnino ai loro piccoli a amare e rispettare la Bibbia. E inculchino il concetto che la chiesa è un posto importante, dove Dio ha promesso di essere presente.

Il lavoro si fa a casa in famiglia. Non si può sperare che si faccia durante un’ora di culto o scuola domenicale. Se la Bibbia, il canto di inni e la preghiera vengono trascurati in famiglia non è possibile che i figli li godano per un’ora la domenica o durante la settimana.

Ancora un avvertimento per Anna specialmente. Esprimere opinioni non serve a molto e si rischia di creare frizioni che, in ogni modo, nelle chiese spesso non mancano. Il modo in cui tu e tuo marito vi comportate, in chiesa e nella vita privata, sarà più efficace di qualsiasi predica, discussione o pio suggerimento. E, scusa se lo dico così francamente, i vostri figli sono la vostra unica responsabilità. Quelli degli altri, sono responsabilità di chi li ha messi al mondo. Curate bene i vostri e fate del vostro meglio.

P.S. Mio marito sta scrivendo un breve libro proprio su questo soggetto!
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HABEMUS PAPAM

Ieri sera ho visto in TV la presentazione del nuovo Papa. Sembra un tipo alla mano.

Mi ha fatto effetto la folla che gridava “Francesco” come allo stadio e mi sono ricordata di altre folle che gridavano “Duce!” quando ero ragazza. Niente è più contagioso del clamore della folla.

Molti sperano che ci saranno dei cambiamenti, ma che cambiamenti ci potranno essere da uno che ha già recitato l’Ave Maria la prima volta che si è affacciato alla finestra vestito da Papa e che domani andrà a pregare la Madonna? Sarà sempre la stessa solfa!

Qualcuno ha detto che nella chiesa ci vorrebbe una riforma, e probabilmente intendeva più moralità, meno ricchezze e meno politica. Parole sante!

Ma cosa sarebbe una vera riforma? Buttare alle ortiche il complesso di regole, sacramenti e tradizioni ammucchiate attraverso i secoli e accogliere i tre punti di Lutero: sola Scrittura, sola grazia, sola fede. Quella, sì, era una vera riforma. Ma la chiesa di Roma ha perso il treno. Oramai, per riforma si intende fare finta di cambiare qualcosa per non dovere cambiare mai niente.

In ogni modo, staremo a vedere!