Cosa vogliamo di più dalla vita?

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Spesso, quando serviamo il Signore, pensiamo di fargli un grande favore e ci sentiamo meritevoli di riconoscimento e di congratulazione da parte di Lui e dei nostri fratelli in fede. Se poi il riconoscimento e le congratulazioni non vengono, facciamo gli offesi. Come si permettono? Non vedono quanto fatico?

Brutta cosa, se si pensa a come considerava il suo servizio l’Apostolo Paolo, quando scriveva ai credenti di Roma: “Vi ho scritto.. a motivo della grazia che mi è stata fatta da Dio, di essere un ministro di Cristo Gesù tra i pagani...” (Romani 15:15,16).

Servire il Signore è una grazia, cioè un favore che non meritiamo e che il Signore ci fa nonostante tutta la nostra incapacità. Questo dovrebbe ridimensionare il nostro orgoglio e il nostro desiderio di essere riconosciuti e lodati. Non meriteremmo di servire il Re dei re, se non fosse per la sua pura benevolenza e la sua grazia.

Il lavoro è un onore, non è una galera. Oggi è considerato un diritto che tutti esigono. Ma, allo stesso tempo, è valutato come un peso, un male di cui non si può fare a meno. Per cui il proverbio “Voglia di lavorar saltami addosso e fammi lavorar meno che posso”, è sempre più messo in pratica.

Il lavoro è stato inventato da Dio, per il bene dell’uomo. È diventato faticoso a causa del peccato, ma è ancora un ordine, contenuto nei dieci comandamenti: “Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Iddio tuo...” (Esodo 20:9,19).

Se siamo credenti, il lavoro, qualsiasi lavoro, diventa un mezzo per servire e onorare Dio. Perciò deve essere fatto al meglio, come un servizio reso a Lui. Sia che si tratti del lavoro di un capitano dell’industria o quello di un benzinaio, di un professore o di uno studente, di un chirurgo o di un portantino. “Servi (schiavi) ubbidite ai vostri padroni ... come a Cristo” (Efesini 6:5). “Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando il Padre, per mezzo di lui” (Colossesi 3:17).

Quando mi sono sposata, ho dovuto rivedere molte cose.

Pensavo che servire il Signore, volesse dire fare bene una lezione della scuola domenicale, preparare con cura uno studio biblico, fare visita a chi era malato, scrivere libri e articoli immortali che avrebbero salvato l’umanità (si fa per dire....).

Mi sono trovata, invece, che non avevo più il tempo di prima per dedicami solo a cose altamente spirituali. Dovevo lavare e stirare le camicie di mio marito, cucinare, ospitare, pulire la casa e, quando sono arrivati i bambini, occuparmi di loro, lavare (a mano!) i loro pannolini, imboccarli, coccolarli, fargli fare il ruttino, ecc.

Grazie a Dio, piano piano, ho capito che preparare un pasto con cura era tanto importante quanto tradurre un capitolo di un libro di teologia, e che tutto dovevo farlo “nel nome del Signore Gesù”.

Qualunque cosa = lavare, stirare, telefonare, insegnare, spolverare, attaccare bottoni.

In parole o in opere = telefonare, scrivere, testimoniare, portare la spazzatura al cassone.

Fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù = come suoi rappresentanti, come se il lavoro lo facesse Lui e con l’atteggiamento con cui Lui lo farebbe.

Ringraziando il Padre = per la forza, la perseveranza, la pazienza, la capacità, la gioia di vivere e di superare le difficoltà.

Per mezzo di Lui (Cristo) = il mio Salvatore, Signore, Mediatore, Avvocato, Amico.

Ma cosa vogliamo di più dalla vita? Niente. A patto che ci ridimensioniamo costantemente con le parole del Signore: “Siamo servi inutili, abbiamo fatto solo quello che eravamo in obbligo di fare” (Luca 17:10).

“Servi (schiavi e schiave) inutili”, ai quali, speriamo!, il Signore potrà dire: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose, entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25:21).
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