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Torniamo a parlare di Naaman, il generale dell’esercito del re di Siria. Come mai era andato a finire in Israele, una nazione nemica, per farsi guarire dalla lebbra?
È una storia molto bella. Nella sua casa, a servizio di sua moglie, c’era una servetta ebrea, di cui non si sa neppure il nome. Ci era arrivata in seguito a una scorreria che i Siri avevano fatta in Israele. Col bottino avevano preso anche lei, che, evidentemente, era diventata una schiava.
Era capitata bene perché, a quel che sembra, in quella casa i servi erano trattati giustamente e amavano i padroni. Se ricordate, furono proprio i servi quelli che convinsero Naaman a tuffarsi nel Giordano. Lo chiamavano “padre” e evidentemente volevano il suo bene.
Possiamo immaginare il trambusto che ci deve essere stato, in un certo momento, nella casa di quel generale stimato, forte e prode, quando cominciò a serpeggiare la voce che era lebbroso.
Il tamtam dei servi portava le notizie. “No, non è possibile... è così forte... chi l’avrebbe mai detto... hai visto la moglie che occhi rossi? Deve avere pianto molto... adesso dovrà andare a vivere da solo... cosa succederà di noi... è tanto un brav’uomo... forse gli dei lo stanno punendo per qualcosa che non sappiamo...”
La ragazza ebrea ascoltava. Amava le persone con cui stava e, soprattutto, amava Dio. Perciò vedendo la padrona abbattuta e triste, le disse: “Se solo il mio signore potesse presentarsi al profeta che è in Samaria! Lo libererebbe dalla sua lebbra!” (2 Re 5:3).
La moglie di Naaman non se lo fece dire due volte. Ne parlò al marito, questi ne parlò al re dei Siri e ebbe inizio “il viaggio della speranza” per il generale. Di quel viaggio a lieto fine abbiamo parlato la settimana scorsa.
Le poche parole della ragazza diedero la stura a un fiume di benedizioni: la guarigione di Naaman, la conversione di lui alla fede nel vero Dio d’Israele, e chissà, forse la trasformazione di tutta la famiglia.
C’è molto da imparare da quella giovane serva. Lavorava bene per la sua padrona (se non fosse stato così, sarebbe stata prontamente sostituita) e, evidentemente, non covava rancore per chi l’aveva strappata alla sua famiglia. Avrebbe potuto dire: “Ben gli sta, la lebbra se la merita tutta. I suoi soldati hanno fatto del male a me e al mio paese e lui ora paga. Lo vedrà cosa vuol dire toccare il popolo di Dio!”.
Niente di tutto questo. La ragazza ha agito bene. Ha parlato di quello che sapeva. Ha mostrato l’amore di Dio in un ambiente pagano. Ha vinto il male col bene. Ha indicato dove il suo padrone poteva trovare un aiuto vero.
Ovunque andiamo siamo gli ambasciatori del Re dei re, del Dio sovrano che ci colloca esattamente dove dobbiamo essere al momento giusto. Non dobbiamo lamentarci delle difficoltà (e quella ragazza ne aveva avute e ne aveva!), ma vedere nelle difficoltà stesse un mezzo per glorificare il Signore.
Dobbiamo cogliere le occasioni per testimoniare quando se ne presenta la possibilità e accompagnare le nostre parole con una buona condotta e gentilezza.
Le parole dell’Apostolo Paolo ai credenti di Colosse devono essere sempre tenute presenti, mentre lavoriamo, sia che abbiamo dei datori di lavoro buoni sia che siano difficili. Sono parole che oggi non vanno di moda, ma sono importanti.
“Servi, ubbidite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne; non servendoli soltanto quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con semplicità di cuore, temendo il Signore. Qualuque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l’eredità. Servite Cristo il Signore!” (3:22-24).
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