Cosa vogliamo di più dalla vita?

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Spesso, quando serviamo il Signore, pensiamo di fargli un grande favore e ci sentiamo meritevoli di riconoscimento e di congratulazione da parte di Lui e dei nostri fratelli in fede. Se poi il riconoscimento e le congratulazioni non vengono, facciamo gli offesi. Come si permettono? Non vedono quanto fatico?

Brutta cosa, se si pensa a come considerava il suo servizio l’Apostolo Paolo, quando scriveva ai credenti di Roma: “Vi ho scritto.. a motivo della grazia che mi è stata fatta da Dio, di essere un ministro di Cristo Gesù tra i pagani...” (Romani 15:15,16).

Servire il Signore è una grazia, cioè un favore che non meritiamo e che il Signore ci fa nonostante tutta la nostra incapacità. Questo dovrebbe ridimensionare il nostro orgoglio e il nostro desiderio di essere riconosciuti e lodati. Non meriteremmo di servire il Re dei re, se non fosse per la sua pura benevolenza e la sua grazia.

Il lavoro è un onore, non è una galera. Oggi è considerato un diritto che tutti esigono. Ma, allo stesso tempo, è valutato come un peso, un male di cui non si può fare a meno. Per cui il proverbio “Voglia di lavorar saltami addosso e fammi lavorar meno che posso”, è sempre più messo in pratica.

Il lavoro è stato inventato da Dio, per il bene dell’uomo. È diventato faticoso a causa del peccato, ma è ancora un ordine, contenuto nei dieci comandamenti: “Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro, ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al Signore Iddio tuo...” (Esodo 20:9,19).

Se siamo credenti, il lavoro, qualsiasi lavoro, diventa un mezzo per servire e onorare Dio. Perciò deve essere fatto al meglio, come un servizio reso a Lui. Sia che si tratti del lavoro di un capitano dell’industria o quello di un benzinaio, di un professore o di uno studente, di un chirurgo o di un portantino. “Servi (schiavi) ubbidite ai vostri padroni ... come a Cristo” (Efesini 6:5). “Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando il Padre, per mezzo di lui” (Colossesi 3:17).

Quando mi sono sposata, ho dovuto rivedere molte cose.

Pensavo che servire il Signore, volesse dire fare bene una lezione della scuola domenicale, preparare con cura uno studio biblico, fare visita a chi era malato, scrivere libri e articoli immortali che avrebbero salvato l’umanità (si fa per dire....).

Mi sono trovata, invece, che non avevo più il tempo di prima per dedicami solo a cose altamente spirituali. Dovevo lavare e stirare le camicie di mio marito, cucinare, ospitare, pulire la casa e, quando sono arrivati i bambini, occuparmi di loro, lavare (a mano!) i loro pannolini, imboccarli, coccolarli, fargli fare il ruttino, ecc.

Grazie a Dio, piano piano, ho capito che preparare un pasto con cura era tanto importante quanto tradurre un capitolo di un libro di teologia, e che tutto dovevo farlo “nel nome del Signore Gesù”.

Qualunque cosa = lavare, stirare, telefonare, insegnare, spolverare, attaccare bottoni.

In parole o in opere = telefonare, scrivere, testimoniare, portare la spazzatura al cassone.

Fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù = come suoi rappresentanti, come se il lavoro lo facesse Lui e con l’atteggiamento con cui Lui lo farebbe.

Ringraziando il Padre = per la forza, la perseveranza, la pazienza, la capacità, la gioia di vivere e di superare le difficoltà.

Per mezzo di Lui (Cristo) = il mio Salvatore, Signore, Mediatore, Avvocato, Amico.

Ma cosa vogliamo di più dalla vita? Niente. A patto che ci ridimensioniamo costantemente con le parole del Signore: “Siamo servi inutili, abbiamo fatto solo quello che eravamo in obbligo di fare” (Luca 17:10).

“Servi (schiavi e schiave) inutili”, ai quali, speriamo!, il Signore potrà dire: “Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose, entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25:21).
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Il servo insegna a servire

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Gesù non ha mai fatto miracoli inutili per farsi pubblicità ed è stato anche un perfetto insegnante. Ha insegnato la dottrina, la morale, la fedeltà e ha anche inculcato nei suoi discepoli la gioia e importanza del lavoro.

Proprio quando aveva proposto che andassero a riposare, lo abbiamo visto la volta scorsa, si trovarono di fronte una moltitudine di gente. Con compassione Gesù si mise a insegnare, perché vedeva che tutti erano confusi e sbandati come pecore senza pastore.

Verso sera, la gente aveva fame, e Gesù disse ai discepoli di sfamarla.

“Ma come si fa... non è possibile... siamo venuti per un po’ di vacanza...” avranno pensato i discepoli. E dissero al Signore: “Mandali a casa, che si comprino da mangiare”.

Sappiamo come è andata a finire. Un ragazzo aveva cinque pani e due pesci, li ha dati a Gesù. Gesù ha dato ai discepoli l’ordine di mettere la gente seduta in gruppi, ha pregato e ha moltiplicato pane e pesci in modo che ci fosse cibo in abbondanza per tutti.

A quel punto avrebbe potuto battere le mani, fare qualche gesto teatrale, dire abracadabra e far cadere cibo sufficiente davanti a tutti. Invece no.

Quello che poteva fare solo Lui – moltiplicare il cibo – lo ha fatto, ma ha lasciato fare ai discepoli quello che potevano fare loro. Distribuire cibo a tanta gente deve essere stato un lavoro immane, ma era alla portata dei discepoli.

Mi pare che qui sia qualcosa da imparare. L’opera di redenzione la poteva compiere solo Lui, che era Dio e senza peccato. Ma il compito di annunciare il messaggio della redenzione e della salvezza lo ha affidato a chi ha creduto in Lui. Anche se lo potrebbe scrivere a caratteri cubitali nei cieli ogni giorno, non lo fa. Vuole che lo dimostriamo noi con la nostra vita e che lo diciamo con la nostra bocca.

Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù ha dato ai discepoli una bella lezione di ecologia. Dopo che tutti avevano mangiato, ha ordinato che si raccogliesse quello che era avanzato (Giovanni 6:12). Così il cibo rimasto non è andato sprecato e il terreno è stato lasciato sgombro da rifiuti. Ricordiamolo quando andiamo in picnic.

Il Signore ringraziava e apprezzava chi lo serviva. C’erano delle donne che seguivano il Signore e provvedevano il denaro e l’aiuto necessario per Lui e i discepoli (Marco 15:40,41). Le ha lasciate fare e i loro nomi sono ricordati nei Vangeli.

Quando Maria ha sparso, in segno di amore, un olio prezioso sul suo capo, l’ha difesa dalle critiche ingiuste dei discepoli (Marco 14:3-9), dicendo: “Lasciatela fare... ha fatto quello che ha potuto”.

In un episodio, ricordato nei Vangeli, ha rimproverato gentilmente una donna, Marta, che si affannava e affaticava per servirlo, quando sarebbe stato più opportuno ascoltare quello che Lui diceva (Luca 10:41,42). Non ha criticato il servizio, ma il momento in cui era fatto. Se ricordo bene, è la sola volta in cui l’ha fatto. Occhio alle priorità, dunque!
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Venuto per essere schiavo

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Non sarebbe giusto finire questa nostra breve carrellata di servitori, più o meno buoni, senza parlare del servo per eccellenza, del servo perfetto: il Signore Gesù Cristo.

Nell’Antico Testamento è chiamato “il servo dell’Eterno”. Isaia, 52:43-45, dice di Lui: “Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, sono rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante al punto di non sembrare più un uomo e il suo aspetto al punto di non sembrare più un figlio d’uomo) così molte saranno le nazioni di cui egli desterà l’ammirazione. I re chiuderanno la bocca dinanzi a Lui, poiché vedranno quello che non era mai stato loro narrato, apprenderanno quello che non avevano udito”. Che compendio in poche righe! C’è tutto: la venuta del Messia, l’incarnazione, la sua vittoria, la sua sofferenza e il suo martirio, il suo trionfo finale.

Isaia 53:11,12 afferma: “Dopo il tormento dell’anima sua vedrà la luce, e sarà soddisfatto; Per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, si caricherà Egli stesso delle loro inquità. Perciò gli darà in premio le moltitudini...”

Di nuovo il Messia sofferente e vittorioso è descritto come “servo”, servo dell’Eterno.

Quando è venuto sulla terra, più di 2000 anni fa, si è presentato come Colui che era venuto per fare la volontà del Padre celeste, e ha detto: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:45). E alla vigilia del suo sacrificio sulla croce ha detto ai discepoli: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22:27).

Nelle nostre Bibbia il termine greco, doulos, è tradotto con “servo”, ma con più precisione dovrebbe esser reso con “schiavo”. Gli antichi non avevano servi: avevano schiavi senza volontà propria e alla totale mercé del loro signore. Erano proprietà assoluta di colui che li aveva comprati.

In questo senso, il passo nella lettera ai Filippesi, cap. 2, prende un significato ancora più forte. “Cristo Gesù... pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di schiavo, divenendo simile agli uomini” (vv. 6,7).

Schiavo di suo Padre, pronto a ubbidire fino alla morte più terribile sulla croce.

Come serviva il Signore?

Era consacrato dallo Spirito santo, pieno di potenza e andava “dappertutto, facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (Atti 10:38). Quanta gente ha guarito, quanti lebbrosi ha toccato, quante lagrime ha asciugato!

Serviva con compassione (Luca 6:34). Una volta aveva preso una barca coi suoi discepoli, per andare in un luogo tranquillo e riposare un po’. Arrivati a destinazione, si trovò davanti una moltitudine. Ne ebbe compassione, la istruì e poi la sfamò moltiplicando cinque pani e due pesci dati da un ragazzo.

Ho visto un guaritore evangelico in America che, sotto una grande tenda da circo, assicurava guarigione a chi si fosse fatto avanti. Non ho visto compassione nei suoi occhi: solo arroganza e presa in giro. Per non parlare di alcuni suoi collaboratori, seduti nella fila dietro a me e mio marito, che ridevano di chi andava a farsi guarire. Avrei voluto mettermi a gridare!

Gesù serviva anche quando avrebbe voluto essere in incognito. Lo fece, per esempio, quando una povera donna pagana gli chiese con umile insistenza la guarigione della sua bambina indemoniata (7:24).

Serviva anche quando non toccava a Lui. Lo ha fatto, quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli e perfino a Giuda che lo tradiva (Giovanni 13:1-5). Lo ha fatto perché li amava e ha dato un esempio a tutti noi. Se mai ha preso il posto di uno schiavo, è stato proprio in quel momento!

E poi, cosa che mi commuove ogni volta che la leggo e che ci penso, faceva pure degli extra! Era già risuscitato, aveva compiuto l’opera di salvezza, sarebbe presto tornato da suo Padre. Eppure non prese le ferie. Aspettando i suoi discepoli sulle rive del Mare di Galilea, preparò loro una colazione facendo arrostire del pesce sulla brace. Sapeva che erano stanchi, fradici e che aveano bisogno di conforto. Perciò il Signore della gloria, si mise a pulire il pesce, a accendere il fuoco, a spezzare del pane, per preparare loro una sorpresa! (Giovanni 21:9-13).

E noi che ci irritiamo se qualcuno ci viene a trovare senza averci avvisati e dobbiamo dargli da mangiare e da dormire! Che il Signore ci aiuti a imparare a servire come serviva Lui. Ne parliamo la prossima volta.
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Giovane e fedele fino alla fine

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Quando ero bambina, mio padre era un ufficiale nell’esercito e aveva alle sue dipendenze un “attendente”, cioè un soldato che lo assisteva in varie capacità. Una era lucidargli gli stivali neri guarniti da speroni. Onestamente non ho la minima idea se gli attendenti ci siano ancora, o se una tale mansione sia considerata ora troppo umile e degradante. Fatto sta che io guardavo affascinata quel bel giovanottone in divisa, mentre stendeva il lucido, lo lasciava seccare e poi lucidava il tutto energicamente con la spazzola e un panno di lana. Roba da specchiarcisi.

Io immagino che Timoteo sia stato un po’, per certi versi, l’attendente di Paolo. Gli avrà portato i bagagli, lavato le tuniche, fatto le spese, rifatto il letto e comprato i biglietti per i vari viaggi sulle navi. In più avrà seguito l’apostolo nei suoi spostamenti, gli avrà lavato i piedi stanchi. Lo avrà sorretto nel cammino aiutandolo a evitare pietre e buche, dato che non ci vedeva molto bene. Forse gli ha anche curato le vesciche e le piaghe dolorose, provocate dalle frustate che riceveva da Ebrei e pagani. Però forse a quelle ci pensava Luca.

Paolo dice di Timoteo: “Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timoteo per essere io pure incoraggiato nel ricevere vostre notizie. Infatti non ho nessuno di animo pari al suo, che abbia sinceramente a cuore quello che vi concerne. Poiché tutti cercano i loro propri interessi e non quelli di Cristo Gesù. Voi sapete ch’egli ha dato buona prova di sé, perché ha servito con me alla causa del Vangelo, come un figlio con il proprio padre” (Filippesi 3:19-22). Inoltre ha ascoltato con attenzione intensa tutti gli insegnamenti di Paolo, assorbendoli e facendoli propri. Gli sarebbero serviti in futuro.

Timoteo aveva un padre pagano. Ma era stato istruito fin da piccolo nella legge di Dio da sua mamma e sua nonna. Molto probabilmente, si era convertito a Listra, dove era nato, quando Paolo vi aveva fatto sosta durante il suo primo viaggio missionario. Aveva certamente visto le angherie che Paolo aveva subite da parte degli Ebrei e la lapidazione a cui era stato sottoposto. E da cui si era miracolosamente ripreso.

Quando Paolo tornò a Listra, durante il suo secondo viaggio missionario, trovò Timoteo che era già considerato, dagli altri credenti, un discepolo di Cristo, di cui tutti dicevano un gran bene. Si unì all’apostolo e ai suoi collaboratori e iniziò la sua carriera missionaria. Salutò la mamma e partì. Possiamo immaginare le raccomandazioni: “Copriti... mangia.. non fare imprudenze... prendi la tisana che ti fa bene... non prendere freddo...”.

Doveva essere piuttosto fragile di salute, ma non si è scoraggiato né sottratto alle difficoltà. Ha avuto incarichi importanti nella chiesa nascente e solo da qualche accenno di Paolo nelle sue lettere si ha l’impressione che abbia avuto qualche momento di scoraggiamento e di stanchezza spirituale. E chi non ne avrebbe avuti?

Ogni volta che ha potuto e ne ha avuta l’occasione ha accompagnato Paolo nel suo ministero e ha imparato a servire. Ha curato varie chiese e, timido com’era, ha dovuto fronteggiare gli attacchi di falsi insegnanti, che volevano minare l’unità delle chiese nascenti. È anche andato in prigione.

Nessuno di noi può immaginare i disagi e le difficoltà che i servitori di Dio incontravano a quei tempi. Ed è bello immaginare Paolo e Timoteo, mentre faticavano, si stancavano, si incoraggiavano, si esortavano e si spronavano a vicenda. Mentre uno insegnava e l’altro imparava e la sera con i credenti che incontravano e quelli che si erano convertiti di recente, lodavano il Signore, spiegavano le Scritture e correggevano errori e risolvevano problemi e insicurezze.

E poi stendevano una coperta e si mettevano a riposare esausti, dicendo “ebenezer”, fino qui il Signore ci ha soccorsi.
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Samuele, il servo bambino

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La sua storia è una delle più belle e commoventi dell’Antico Testamento.

Durante una visita al tempio a Silo, Anna, sua mamma, lo aveva chiesto piangendo disperatamente in preghiera al Signore e aveva promesso che, se fosse stata esaudita, glielo avrebbe consacrato perché lo servisse per tutta la vita.

Anna era sterile e la sterilità, a quel tempo, non era solo un motivo di dolore, come lo è per qualsiasi donna, ma era considerata anche una specie di maledizione divina. Il Signore la esaudì e le diede un piccolo Samuele, che lei allevò con grande cura e amore.

Quando fu grandicello, ella mantenne la sua promessa. Insieme col marito, lo portò a quello che allora era considerato il tempio, e lo lasciò alle cure del sacerdote Eli.

Nel farlo, Anna diede una bella testimonianza al sacerdote. È riportata nel primo libro di Samuele, nell’Antico Testamento. Eccola: “Mio signore, io sono quella donna che stava qui vicino a te, a pregare il Signore. Pregai per avere questo bambino, il Signore mi ha concesso quello che gli avevo domandato. Perciò anch’io lo dono al Signore; finché viva sarà donato al Signore” (1:26-28). Poi si prostrò davanti all’Eterno e intonò un magnifico canto di lode.

Il bambino rimase col sacerdote e i genitori tornarono a casa. È sempre difficile separarsi da un figlio. Se poi è piccolo è più difficile ancora. Lasciarlo nelle mani di Eli deve essere stato difficilissimo. Fu un incredibile atto di fede.

Infatti, Eli era un brav’uomo, ma era debole di carattere, ma il problema vero stava nei suoi figli, che erano sacerdoti e servivano con lui nel tempio, e che erano dei perfetti delinquenti. La Bibbia li descrive come degli “scellerati”, che non conoscevano il Signore.

Ecco come agivano: “Quando qualcuno offriva un sacrificio, il servo del sacerdote veniva nel momento in cui si cuoceva la carne; teneva in mano una forchetta a tre punte, la piantava nella caldaia o nel paiuolo o nella pentola o nella marmitta e quello che la forchetta tirava su, il sacerdote lo prendeva per sé. Così facevano a tutti gli Israeliti che andavano là”. Se qualcuno protestava, il sacerdote rispondeva che lo avrebbe preso per forza. “Il peccato di quei giovani era dunque grandissimo agli occhi del Signore, perché disprezzavano le offerte fatte al Signore” (1 Samuele 2:12-17).

La fede dei genitori di Samuele fu onorata. Nonostante l’ambiente “Samuele faceva il servizio davanti al Signore; era ancora un bambino e indossava un efod di lino” (v.18). È chiaro che aveva imparato dal padre e dalla madre il timore di Dio, la fedeltà e l’ubbidienza.

Non l’avrebbe mai imparata da Eli, che non aveva saputo inculcarla ai figli e che non si imponeva per fermare la loro condotta malvagia e immorale. Si limitava a dire loro: “Perché fate queste cose? Perché odo tutto il popolo parlare delle vostre azioni malavagie. Non fate così, figli miei, perché quello che odo di voi non è buono; voi traviate il popolo di Dio” (vv. 22-25). Parole giuste, che il vento però portava via.

Ogni anno Anna saliva al tempio e portava una nuova tunica al figlio, che “continuava a crescere e era gradito sia al Signore che agli uomini” (v.26), servendo Eli.

La Bibbia non dice quanti anni avesse quando Dio lo chiamò per nome al suo servizio, ma probabilmente era un adolescente. Una chiamata alla quale Samuele fu fedelissimo.

“Tutto Israele... riconobbe che Samuele era stabilito come profeta del Signore. Il Signore continuò ad apparire a Silo, poiché a Silo il Signore si rivelava a Samuele, mediante la sua parola. Samuele non lasciò andare a vuoto nessuna delle sue parole” (3:1-21). Egli fu l’ultimo dei giudici di Israele e vide, con dispiacere, instaurarsi la monarchia.

C’è molto da imparare da lui. Ebbe la forza, da ragazzo, di non seguire i cattivi esempi che lo circondavano e di non usare la cattiva condotta dei compagni come un alibi per giustificare o scusare le proprie marachelle.

Continuò a servire fedelmente il vecchio Eli, ormai cieco e allettato, compito piuttosto ingrato per un giovane, fino a che non morì, dopo aver udito la notizia che i suoi figli erano morti in battaglia e che l’arca del Signore era caduta nelle mani dei Filistei .

Quando udì la voce di Dio che lo chiamava, fu ubbidiente e non si tirò indietro.

C’è molto da imparare anche dai suoi genitori. Fecero sul serio con Dio. Gli consacrarono il loro bambino e mantennero la promessa fatta nonostante tutte le circostanze poco favorevoli. Lo affidarono alla sua cura e alla sua protezione, allevandolo, mentre lo avevano a casa sia pure per pochi anni, “nella disciplina e nell’istruzione del Signore” come ha insegnato a fare l’apostolo Paolo. Non è mai troppo presto per inculcare nei nostri bambini il timore di Dio, l’ubbidienza alle sue leggi e la gioia di servirlo, senza accontentarsi di averlo “presentato al Signore” in chiesa e di averlo mandato regolarmente alla scuola domenicale o ai campi per ragazzi, che sono altri alibi dietro ai quali è facile nascondersi.
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Fedele e leale: un segretario modello

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Alti e bassi, nel regno di Giuda, che stava attraversando un periodo di terribile apostasia e infedeltà. Dopo il buon regno del re Ezechia, era salito al trono suo figlio Manasse che cominciò a regnare quando aveva 12 anni e trascinò il popolo nell’infedeltà totale. Riedificò gli altari degli idoli pagani, che suo padre aveva distrutti, offrì sacrifici a divinità crudeli e si diede anche all’astrologia e alla magia. Arrivò a offrire dei suoi figli in olocausto a divinità abominevoli.

Poi divenne re Amon, che fu malvagio quanto Manasse. Gli successe Giosia che fu un buon re, fedele a Dio, che riportò il popolo all’adorazione del vero Dio. Suo figlio Ioacaz, però, fu infedele e regnò solo per tre mesi. Gli successe Joiakim, infedele pure lui.

Alti e bassi che il profeta Geremia osservò dal punto di vista di Dio. Durante tutto il tempo in cui regnarono questi re, egli esortò il popolo a tornare a Dio, a non dimenicare le sue promesse e a tornare all’ubbidienza a Lui. Tutto inutile. Il giudizio piombò su Giuda quando il re Nabucodonosor conquistò Gerusalemme e portò gli Ebrei in Babilonia, dove rimasero per ben 70 anni.

Geremia, durante il regno di Joakim ebbe come segretario Baruc, un uomo fedele che lo seguì con coraggio e lealtà. Apparteneva a un’ottima famiglia e suo fratello, Seraia, stava alla corte del re, in qualità di economo.

Era pericoloso essere dei profeti in quel tempo ed era pericoloso anche essere loro amici. Il messaggio che annunciavano andava contro l’andazzo generale, non era gradito e avvertiva del giudizio imminente di Dio.

Durante il quarto anno del regno di Joiakim, Dio diede a Geremia questo ordine. “Prenditi un rotolo da scrivere e scrivi tutte le parole che ti ho dette contro Isaraele, contro Giuda e contro tutte le nazioni, dal giorno che cominciai a parlarti, cioè dal tempo di Giosia fino a oggi. Forse quelli della casa di Giuda, udendo tutto il male che io penso di fare loro, si convertiranno ciascuno dalla sua via malvagia e io perdonerò la loro iniquità e il loro peccato” (Geremia 36:2,3).

Allora Geremia chiamò Baruc e gli dettò tutte le parole che il Signore gli aveva dette. Poi gli disse di andarle a leggere nel tempio, durante il giorno del digiuno. “Forse, ascoltandole” disse, “si pentiranno e si convertiranno” (v.7). Ci volle del tempo per scrivere tutto. Finalmente, quando lo scritto fu completato, “Baruc fece tutto quello che gli aveva ordinato il profeta Geremia e lesse dal libro le parole del Signore” (v.8).

Un tale, di nome Micaia, udì quella lettura e andò a riferirle ai dignitari del re, riuniti in consiglio. Questi chiamarono Baruc e vollero udire con le loro orecchie quello che c’era nel libro. Poi gli chiesero: “Adesso dicci come hai scritto queste parole che hai lette”.

La risposta era semplice: “Geremia me le ha dettate e io le ho scritte, parola per parola”.

Quei dignitari gli diedero subito un consiglio: “Tu e Geremia andate a nasconderervi”.

Poi andarono dal re, gli riferirono le parole scritte nel libro. Il re Joiakim ordinò di portargli il rotolo. Se ne fece leggere una parte, prese un temperino e tagliò le prime tre colonne dello scritto e le gettò in un bracere, poi bruciò tutto il rotolo.

“Non lo fare, non lo bruciare” dissero alcuni. Ma il re non diede ascolto e ordinò di arrestare Geremia e Baruc. Ma quelli erano nascosti.

Allora Geremia disse a Baruc: “Prendi un altro rotolo e scrivi tutte le parole di prima”. In più aggiunse delle parole di condanna per Joiakim: “Così parla il Signore: «Tu hai bruciato quel rotolo... perciò così parla il Signore riguardo a Joiakim, re di Giuda. Egli non avrà nessuno che sieda sul trono di Davide, e il suo cadavere sarà gettatato fuori esposto al caldo del giorno e al gelo della notte. Io punirò lui e la sua discendenza»...” (vv.28-31).

“Geremia prese un altro rotolo e lo diede a Baruc, il segretario, il quale vi scrisse a dettatura di Geremia, tutte le parole che Joiakim aveva bruciato nel fuoco e vi furono aggiunte molte altre parole simili a quelle” (v.32). Un bel coraggio!

Gli avvenimenti, poi, precipitarono, Gerusalemme fu conquistata e il popolo fu deportato, ad eccezione di alcuni che rimasero nel paese devastato. Geremia e Baruc rimasero con loro e Geremia li esortò a non cercare di andare altrove. Il Signore glielo aveva chiaramente rivelato, ma quelli non lo ascoltarono. Anzi, trascinarono Geremia e Baruc in Egitto. Non si sa come si concluse la vita di Geremia, che indomabile, appena arrivato in Egitto profetizzò che quella nazione sarebbe stata vinta, soggiogata e distrutta da Nabucodonosor (43:8-13).

A Baruc Dio fece una bella promessa: “Tu cercherai grandi cose per te? Non le cercare! Perché ecco io farò venire del male su ogni carne. Ma a te darò la vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai” (45:5).

Baruc è stato un bell’esempio di coraggio e di fedeltà a Dio e di lealtà verso Geremia. Davanti a mille pericoli, calunnie e dolori rimase fermo. Fece esattamente quello che Dio gli ordinava e anche quello che Geremia gli diceva di fare. Proprio come deve fare un buon segretario.
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Ha dato la stura a un fiume di benedizioni

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Torniamo a parlare di Naaman, il generale dell’esercito del re di Siria. Come mai era andato a finire in Israele, una nazione nemica, per farsi guarire dalla lebbra?

È una storia molto bella. Nella sua casa, a servizio di sua moglie, c’era una servetta ebrea, di cui non si sa neppure il nome. Ci era arrivata in seguito a una scorreria che i Siri avevano fatta in Israele. Col bottino avevano preso anche lei, che, evidentemente, era diventata una schiava.

Era capitata bene perché, a quel che sembra, in quella casa i servi erano trattati giustamente e amavano i padroni. Se ricordate, furono proprio i servi quelli che convinsero Naaman a tuffarsi nel Giordano. Lo chiamavano “padre” e evidentemente volevano il suo bene.

Possiamo immaginare il trambusto che ci deve essere stato, in un certo momento, nella casa di quel generale stimato, forte e prode, quando cominciò a serpeggiare la voce che era lebbroso.

Il tamtam dei servi portava le notizie. “No, non è possibile... è così forte... chi l’avrebbe mai detto... hai visto la moglie che occhi rossi? Deve avere pianto molto... adesso dovrà andare a vivere da solo... cosa succederà di noi... è tanto un brav’uomo... forse gli dei lo stanno punendo per qualcosa che non sappiamo...”

La ragazza ebrea ascoltava. Amava le persone con cui stava e, soprattutto, amava Dio. Perciò vedendo la padrona abbattuta e triste, le disse: “Se solo il mio signore potesse presentarsi al profeta che è in Samaria! Lo libererebbe dalla sua lebbra!” (2 Re 5:3).

La moglie di Naaman non se lo fece dire due volte. Ne parlò al marito, questi ne parlò al re dei Siri e ebbe inizio “il viaggio della speranza” per il generale. Di quel viaggio a lieto fine abbiamo parlato la settimana scorsa.

Le poche parole della ragazza diedero la stura a un fiume di benedizioni: la guarigione di Naaman, la conversione di lui alla fede nel vero Dio d’Israele, e chissà, forse la trasformazione di tutta la famiglia.

C’è molto da imparare da quella giovane serva. Lavorava bene per la sua padrona (se non fosse stato così, sarebbe stata prontamente sostituita) e, evidentemente, non covava rancore per chi l’aveva strappata alla sua famiglia. Avrebbe potuto dire: “Ben gli sta, la lebbra se la merita tutta. I suoi soldati hanno fatto del male a me e al mio paese e lui ora paga. Lo vedrà cosa vuol dire toccare il popolo di Dio!”.

Niente di tutto questo. La ragazza ha agito bene. Ha parlato di quello che sapeva. Ha mostrato l’amore di Dio in un ambiente pagano. Ha vinto il male col bene. Ha indicato dove il suo padrone poteva trovare un aiuto vero.

Ovunque andiamo siamo gli ambasciatori del Re dei re, del Dio sovrano che ci colloca esattamente dove dobbiamo essere al momento giusto. Non dobbiamo lamentarci delle difficoltà (e quella ragazza ne aveva avute e ne aveva!), ma vedere nelle difficoltà stesse un mezzo per glorificare il Signore.

Dobbiamo cogliere le occasioni per testimoniare quando se ne presenta la possibilità e accompagnare le nostre parole con una buona condotta e gentilezza.

Le parole dell’Apostolo Paolo ai credenti di Colosse devono essere sempre tenute presenti, mentre lavoriamo, sia che abbiamo dei datori di lavoro buoni sia che siano difficili. Sono parole che oggi non vanno di moda, ma sono importanti.

“Servi, ubbidite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne; non servendoli soltanto quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con semplicità di cuore, temendo il Signore. Qualuque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l’eredità. Servite Cristo il Signore!” (3:22-24).
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Intraprendente... e bugiardo

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Un giorno, alla casa di Eliseo si presenta Naaman, un generale capo dell’esercito della Siria, con servi, cavalli e accompagnatori in pompa magna.

Era andato prima dal re d’Israele, con molti doni e delle lettere di presentazione da parte del re di Siria, e la richiesta precisa che il re lo guarisse dalla lebbra.

“Questo non è altro che un trabocchetto, una scusa per venire a farmi guerra!” pensò il re d’Israele. In preda a un gran turbamento, si stracciò le vesti in segno di umiliazione e disperazione. Mica aveva le virtù di un guaritore! Certe cose le sapeva fare solo Dio!

Eliseo lo seppe e gli mandò a dire: “Mandamelo qui, e si saprà che c’è un profeta in Israele!”

Così Naaman era andato alla casa di Eliseo, che non deve essere stato un palazzo degno di un dignitario simile. Ma, pur di guarire, si fa qualsiasi cosa e ci si adatta a tutto...

Gli viene incontro un servo, con un messaggio: “Va’, lavati sette volte nel Giordano e sarai guarito”. Eliseo non fa neppure lo sforzo di incontrarlo, vederlo, ossequiarlo. Che affronto!

Naaman probabilmente era già disgustato dal fatto che il re d’Israele non aveva fatto quello che le lettere del re di Siria gli avevano chiesto. In più lo manda da chissà chi, poi quel “chissà chi” gli dice di andarsi a tuffare sette volte in un fiumiciattolo.

Quel che è troppo è troppo, per una persona come lui, abituata a stregoni professionali che ci sapevan fare. Con gesti e invocazioni e danze e pantomime facevano bene il loro mestiere. Questo qui, almeno, avebbe dovuto fare qualcosa di simile, invocare il suo Dio, toccargli la mano malata. E poi, tuffarsi nel Giordano... c’era da ridere!

Il generale è la fotocopia perfetta delle persone a cui parliamo della salvezza per grazia e del dono della vita eterna offerto dal Signore Gesù.

“Ma volete scherzare?!” dicono. “Una salvezza gratuita è troppo facile! Dobbiamo meritarcela, fare la nostra parte. Dio dice: «Aiutati, che Dio ti aiuta!»” (non lo dice da nessuna parte, ma la gente crede che l’abbia detto e che sia nella Bibbia). E come Naaman obbiettano, discutono e spesso se ne vanno più perduti di prima.

“Torniamo a casa!” urla indignato il generale.

“Ma, padre, signore” gli dicono i servi, “se l’uomo di Dio ti avesse chiesto qualcosa di difficile e complicato, non lo avresti fatto? Ti ha detto di tuffarti... tentar non nuoce...”.

Naaman si calma, scende nelle acque del Giordano e si tuffa. Una, due, tre volte. Non succede niente. Tutti hanno il fiato sospeso. Quattro, cinque, sei... sette! La mano macchiata di lebbra è perfetta. Nessun segno della malattia! Naaman era puro! Aveva creduto alla parola dell’uomo di Dio ed era stato liberato dalla lebbra!

Così torna da Eliseo, che, questa volta, lo incontra e gli parla. Naaman è fuori di sé dalla gioia e gli dice: “Mi rendo conto che non c’è nessun Dio se non in Israele! Non adorerò più nessun altro dio! Ti prego accetta questo mio regalo!”.

“Non voglio nulla!”

“Ma per favore...”

“Ho detto che non voglio nulla di nulla!”

Naaman acconsente, chiede solo di poter portare via con sé un carico di terra di Israele. È un uomo trasformato. Eliseo lo congeda in pace e lui riprende il viaggio verso il suo paese.

Ghehazi, invece, non è affatto contento. E ragiona: “Eliseo è stato troppo buono e generoso. Ora ci penso io!” e si mette a rincorrere Naaman e il suo seguito. Appena lo scorge, Naaman scende dal suo carro (un bel gesto di umiltà da parte di un personaggio simile!) e gli chiede: “Va tutto bene?”.

“Tutto bene, solamente c’è una novità... sono arrivati due giovani discepoli dei profeti. Vengono dalla montagna. Per favore dagli un talento d’argento e due cambi di vestiti...”

“E come no! Prendine due di talenti d’argento e due cambi di vestito!” risponde il generale e ordina a due servi di portare il carico per Ghehazi.

Arrivati alla collina, Ghehazi li ringrazia, prende il carico e si presenta, come se niente fosse, a Eliseo.

“Dove sei stato?” gli chiede il profeta.

“Da nessuna parte” dice Ghehazi col tono più innocente possibile.

“Il mio spirito ti ha visto quando Naaman è sceso dal carro per venirti incontro... È questo il momento di prendere dei regali? La lebbra di Naaman si attaccherà a te e sarai lebbroso con tutta la tua famiglia per sempre”.

Era stato, nell’insieme, un bravo servo. Ma la cupidigia ha fatto di lui un bugiardo e lo ha reso lebbroso. “L’amore del denaro è radice di ogni sorta di male. E alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si son trafitti di molti dolori” ha scritto l’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo (6:10). Un pericolo anche per te e me. Facciamoci attenzione.
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Fedele, ma un po’ troppo intraprendente

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Era il servo di Eliseo e ho l’impressione che facesse un po’ da segretario al profeta. Certo era un tipo intraprendente. Si chiamava Ghehazi.

È nominato la prima volta quando accompagna Eliseo a Sunen e sono ospitati da una donna molto gentile. Essa aveva notato già da qualche tempo Eliseo e aveva capito che era un servo di Dio. Perciò aveva proposto al marito di allestire una stanza in cui si sarebbe potuto ritirare durante i suoi spostamenti.

Eliseo le chiede se avesse qualche desiderio speciale e lei risponde che era contenta di come stava. Viveva fra la sua gente e aveva tutto quello di cui poteva avere bisogno.

Eliseo non è soddisfatto di quella risposta, perciò chiede a Ghehazi: “Cosa potremmo fare per lei?”.

Gheazi si stringe un po’ nelle spalle e fa un po’ di matematica: finanziariamente, la donna stava bene, di salute anche, e poi commenta a Eliseo: “Non ha figli... ogni donna desidera avere un bambino... suo marito è vecchio... forse...”.

Il profeta pensa che l’idea sia buona e dice a Ghehazi di andare a chiamare la donna e le annuncia: “In questo stesso tempo, l’anno prossimo, abbraccerai un figlio”.

La donna risponde piuttosto incredula: “Non mi ingannare!”

Però, l’anno dopo, stringeva davvero fra le braccia un bel bambino!

Passa del tempo, il ragazzo è cresciuto e, un giorno durante la mietitura, si prende un bel colpo di sole e muore. La mamma si precipita dal profeta, gli abbraccia i piedi.

Ghehazi la vuole trattenere da tante effusioni. Agisce un po’ con l’insofferenza dei discepoli che volevano allontanare le mamme che portavano i loro bambini da Gesù. I servi dei servi di Dio, a volte, sono leggermente insensibili! Ma Eliseo capisce che la donna era disperata.

Sente la notizia della morte del ragazzo e ordina immediatamente a Ghehazi di andare a appoggiare il suo bastone sul corpo senza vita del ragazzo. Ghehazi ubbidisce, ma non succede nulla. Il corpo non reagisce. (Se devo dare la mia modesta opinione, mi pare che Eliseo pretendesse un po’ troppo da un pezzo di legno. Avrà forse pensato che anche Mosè aveva usato il suo bastone per compiere dei miracoli? Oppure il Signore gli voleva insegnare che Lui non approva gli intermediari? Chi lo sa? Ripeto che sto solo immaginando...).

In ogni modo, la donna dice a Eliseo che non se ne sarebbe andata e gli fa capire che aveva grande bisogno di aiuto. Eliseo decide di accompagnarla. Arriva vicino al corpo del ragazzo, lo risuscita con una sequenza drammatica di azioni, che ricordano i tentativi di rianimazione da parte di infermieri e paramedici odierni (2 Re 4:33-35), e lo restituisce alla madre.

Poi torna a casa con Ghehazi, un servo ubbidiente e savio cosigliere.

Ora sento il vostro commento: “Ma in che cosa era troppo intraprendente quel povero Ghehazi? Ha agito come una qualunque persona di buon senso...”

Fin qui, avete ragione: aspettate il prossimo episodio. Su questi stessi schermi! Ciao!
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