Quando Gesù arriva alle porte della cittadina di Nain, accompagnato dai discepoli e da molta gente, gli si presenta una scena straziante. Un gruppo di persone sta portando al cimitero la salma di un ragazzo. Sua mamma è vedova. Cammina sorretta da qualcuno è circondata da amici, ma “dentro” è orrendamente sola. Col figlio, il suo unico, porta anche a seppellire ogni sua speranza di sostegno morale e materiale, conforto, aiuto, ogni ragione di vivere.
Le vedove, a quel tempo, non avevano pensioni di riversibilità, aiuti, mutue. Rimanevano assolutamente senza appoggio e erano alla mercé di parenti e amici. La vedova di Nain, col figlio, aveva perduto tutto.
Il Vangelo di Luca non lo dice, ma possiamo immaginare che dal corteo si levavano grida di dolore e lamenti, come si usava fare a quel tempo e spesso vediamo fare anche oggi. La povera mamma singhozzava.
Gesù le si avvicina e le dice una parola strana: “Non piangere!”. Come poteva non piangere? La perdita di un figlio è sempre terribile. Se poi ad essa si unisce una situazione disperata, come non piangere?
Ma Gesù non era insensibile. Piuttosto provava per quella mamma una pietà immensa. Un sentimento che era fatto di comprensione, di sofferenza, di dolore, di pietà e di tenerezza davanti alla tragicità della morte. La morte è il risultato del peccato. Non era stata programmata da Dio alla creazione. Era stata causata dalla disubbidienza di Adamo e Eva e ogni essere vivente ne porta e ne subisce le conseguenze.
Profeticamente, dicendole di non piangere, Gesù voleva affermare a quella madre la realtà della vittoria che avrebbe riportata sul peccato, e che era lo scopo della sua venuta sulla terra. Voleva proclamare a tutti che la morte sarebbe stata inghiottita nella vittoria. E, forse, voleva anche farle capire che il suo dolore si sarebbe trasformato in gioia.
La madre non capisce. Non dice nulla. Gesù ferma il corteo, tocca la bara e poi si rivolge verso il corpo senza vita. “Ragazzo, dico a te, alzati!”
Il corpo si muove, il ragazzo si mette a sedere e parla! Meraviglia generale.
Gesù lo consegna alla mamma. Non fa discorsi, non si autoproclama come Messia e non si fa pubblicità. Una bella differenza dai guaritori moderni!
Poi, prosegue per la sua strada.
La folla è ammutolita dallo spavento, dal timore e dallo stupore. Una cosa così non era più successa da quando Elia e Eliseo avevano risuscitato altri due ragazzi, molti secoli prima. Qualcuno esclama: “Un grande profeta è sorto fra noi!”.
Ma Gesù era molto più grande di un profeta: era Dio!
Il racconto finisce qui. Possiamo immaginare la gioia della madre, il chiacchierare che si è fatto nel paese, i commenti della gente. Non sappiamo se la donna e il ragazzo siano diventati seguaci di Gesù. Speriamo di sì.
Quella che risalta è soprattutto la compassione di Gesù. Il fatto che il miracolo non gli sia stato richiesto, ma che Lui lo abbia compiuto per soccorrere una donna in grande sofferenza e senza speranza, dimostra il suo amore infinito. E ci dimostra il suo cuore pieno di tenerezza.
È Lui che ha preso l’iniziativa per aiutare la vedova. È Lui che ha anche preso l’iniziativa della nostra salvezza, che prende l‘iniziativa nel cercarci e attirarci a sé. Nella pratica, anche dopo che siamo diventati suoi figli, Dio vede le nostre necessità e interviene. La sua promessa è che non saremo mai provati al di là delle nostre forze e che nella prova e nelle difficoltà sarà con noi. Egli sa di che cosa abbiamo bisogno.
Tu, ci credi?
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