Io odio il fegato. Non mi piace né come sapore né come
consistenza. Però, quando lo dico a
qualcuno, la risposta spesso è: “Se tu lo assaggiassi come lo cucino io (o come
lo cucina mia mamma) ti piacerebbe e cambieresti idea”. Sarà, ma non ci credo. Punto.
Fegato o no, un po’ convinti di essere “er meglio”, come
dicono a Roma, almeno in qualcosa, lo siamo tutti.
Abbiamo tutti il nostro
piccolo e privato serpentello di autocompiacimento a cui teniamo e che non
consideriamo affatto pericoloso. Mentre, invece, lo è.
Forse, sarà per come teniamo la casa, per come svolgiamo il
lavoro in ufficio, per la scuola che abbiamo frequentato, o la chiesa a cui
apparteniamo o la regione o nazione da cui proveniamo o il modo in cui
educhiamo i nostri figli o curiamo il marito. Sarà quello che sarà, ma, bene o
male, tutti ci vantiamo e il serpentello del nostro autocompiacimento ci
accompagna tutto il tempo.
Naturalmente non siamo così sfrontati come quel cavaliere medioevale
che affermava: “Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata!”. Siamo molto meglio di lui e gestiamo il nostro
autocompiacimento con maggiore prudenza. Per esempio, facciamo precedere i
nostri autoelogi da frasi come “modestamente parlando” o “nella mia pochezza” (frase
caratteristica dei predicatori!) o “lo dico solo perché mi conosci e sai che è
vero”, o ancora “correggimi se sbaglio” (ma non lo fare!).
La realtà di fondo è che, purtroppo, siamo tutti orgogliosi,
superbi e abbiamo di noi stessi un’opinione ultrapositiva. Non ci credete? Basta pensare che arriviamo perfino
a autocompiacerci dei nostri difetti!
Fateci caso. Lo sentiamo e lo diciamo: “Perdo
la pazienza... sono gelosa... non lo sopporto...”. Però, la conclusione di
solito è: “Purtroppo sono fatto (o fatta) così! Prendetemi come sono!”.
L’Apostolo Paolo esortava i credenti di Roma dicendo: “Dico a ciascuno di voi che non abbia di sé
un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto
sobrio, secondo la misura di fede che
Dio ha assegnata a ciascuno... Avendo pertanto doni differenti, secondo la
grazia che ci è stata concessa, se abbiamo dono di profezia, profetizziamo...
se di ministero attendiamo al ministero... se di esortazione all’esortare...
chi dà, dia con semplicità, chi presiede lo faccia con diligenza, chi fa opere
di misericordia le faccia con gioia” (12:3-8).
Ci sono sempre mille cose che dobbiamo ancora capire e
imparare, perciò diamoci una calmata, prima di metterci in cattedra. C’è ancora tanta umiltà da imparare e esercitare,
tanta pazienza da usare. Tanto autocompiacimento da tenere sotto controllo e da
ridimensionare.
Il Signore Gesù sapeva tutto, conosceva tutto e capiva
tutto. Eppure ha detto: “Imparate da me,
che sono mansueto e umile di cuore”. Una persona mansueta è una persona
domata, capace di ubbidire, ascoltare, consigliare con amore. Col suo aiuto, imitiamolo.
E quando ci riusciamo, diamo a Lui la gloria e ripetiamo le
parole di Isaia: “Signore, tu ci darai
la pace; poiché ogni opera nostra sei tu che la compi per noi!” (26:12).
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