“Puoi immaginare una cosa simile? Avevo raccolto un po’ di
fiori di campo, li avevo messi in un bicchiere e mia cognata me li ha buttati
dalla finestra. Me la son legata al dito!”
Chi mi parlava era una donna vecchia, credente da anni.
Sapeva molto della Bibbia, ma quello “sgarbo” che una cognata le aveva fatto almeno
mezzo secolo prima, non le era mai andato giù. E, mentre me lo raccontava, i
suoi occhi erano cattivi, come se la cosa fosse successa dieci minuti prima.
Il serpente chiamato “rancore” è uno dei più terribili e
velenosi. Ti rode, ti morde, ti tormenta. Riaffiora con la sua testa malvagia e
- zacchete! – ti azzanna. Purtroppo si aggira nel giardino di ogni persona, credente
o miscredente che sia.
Qualcuno ci dice una parola poco gentile, o non ci chiede
scusa per una dimenticanza, o fa un commento cattivo su uno dei nostri figli,
su nostro marito o su nostra moglie o, addirittura, ci ferisce profondamente,
lui sbuca fuori dall’erba e si mette a strisciare. Non fa rumore, ma è lì.
Aspetta.
Noi, dal canto nostro, ne parliamo col Signore, se siamo
credenti. Gli diciamo che siamo addolorati,
tristi, offesi, che pensiamo di essere nel giusto. Piano piano, ci viene voglia di vendicarci, ma questo al Signore non lo diciamo!
Non ci vengono neppure in mente le parole dell’Apostolo
Paolo: “Non fate le vostre vendette,
miei cari... non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene” (Romani
12:19,21) e neppure ricordiamo l’ammonimento di Giacomo: “Ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo
seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il
peccato, quando è compiuto, produce la morte” (1:14,15). In un credente non
produce la morte spirituale, ma alza una barriera fra lui e Dio. E il serpente,
chiamato rancore, striscia un po’ di più e si avvicina. Questa volta, morde.
Non sto solo raccontando una favola: parlo di una realtà che
ho sperimentata. E sono sicura, che lo hai provato anche tu, almeno una volta.
Però conosco anche il rimedio che mette in fuga il serpente
chiamato rancore. È un rimedio semplice che si chiama “perdono”. E bisogna
usarlo al più presto!
Molti mi hanno detto, con tono magnanimo: “Se mi chiede
perdono, lo perdono!”.
“Sbagliato!” ho detto io.
“Perché sarebbe sbagliato? È solo giusto!” hanno risposto.
“No. Se aspetti che ti chiedano perdono per perdonare a tua
volta, il tuo è solo un perdono umano. È un ‘io ti dò, se tu mi dai’.
“Il perdono cristiano, che ha insegnato Gesù, è diverso. È perdonare
per primo, che te lo chiedano o no. Egli lo ha fatto sulla croce nei confronti
di quelli che lo stavano uccidendo e insultando. Lo ha fatto Stefano, il primo
martire, verso quelli che lo lapidavano e l’ha fatto l’Apostolo Paolo verso chi
gli aveva fatto del male.
“Il perdono fa bene a te, perché ti scioglie quel nodo allo
stomaco che ti fa male e che vuole vendetta, perché è un’ubbidienza a un ordine
preciso di Dio. È un sine qua non. O
ubbidisci o stai male”.
Nel momento preciso in cui dici: “Io perdono”, il serpente
si allontana. Non se ne va per sempre. Resta sempre in agguato, ma questa volta
se ne sta con la coda, se l’avesse!, fra le gambe.
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