IL BUCO NERO DEI SOLDI - Morire per vivere 7
Accendi la TV e il telegiornale parla di crisi, di soldi e di borse che salgono, cadono e affondano.
Parli con qualcuno e il discorso cade sui prezzi e la difficoltà di arrivare alla fine del mese (alla quale, bene o male, o di riffe o di raffe, tutti arriviamo).
Apri un giornale o una rivista e l’argomento è quello: i soldi e come moltiplicare quelli che si hanno.
Il denaro ci vuole per vivere. Nessuno lo nega e Dio ordina di lavorare per poter guadagnare e avere di che vivere e mantenere onestamente la propria famiglia. Il denaro, in sé, non è cattivo. E’ neutro.
Quello che la Bibbia condanna è l’amore per il denaro, che è, invece, un peccato che esiste, penso, da quando la prima moneta è stata coniata. Fa parte del cuore dell’uomo e lo porta a fare guerre, a imbrogliare, a rubare, a nascondere e, perfino, a uccidere.
Ricordo un bambino (non uno dei nostri figli!) che andava a letto la sera stringendo nel suo pugnetto le poche lire che possedeva e che, come se non bastasse, teneva a portata di mano, fra le coperte, un bastone, nel caso dei ladri fossero venuti a derubarlo. E so di persone che cambiavano ogni sera il posto in cui nascondevano il loro gruzzolo, per proteggerlo da possibili malintenzionati.
L’amore del denaro può spingere a ogni sorta di cattiveria. Giuda, per trenta denari, ha tradito il Signore e ancor oggi crimini e sfruttamenti sono (e sono stati) compiuti per ottenere denaro.
L’amore del denaro deve morire in noi, se vogliamo vivere una vita felice, serena e soddisfacente.
Ma come si fa? Lo dico sempre: secondo me, tutto parte da una profonda convinzione mentale, e cioè che l’amore per il denaro è un peccato. Il denaro può diventare un Dio, lo scopo della vita, la mèta a cui si tende a scapito di cose e di fini migliori. Se non ne siamo convinti, non c’è molta speranza di guarirne.
“Chi ama l’argento non è saziato con l’argento; e chi ama le ricchezze non ne trae profitto di sorta” diceva Salomone (Ecclesiaste 5:10). Un uomo di Dio, scrisse Paolo a Timoteo, “non deve essere attaccato al denaro” (1 Timoteo 3:3) e “quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni, di molti desideri insensati e funesti, che affonfano l’uomo nella rovina e nella perdizione. Infatti, l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori” (1 Timoteo 6:9,10).
Messo questo fondamento, come essere contenti di quello che si ha?
* Si impara a accontentarsi.
“Ho imparato a accontentarmi (a essere autosufficiente, nel testo greco) dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e a avere fame; a essere nell’abbondanza e anche nell’indigenza. Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” (Filippesi 4:12,13). Anche un proverbio popolare dice che “chi si contenta, gode”; si impara che si può essere felici anche avendo meno di molti altri.
* Si impara a vivere avendo fede e basandosi sulle promesse di Dio.
“Il nostro Dio provvederà splendidamente a ogni vostro (e nostro!) bisogno secondo le sue ricchezze” (Filippesi 4:19). “Vi dico: Non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo di che vi vestirete... poichè il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose...” (Matteo 6:25,32). Se Dio lo sa, perché agitarsi?
* Si impara a lodare Dio per quello che si ha.
“Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio, in preghiere e suppliche , accompagnate da ringraziamenti” (Filippesi 4:6).
* Si mettono in ordine le nostre priorità.
“Cercate piuttosto il regno di Dio e queste cose vi saranno date in più” (Luca 12:31).
“Portate tutte le decime alla casa del tesoro, perché ci sia cibo nella mia casa; poi mettetemi alla prova in questo” dice il Signore degli eserciti; “vedrete se non vi aprirò le cataratte del cielo e non riverserò su di voi tanta benedizione che non vi sarà più dove riporla” (Zaccaria 3:10).
Mi sembra chiaro: è importante far morire il nostro desiderio di ricchezza e fare quello che Dio dice. Da queste ultime parole si deduce che se fossimo più generosi e ubbidienti nel dare a Dio, Lui sarebbe più largo nel darci benedizioni in abbondanza.
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COSA DIRANNO DI ME? - Morire per vivere 6
Se c’è una cosa a cui noi italiani teniamo è la “bella figura”. Vogliamo essere apprezzati per come ci vestiamo, che macchina guidiamo, qual è l’ultimo cellulare che abbiamo comprato, in che zona della città viviamo, il nostro titolo di studi e quello dei nostri figli e parenti. Niente di male, finché non diventa una schiavitù.
Onestamente, almeno qualche volta, abbiamo tutti pensato: “SE” non indosso vestiti nuovi, se non porto scarpe alla moda (anche se mi produrranno degli atroci mali di schiena fra alcuni anni), se i miei figli non hanno lo zainetto firmato, se non ho un taglio di capelli alla moda... “ penseranno che sono una poveraccia”. Oppure: “SE” non cambio il catorcio che sto ancora guidando, non posso presentarmi ai miei clienti, se non ho l’ultimo iPad non mi sento a mio agio... tutti i miei amici se lo sono fatto!” . E avanti con i “se”!
Il desiderio di essere ammirati, lodati, e apprezzati per evitare critiche, malintesi o rogne è un rischio tremendo perché spesso porta a fare dei compromessi con la nostra coscienza e influisce sulla nostra condotta, sulla nostra testimonianza ed è un cattivissimo esempio.
Può portare a fare debiti per acquistare cose di cui non abbiamo bisogno, anche se la Bibbia dice chiaramente che non dobbiamo fare debiti. Può portare a dire qualche mezza verità, il che equivale a una bugia, mentre la Bibbia dice che dobbiamo essere sempre sinceri. Può indurci a chiudere un occhio su qualche disonestà, a partecipare a situazioni equivoche, a tacere quando dovremmo parlare. In un primo tempo, probabilmente, la nostra coscienza busserà alla porta del nostro cuore e ci farà stare un po’ male, ma potrà facilmente essere messa a tacere con un ovvio “non potevo farne a meno”. Nella nostra vita spirituale e morale, il pericolo di compromessi è sempre in agguato.
L’Apostolo Paolo ha scritto a Timoteo, nella sua prima lettera, di due credenti, Imeneo e Alessandro, che avevano “rinunziato” a una buona coscienza e “avevano fatto naufragio quanto alla fede” (1:10,20). Non sappiamo a che chiesa appartenessero e per quale motivo abbiano messo a tacere la loro coscienza, ma il risultato è stato catastrofico. E’ probabile che anche il desiderio di fare una “bella figura” abbia animato Anania e Saffira, e li abbia spinti a mentire, niente po’ po’ di meno che allo Spirito Santo (Atti 5:1-10). E con quale risultato!
Alcuni re dell’Antico Testamento, a cominciare da Salomone, fecero seri compromessi spirituali e causarono gravi danni al popolo di Dio. La Bibbia dice, per esempio, di Salomone che “amava il Signore e seguiva i precetti di Davide , suo padre; soltanto offriva sacrifici e profumi sugli alti luoghi” (che erano consacrati a deità pagane) ( 1 Re 3:3). Quel “soltanto” grida più di un sirena d’allarme. A forza di “soltanto”, Salomone finì nell’idolatria totale.
Giosafat fu un buon re, “soltanto” fece alleanza e si imparentò con un re malvagio e idolatra, Achab, permettendo che suo figlio ne sposasse la figlia, Atalia. Questa, in seguito, contribuì alla rovina del regno di Giuda. Quell’alleanza gli fece anche correre grossi rischi, da cui Dio lo salvò miracolosamente (la sua storia si trova in 1 Re cap. 22).
Per il re Asa, le cose andarono nello stesso modo. Fu un buon re, “soltanto” chiuse un occhio sull’idolatria del suo popolo, quando avrebbe dovuto e potuto reprimerla e fece alleanze sbagliate (2 Cronache 14-16).
Il pericolo del compromesso è sempre presente.
Non è proprio giusto, ma è comodo... non è veramente biblico, ma non importa... è una dottrina sbagliata, ma non è fondamentale... si dovrebbe fare diversamente, ma non si può sempre dire no.
Il compromesso deve morire, se si vuole prosperare spiritualmente. Altrimenti, si rischia di finire dove non si sarebbe mai creduto di finire. Come Billy Graham, che ha cominciato predicando fedelmente la Scrittura, si è poi aperto a alleanze pericolose e, nella sua vecchiaia, ha addirittura affermato che Papa Giovanni Paolo II era il più grande cristiano che aveva mai conosciuto.
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Onestamente, almeno qualche volta, abbiamo tutti pensato: “SE” non indosso vestiti nuovi, se non porto scarpe alla moda (anche se mi produrranno degli atroci mali di schiena fra alcuni anni), se i miei figli non hanno lo zainetto firmato, se non ho un taglio di capelli alla moda... “ penseranno che sono una poveraccia”. Oppure: “SE” non cambio il catorcio che sto ancora guidando, non posso presentarmi ai miei clienti, se non ho l’ultimo iPad non mi sento a mio agio... tutti i miei amici se lo sono fatto!” . E avanti con i “se”!
Il desiderio di essere ammirati, lodati, e apprezzati per evitare critiche, malintesi o rogne è un rischio tremendo perché spesso porta a fare dei compromessi con la nostra coscienza e influisce sulla nostra condotta, sulla nostra testimonianza ed è un cattivissimo esempio.
Può portare a fare debiti per acquistare cose di cui non abbiamo bisogno, anche se la Bibbia dice chiaramente che non dobbiamo fare debiti. Può portare a dire qualche mezza verità, il che equivale a una bugia, mentre la Bibbia dice che dobbiamo essere sempre sinceri. Può indurci a chiudere un occhio su qualche disonestà, a partecipare a situazioni equivoche, a tacere quando dovremmo parlare. In un primo tempo, probabilmente, la nostra coscienza busserà alla porta del nostro cuore e ci farà stare un po’ male, ma potrà facilmente essere messa a tacere con un ovvio “non potevo farne a meno”. Nella nostra vita spirituale e morale, il pericolo di compromessi è sempre in agguato.
L’Apostolo Paolo ha scritto a Timoteo, nella sua prima lettera, di due credenti, Imeneo e Alessandro, che avevano “rinunziato” a una buona coscienza e “avevano fatto naufragio quanto alla fede” (1:10,20). Non sappiamo a che chiesa appartenessero e per quale motivo abbiano messo a tacere la loro coscienza, ma il risultato è stato catastrofico. E’ probabile che anche il desiderio di fare una “bella figura” abbia animato Anania e Saffira, e li abbia spinti a mentire, niente po’ po’ di meno che allo Spirito Santo (Atti 5:1-10). E con quale risultato!
Alcuni re dell’Antico Testamento, a cominciare da Salomone, fecero seri compromessi spirituali e causarono gravi danni al popolo di Dio. La Bibbia dice, per esempio, di Salomone che “amava il Signore e seguiva i precetti di Davide , suo padre; soltanto offriva sacrifici e profumi sugli alti luoghi” (che erano consacrati a deità pagane) ( 1 Re 3:3). Quel “soltanto” grida più di un sirena d’allarme. A forza di “soltanto”, Salomone finì nell’idolatria totale.
Giosafat fu un buon re, “soltanto” fece alleanza e si imparentò con un re malvagio e idolatra, Achab, permettendo che suo figlio ne sposasse la figlia, Atalia. Questa, in seguito, contribuì alla rovina del regno di Giuda. Quell’alleanza gli fece anche correre grossi rischi, da cui Dio lo salvò miracolosamente (la sua storia si trova in 1 Re cap. 22).
Per il re Asa, le cose andarono nello stesso modo. Fu un buon re, “soltanto” chiuse un occhio sull’idolatria del suo popolo, quando avrebbe dovuto e potuto reprimerla e fece alleanze sbagliate (2 Cronache 14-16).
Il pericolo del compromesso è sempre presente.
Non è proprio giusto, ma è comodo... non è veramente biblico, ma non importa... è una dottrina sbagliata, ma non è fondamentale... si dovrebbe fare diversamente, ma non si può sempre dire no.
Il compromesso deve morire, se si vuole prosperare spiritualmente. Altrimenti, si rischia di finire dove non si sarebbe mai creduto di finire. Come Billy Graham, che ha cominciato predicando fedelmente la Scrittura, si è poi aperto a alleanze pericolose e, nella sua vecchiaia, ha addirittura affermato che Papa Giovanni Paolo II era il più grande cristiano che aveva mai conosciuto.
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Tu sei..... E io farò di te qualcosa di grande! - Morire per vivere 5
“Per ora faccio un
master... è fantastico... pensa che perfino mi retribuiscono... se tutto va
bene, poi penserò al dottorato.” Me lo diceva una ragazza con gli occhi che le brillavano
dall’entusiasmo.
“E poi, che pensi di fare?” ho chiesto. “Insegnerai?”
“Vedremo: non ci sono limiti alla carriera che uno può fare!”
Non ci sono limiti. Molti, come lei, lo pensano e si buttano
a capofitto nello studio, nella ricerca, nell’attivismo politico, nel
commercio, nello sport. Pensano solo a quello. Vivono solo per quello, senza pensare
a altro e senza farsi una scala di valori e di priorità. Senza fermarsi a
pensare se tanto impegno valga la pena oppure se, forse, non sarebbe meglio concentrarsi
anche su altro.
Conosco chi per anni si è buttato a fare soldi in banca,
investendo, calcolando e valutando, e oggi è a spasso. Ho visto chi per raggiungere il successo nel
lavoro e nella professione, ha trascurato moglie e figli e oggi si ritrova da
solo e – diciamolo – sconfitto. Ho visto
mamme chi sono vissute solo per i figli e hanno messo in secondo piano tutto il
resto e che, nella vecchiaia sono rimaste sole e depresse; perfino il marito
sembrava un peso. Ho visto figli che hanno trascurato i valori dei loro genitori
per inseguire i loro sogni e che vivono oggi delusi e inutili.
La carriera può essere un laccio e un trabocchetto. Può
distrarci e allontanarci da Dio e dai suoi scopi eterni, ma può anche essere un
meraviglioso strumento nelle mani del Signore.
Quello che sappiamo fare può essere moltiplicato e utilizzato da Lui e
addirittura trasformato in uno strumento per il bene di tanti.
Quando il Signore Gesù vide Pietro e Andrea che gettavano le
reti in mare per pescare, disse loro: “Seguitemi
e io farò di voi dei pescatori di uomini”. Trasformò il loro mestiere di
pescatori di pesci in un servizio utilissimo per il bene di tanti. E che retate
di anime fecero!
Dio chiamò (con le cattive!) Paolo, che era un esperto nella
legge ebraica, e ne fece un apostolo e un insegnante della buona notizia del
Vangelo. Nell’Antico Testamento, Dio chiamò Mosè, mentre era pastore di greggi,
e ne fece la guida del suo popolo.
Agli inizi della chiesa, usò Tabita, che sapeva cucire,
perché vestisse i poveri. E usò Priscilla, che fabbricava tende durante la
settimana, per ospitare, con suo marito, la chiesa nella sua casa. Usate la
vostra conoscenza della Bibbia per ricordare altri esempi simili. Ce ne sono!
Ora dite: “Secondo te, dovremmo mollare quello che facciamo
e per cui abbiamo studiato, per diventare tutti servi di Dio a pieno tempo?”
No. Non necessariamente.
Un buon medico credente cercherà di curare al meglio i
corpi, ma userà anche la sua professione per il bene spirituale dei suoi
pazienti. Se, poi, Dio lo manderà anche a curare i lebbrosi in India, tanto
meglio. Ma, probabilmente non lo manderà da nessuna parte, se non ha dimostrato
di essere un credente impegnato in patria.
Lo stesso si può dire di un insegnante, che avrà il coraggio
di parlare non solo di evoluzione, ma anche di creazionismo, o di un falegname
o un muratore, che sarà pronto a rinunciare alle ferie per collaborare alla
costruzione di un centro per ragazzi dipendenti dalla droga. Lo si può dire di un contabile, di un
commerciante, o di una segretaria e di un impiegato statale, che metteranno al
servizio di Dio ciò che sanno fare. Quello che siamo nella vita secolare può, e
deve, essere uno strumento di testimonianza. Richiederà abnegazione e, spesso,
sacrificio, ma ne varrà la pena.
Insomma, deve morire la nostra voglia di fama, di successo,
di affermazione e di gratificazione del nostro io, per fare posto a un
desiderio profondo e equilibrato di servire. Così la gloria, anziché venire a
noi, andrà a chi la merita davvero: il Signore.
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Ci penso io... Alt! - Morire per vivere 4
“Quando avrai eliminato tutte le tue cattive qualità, fai
attenzione perché ti rimangono ancora quelle buone. Sono pericolose.” L’ho
letto da qualche parte e mi è rimasto appiccicato nella mente, perché è una
verità sacrosanta.
Se avete una certa familiarità con l’Antico Testamento
ricorderete la storia di Rebecca, che è nel Libro della Genesi. Quando il servo
di Abramo, che andava alla ricerca di una buona moglie per Isacco, la incontrò
per la prima volta, dimostrò di essere forte come un’atleta (si offrì per dare
da bere ai suoi cammelli, bestie che si bevono 200 litri d’acqua come
niente, e lo fece), gentile come una perfetta donna di casa, ospitale e
determinata nelle decisioni. Una bomba di donna, che dopo che ebbe sposato
Isacco, continuò a essere una donna di valore.
Ebbe due gemelli, Esaù e Giacobbe, dopo vent’anni di
matrimonio. Prima che nascessero, Dio le aveva rivelato che il secondo a
nascere avrebbe ereditato una benedizione speciale nella discendenza della
famiglia. La cosa le fece molto piacere e Giacobbe divenne il suo beniamino,
mentre Esaù, nato per primo, divenne il favorito di Isacco.
Da vecchia, quando sentì che Isacco intendeva dare la benedizione
a Esaù anziché a Giacobbe, la sua intraprendenza prese il sopravvento: mise
insieme un raggiro, degno di qualsiasi Messalina, per raggiungere il suo
intento. Il suo piano la portò a mentire lei e a spingere Giacobbe a mentire, a
ingannare il marito, a seminare l’odio e il desiderio di vendetta nel cuore del
fratello diseredato, a dividere i due fratelli. Alla fine, fu costretta a far fuggire in gran fretta
Giacobbe, per salvarlo dalle ire di Esaù. Non lo rivide più.
Sua suocera, Sara, moglie di Abramo, in altre circostanze e
tempo prima, aveva maneggiato pure lei (certe donne dell’Antico testamento non
se ne stavano esattamente con le mani in mano o solo a filare la lana nella
loro tenda!) e aveva combinato un altro bel guaio pure lei... Da Adamo in poi,
dove sono andati a finire i mariti-leader?
Cosa avrebbe, invece, dovuto fare Rebecca? Starsene calma,
parlare col marito della promessa di Dio, che anche lui conosceva molto bene, e
aspettare che Dio agisse. È sempre sbagliato mentire e ingannare (fosse pure a
fin di bene, come si dice troppo spesso). È estremamente pericoloso cercare di
“aiutare” Dio a compiere i suoi piani con i nostri metodi umani. Molti dicono
che lo fanno per difendere l’onore di Dio... Scherziamo?
Adesso, però, noi donne mettiamoci la mano sulla coscienza.
A noi piace controllare, manovrare dietro le quinte, far succedere le cose,
suggerire ai mariti questo e quello e, con i nostri “savi” consigli guidare la famiglia,
il parentado, il commercio, la politica e perfino la chiesa di cui facciamo
parte. È un qualcosa che è insito in noi tutte.
Ma è un atteggiamento che dobbiamo far morire e considerare
un grosso pericolo, se vogliamo vivere una vita felice, serena e fruttuosa per
Dio. Non si tratta di rinunciare a usare i nostri doni e le capacità che Lui ci
ha date. Si tratta solo di capire e accettare il fatto che per onorarlo
davvero, dobbiamo mettere noi stesse e la nostra personalità e le nostre
capacità ai suoi piedi e permettergli di usarci come vuole Lui e secondo il suo
piano stabilito da tutta l’eternità e spiegato nella sua Parola.
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Occhio al nemico: è dentro di te! - Morire per vivere 3
Vi ricordate della patata che non voleva morire, di cui
abbiamo parlato due post fa? Non voleva adattarsi al piano di Dio. Non voleva
morire per dar vita a altre patate e non è servita a nulla.
Quando diventiamo nuove creature in Cristo, dobbiamo cercare
di non comportarci come quella patata, autosufficiente e indipendente. E
testarda.
Al contrario, dobbiamo renderci conto che siamo come bambini
e che dobbiamo crescere. Dobbiamo nutrirci con la Parola di Dio, parlare col
Signore per mezzo della preghiera e permettergli di educarci come vuole Lui.
Invece no, spesso crediamo di sapere già tutto, mentre, appena appena, abbiamo
capito il piano della salvezza. Vogliamo essere indipendenti, agire a modo
nostro e testimoniare della nostra fede a tutti costi. E facciamo più disastri
che cose buone. Io ne ho fatti.
Per esempio, coi genitori non credenti cosa facciamo? Entriamo
in casa e annunciamo che abbiamo trovato la verità, che la Chiesa romana è tutta sbagliata,
che tutto quello che ci hanno insegnato è errore e che siamo diventati figli di
Dio.
I genitori cosa pensano? Per prima cosa, che il figlio o la
figlia siano diventati matti, poi che siano diventati preda di una setta e,
infine, si sentono feriti personalmente, perché fino a quel momento avevano
pensato di essere stati dei bravi genitori. Ma cosa si credono di essere questi
figli che, di punto in bianco, gli vengono a dire che hanno sbagliato tutto?
Un giovane, che abbiamo conosciuto e aiutato spiritualmente
molti anni fa, si è comportato un po’ in questo modo ed è stato bistrattato malamente
da sua madre, un po’ per l’ignoranza di lei, ma anche per la sua troppa
irruenza e belligeranza.
A un certo punto, mio marito gli ha dato il migliore consiglio
possibile: chiedi ai genitori di permetterti di parlare loro per dieci minuti,
senza essere interrotto; esprimi loro il tuo amore e poi spiega con gentilezza
quello che ti è successo. Come ti sentivi prima, come ti è stata spiegata la
salvezza, che cosa ti ha colpito (senza fare polemiche) e quale è stata la tua
reazione. Poi prometti di non parlare
più della tua fede, a meno che non ti facciano delle domande. Piuttosto, vivi
giorno per giorno la tua fede davanti a loro. Dimostra di essere diventato davvero
una nuova creatura. Sarai la loro Bibbia. Punto e basta.
Nel suo caso, i risultati sono stati magnifici. I suoi genitori
e altri parenti si sono convertiti!
Spesso, nonostante tutte le nostre buone intenzioni,
testimoniamo, parliamo e agiamo con molto orgoglio (per non dire PER orgoglio),
per mettere in mostra il nostro io, pensando di essere meglio di quello che
siamo. L’Apostolo Pietro ha detto baldanzoso a Gesù: “Io non ti tradirò mai” e
dopo poche ore lo ha fatto.
Pensiamoci: il nostro orgoglio è il peggior nemico della nostra
crescita spirituale. E finché saremo in vita farà capolino.
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Il miracolo della nuova vita - Morire per vivere 2
Morire per vivere: suona un po’ lugubre, ma è quello che la
Bibbia dice. E non è lugubre affatto!
Un chicco di frumento deve morire nella terra per produrre
una spiga e Gesù, che si è proprio paragonato a un chicco di frumento, ha
dovuto morire per pagare per i nostri peccati, per poi risuscitare glorioso,
offrirci la salvezza eterna e produrre una messe di persone salvate, capaci di
vivere una vita nuova. Altro che spiga: covoni!
Ti sembra un’esagerazione? Non lo è. La Bibbia lo spiega
molto bene e ne spiega anche il perché.
La Parola di Dio afferma che ogni essere umano, a causa
della disubbidienza di Adamo e Eva, in qualunque famiglia nasca e di qualunque
razza sia, nasce spiritualmente morto, separato da Dio. L’apostolo Paolo lo ha espresso
così ai credenti di Efeso: “Voi eravate
morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi
abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della
podestà dell’aria (Satana)... Anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo
i desideri della nostra carne... ed
eravamo per natura figli d’ira come gli altri...” (2:1-3). In poche parole,
nasciamo, respiriamo, mangiamo, cresciamo, giochiamo, studiamo, diventiamo
adulti, ci sposiamo, generiamo figli, sembriamo vivi e lo siamo fisicamente. Ma
per natura siamo dei “morti spirituali” e generiamo figli morti spiritualmente.
Per diventare spiritualmente vivi c’è un solo mezzo: ammettere
di essere (e sentire il peso di essere) anche noi dei peccatori, separati da
Dio, perduti e senza speranza, ravvederci e credere che Gesù è l’unico che ci
può portare a Dio. Egli è l’unico che è morto al nostro posto e, essendo Dio
incarnato, il suo sacrificio ha avuto un valore infinito. Lo Spirito Santo ha oggi
esattamente il compito straordinario di convincere le persone del fatto che
sono peccatrici e separate da Dio, ma che c’è un solo Salvatore. A proposito: non
sarà mica che stia proprio lavorando nel tuo cuore in questo momento, facendoti
leggere queste parole per avvertirti che hai disperatamente bisogno di Gesù?
Nel momento in cui ci affidiamo a Lui e crediamo a Lui, succede
un miracolo: “nasciamo di nuovo” per vivere
una vita nuova spirituale, capace di piacere a Dio. Diventiamo “figli di Dio”!
Che meraviglia!
Ti rendi conto di che straordinario miracolo si tratta? La
Bibbia dice che la nostra natura è trasformata e resa nuova (2 Corinzi 5:17),
che diventiamo partecipi della natura divina (2 Pietro 1:4), che abbiamo la mente
di Cristo, cioè cominciamo a pensare come Lui (1 Corinzi 2:16), che il nostro
corpo diventa il tempio dello Spirito Santo (1 Corinzi 6:19) e noi entramo a
far parte del corpo spirituale di Cristo, la chiesa (Efesini 4:16). Non si
potrebbe immaginare niente di più grande!
Tu sei morto e risuscitato spiritualmente? Spero proprio di
sì! Dopo essere nati, dobbiamo crescere e diventare maturi spiritualmente.
Troverai degli ostacoli e scoprirai che il primo ostacolo sei tu. Ma scoprirai
anche che ce la potrai fare.
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Morire per vivere
Gesù, per spiegare l’importanza della sua morte, si è
paragonato a un granello di frumento messo nella terra e ha detto che “se non
fosse morto, sarebbe rimasto da solo, ma se fosse morto, avrebbe prodotto molto frutto” (Giovanni 12:24). E ha
detto pari pari: Se volete vivere davvero, dovete morire. È uno dei paradossi
di cui la Bibbia è piena. Ma quanto è vero! Materialmente e spiritualmente.
Durante la seconda guerra mondiale chi non aveva i soldi per
comprare cibo al mercato nero, faceva letteralmente la fame o si arrangiava.
Dato che un litro d’olio costava poco meno dello stipendio mensile di mio
padre, non ne abbiamo più usato e ci siamo arruolati nell’esercito di chi si
arrangiava.
Ecco come, almeno per un certo periodo.
I genitori di una mia amica avevano una villa con molto
terreno, e io ho chiesto se me ne facevano coltivare un pezzetto. Ci avrei
messo il lavoro e i semi e le pianticelle da trapiantare e avrei portato a casa
i prodotti. Affare fatto.
Non ero l’unica. Accanto a me lavoravano alcuni altri “che
si arrangiavano” nel loro “orticello di guerra”, come veniva chiamato
ufficialmente dal regime fascista (ci avevano fatto su anche una canzoncina!).
Ho imparato molto, facendo la contadina. Per esempio, dalle
patate. Si mettono nel solco dei pezzi di patata (sottratta furtivamente al minestrone
famigliare), che poi germogliano, producono una pianta, dalle cui radici poi
spuntano le patate nuove. Ci vuole del tempo e bisogna pazientare, ma è bello,
quando le piante in superficie mettono dei fiori, zappare gentilmente e scavare fino a che non
si trova un esercito di patatine, prodotte da quel pezzo di patata primitivo. La
patata originale non c’è più. Si è sfatta e putrefatta, è morta, per dar vita
alle nuove patate.
A volte, mi è capitato di trovare una patata che non si era
sfatta. Era dura, grinzosa e inutile. Da buttare. Se aveva un cervello (anche di
patata!), forse ha ragionato così: “Io voglio vivere a modo mio... io non sono
come le altre patate. Patata sono e patata intera e indipendente voglio
morire”. Si è chiusa in se stessa e non
è servita a nulla.
Nella vita cristana o fai come dice Gesù o fai la fine della
patata indipendente, dura, vecchia, grinzosa e inutile. Infatti Gesù, continuando
il suo ragionamento sul granello di frumento, ha affermato: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la
sua vita in questo mondo la conserverà in vita eterna”.
Gesù è morto, si è annientato prendendo il nostro castigo. Dopo
tre giorni è risuscitato in un’esplosione di vita e ha reso possibile per noi la
salvezza eterna. A un patto: che ci rendiamo
conto di essere peccatori perduti e crediamo con tutto il cuore a ciò che Egli ha detto e fatto. A chi
lo segue, Egli ha promesso una vita abbondante, fruttuosa, fertile. “Molto
frutto”, come nel caso del granello di frumento che cade in terra e produce
molto frutto.
A questo punto sorge
una domanda: come mai tanti che si dichiarano credenti portano così poco
frutto, sono sterili e, oltre tutto, poco felici?
Le risposte e le spiegazioni sono numerose. Ne parleremo in
questo mese di luglio. Intanto assicurati se sei un granello di frumento che è
stato seminato dal Signore, è caduto nella buona terra e ha le carte in ordine
per portare frutto. Alla prossima!
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I giganti... Bazzeccole!
Torniamo a parlare di Caleb e delle sue reazioni davanti a
difficoltà... gigantesche.
Erano partiti in dodici, capi delle dodici tribù d’Israele,
per andare a esplorare la Terra, che Dio aveva promessa al suo popolo. L’esplorazione era
durata 40 giorni e tutti quei dodici uomini avevano visto le stesse cose: un
bellissimo paese, fertile e produttivo, abitato da persone di statura alta , molto
troppo alta (per dieci di loro) e con città ben fortificate. Per Caleb e Giosuè
il paese era stato bellissimo e la gente e le città fortificate, poca cosa
davanti alla potenza di Dio.
È chiaro: dieci esploratori avevano confrontato se stessi
coi giganti, mentre Caleb aveva messo a confronto i giganti con Dio.
Era tutta una questione di fede e di timore di Dio: Caleb
temeva Dio più dei giganti e si fidava
di Dio. Quando fece la sua relazione
riguardo al paese che aveva visto, la fece con “sincerità di cuore”, come la definì Giosuè (14:7) e scelse di
credere a Dio e alle sue promesse, seguendolo pienamente (Giosuè 14:8),
piuttosto che badare alle sue impressioni e ai suoi sentimenti.
E per i futuri 40 anni, continuò fedelmente sulla stessa
linea. Io, per questo, lo ammiro sconfinatamente. Infatti il popolo fu condannato
da Dio a vagare nel deserto per 40 anni. A causa della sua ribellione, mentre
avrebbe potuto coprire la distanza che lo separava dalla Terra promessa in soli
40 giorni, quanti ne avevano impiegato gli esploratori.
Quaranta anni sono tanti, se sono fatti di spostamenti,
(smonta le tende e alza le tende), caldo, terreno arido, lamentele della gente,
disubbidienze, contrasti. Non è registrata nessuna lamentela di Caleb, nessun
“ve lo avevo detto!”, nessuna recriminazione. Solo fedeltà, tenacia e timore di
Dio.
La gente ribelle moriva nel deserto e lui perseverava nella
fiducia nelle promesse di Dio e non mollava. Finalmente alla bella età di 80
anni compiuti arriva con Giosuè, che era succeduto a Mosè nella guida del
popolo, e partecipa alla conquista del paese.
E all’età di 85 anni, si mette proprio a combattere contro i
giganti, che avevano fatto tanta paura agli altri esploratori. Ascoltatelo: “Ora ecco il Signore mi ha conservato in
vita, come aveva detto, durante i quarantacinque anni ormai trascorsi da quando
il Signore disse quella parola a Mosè, mentre Israele camminava nel deserto; e
ora ecco che ho ottantacinque anni; oggi sono ancora robusto com’ero il giorno
in cui Mosè mi mandò; le mie forze sono le stesse di allora, tanto per
combattere che per andare e venire. Dammi dunque questo monte, del quale il
Signore parlò quel giorno, perché tu udisti che vi stanno degli Anachiti
(giganti) e che ci sono delle città
grandi e fortificate. Forse, se il Signore sarà con me, io li scaccerò come
disse il Signore” (Giosuè 14:10-12).
Un gran bell’esempio che Dio ha onorato e che dovrebbe
ispirare anche noi a non confrontare mai le nostre difficoltà con la nostra
forza, ma a confidare nella forza e nelle promesse di Dio.
A riconoscere sempre che in noi stessi, di forza non ce n’è,
ma che la forza ci viene solo da Dio.
E anche che siamo sempre un esempio da seguire o da scartare,
finché saremo in vita (e che è meglio essere un buon esempio di fede che un
cattivo esempio di ribellione).
.
Possiamo riuscirci benissimo!
La Bibbia è piena di gente interessante e simpatica, da cui
possiamo imparare molto. Uno è Caleb di cui parla il libro dei Numeri. Il
nostro grafico, Erkki, ha guidato uno studio sul carattere e le imprese di quest’uomo,
nel nostro studio biblico settimanale in chiesa, e molto di quello che sto per
scrivere è fonte delle sue ricerche. Io l’ho trovato molto significativo.
Caleb aveva un padre dal nome strano Gefunne, che
probabilmene non era ebreo di nascita. Evidentemente si era unito al popolo
d’Israele e suo figlio Caleb era diventato il capo della tribù di Giuda. Come
tale, Caleb fu mandato da Mosè insieme a altri undici uomini, fra cui Giosuè,
tutti capi delle altre tribù, a esplorare la Terra Promessa.
Dopo che Dio gli aveva fatto attraversare miracolosamente il
Mar Rosso, il popolo aveva iniziato il suo cammino. Ora è accampato nel deserto
di Paran. I Giudei erano un popolo
difficile, disubbidiente e ribelle, che Dio aveva curato nutrendolo dal cielo
con la manna e con quaglie, aveva dissetato facendo scaturire l’acqua dalla
roccia. Gli aveva dato la legge morale e
sacerdotale e aveva pazientato e aveva perdonato varie volte, quando aveva
disubbidito.
Ora il popolo suggerisce che si mandino degli esploratori a
visitare la famosa Terra promessa descritta da Dio come una terra in cui
scorrono latte e miele. Dio lo permette e Mosè lo organizza. Era un suggerimento, mi pare, dettato non
tanto dall’entusiasmo di andare a esplorare il paese che Dio aveva promesso e
di ammirarne la bellezza, ma più che altro dalla diffidenza. E se Dio avesse
altri piani, se li volesse collocare in un territorio difficile? E se fosse
peggio della schiavitù dell’Egitto? Se fosse, come dicono tanti anche oggi, che
si “stava meglio quando si stava peggio”?
I 12 partono, con
degli ordini precisi da parte di Mosè:
“Andate... e vedrete che paese è, che popolo lo abita, se è forte o debole, se
è poco o molto numeroso e come sono le città ... come è il terreno, se vi sono
alberi o no. Abbiate coraggio e portate i frutti del paese”.
Il loro viaggio, andata e ritorno e esplorazione, durò 40 giorni, videro che il posto era
bello, il terreno fertile, portarono indietro un enorme grappolo d’uva e della
frutta. Fecero il loro rapporto a Mosè e Aaronne e al popolo: “Il paese è
bellissimo e fertilissimo, davvero ci scorre latte e miele, però è abitato da
gente potente, grande, gigantesca, in città fortificate.... Troppo difficile,
non lo vinceremo mai, non ci possiamo andare!”.
Stavano esagerando e comunicando la loro paura e il loro scetticismo
agli Ebrei rimasti sotto le tende e tutta la popolazione si mise a piangere e a
lamentarsi contro Mosè e Aaronne e, indirettamente, contro Dio. Anche in una
chiesa o in un ufficio, basta che uno cominci a mormorare e a lamentarsi, e presto si scatena la
rivolta. Non vi è mai capitato?
Mentre gli esploratori parlavano, Caleb, sostenuto da
Giosuè, cercava di calmare i popolo,
dicendo che quelli stavano esagerando e che il paese si poteva facilmente conquistare,
che i problemi c’erano ma non erano insormontabil; che con l’aiuto di Dio la
cosa era più che possibile. Niente da
fare: nessuno se li filava.
“Moriremo tutti, i nostri bambini diventeranno preda del
nemico... Stavamo meglio in Egitto, nominiamoci un capo e torniamo lì!”
In una circostanza così, le parole non servono a molto. Mosè
e Aaronne si prostrarono in preghiera, mentre Giosuè e Caleb, continuavano a
ripetere: “Il paese è buono,
buonissimoi... Se il Signore è favorevole, ci farà entrare in quel paese e ce
lo darà... Soltanto non vi ribellate al Signore e non abbiate paura del popolo
di quel paese... il Signore è con noi, non li temete...”.
“Questi due sono traditori, incoscienti... meritano di
essere lapidati” fu il mormorio generale.
A quel punto Dio intervenne e la sua gloria apparve nel
Tabernacolo dove risiedeva la sua presenza.
Quando Dio si adira, si adira sul serio. “Dopo aver visto
tanti miracoli e aver goduto tanta protezione come mai il popolo non credeva ancora
in Lui?” domanda. E minaccia di distruggerlo.
Mosè intercede e Dio acconsente a non operare una
distruzione completa: solo i ribelli vagheranno nel deserto per 40 anni (mentre
avrebbero potuto attraversarlo in 40 giorni!) e riceveranno esattamente ciò che
la loro bocca aveva chiesto: la morte nel deserto. Solo i loro figli arriveranno
nella Terra promessa.
Ecco la lista dei peccati del popolo:
- tentarono Dio ribellandosi a Lui per ben 10 volte in un anno,
- non ubbidirono alla voce di Dio,
- Lo disprezzarono,
- non credettero alle parole del Signore,
- mormorarono contro di Lui,
- disprezzarono il paese che Dio aveva promesso di dare loro,
- si sviarono dal Signore,
- furono infedeli, ostinati e presuntuosi.
“Che razza di gente!” dite. Andiamoci piano: non siamo anche
noi spesso come loro?
E cosa impariamo da Caleb? Ne parliamo la prossima volta.
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