“NON FACCIO PER VANTARMI, ma oggi è una bellissima giornata!”.


Lo diceva un Cavaliere medioevale (nessun riferimento a Cavalieri attuali) vanaglorioso, sicuro di sé e protagonista di una poesia che ho imparata a memoria da ragazzina.

Noi umani siamo un po’ tutti come quel cavaliere. Abbiamo la tendenza a vantarci di tutto. Del cibo che sappiamo cucinare, del lavoro che abbiamo compiuto, delle conquiste dei nostri figli e nipoti, del bene che sappiamo fare anche a chi ci tratta male, della nostra umiltà e delle nostre ripicche. Ci vantiamo perfino delle nostre malattie, che sono sempre più dolorose di quelle altrui.

“Cosa c’entra tutto questo con le tue conversazioni sulla preghiera?” chiedete.

C’entra, eccome! C’entra perché siamo un po’ come quel cavaliere medioevale e così sicuri di essere imortanti e di meritarci ogni tipo di benedizione. Vorremmo anche un trattamento speciale da parte di Dio, dato che siamo salvati per grazia e facciamo parte della sua famiglia. Perciò consideriamo i problemi della nostra vita come immeritati e ci meravigliamo e lamentiamo che Dio li permetta (se non facciamo addirittura gli offesi con Lui e decidiamo che non vale la pena pregarlo).

Di conseguenza, spesso dimentichiamo di ringraziarlo per i beni spirituali e materiali che riceviamo da Lui e gli facciamo solo una lista delle nostre disgrazie, che vorremmo ci togliesse al più presto, e di quello che avrebbe dovuto impedire che ci succedesse.

Oppure gli elenchiamo quello che vorremmo, come stessimo telefonando a un fornitore qualsiasi: “Signore, fammi star bene, dammi questo e dammi quest’altro”.

Dico bene o sono io la sola che, a volte, si rende conto di essere come un verme egoista che si rivolge all’Onnipotente pieno di pretese?

Sia come sia, alcuni versetti dovrebbero darci una bella dritta riguardo all’arroganza con cui preghiamo. Uno, per esempio, si trova nella lettera di Giacomo: “Non v’ingannate, fratelli miei carissimi: ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono  dall’alto e dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c’è variazione né alcuna ombra di mutamento... perciò, deposta ogni impurità e residuo di malizia, ricevete con mansuetudine la parola che è stata piantata in voi e che può salvare le anime vostre” (1:16,17,21).

Dio ha promesso ai suoi figli, nella sua Parola, protezione, misericordia, aiuto e anche correzione, per aiutarci a progredire nella nostra conoscenza  di Lui e migliorare nella nostra condotta. Non ha mai promesso di darci una vita sempre facile, ma ha promesso di aiutarci sempre nelle nostre difficoltà. La sua cura, tenera e ferma allo stesso tempo, è un dono del Padre celeste.

Dunque, in quello che ci succede, sia piacevole o spiacevole, dobbiamo abituarci a vedere la mano di Dio che ci sostiene, che, a volte, ci coccola e che spesso ci corregge, ma che ci ama sempre e “senza  variazioni”. Ciò che Lui permette nella nostra vita è sempre utile per il nostro bene eterno. Perciò, come ha scritto l’autore della lettera agli Ebrei, “per mezzo di Cristo offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome...” (13:15).

Lodiamo e ringraziamo Dio per ciò che ci piace e ci fa piacere e anche per quello che ci fa soffrire, perché “il Signore corregge quelli che Egli ama e punisce tutti quelli che Egli riconosce come figli... E vero che qualunque correzione, sul momento, non sembra recare gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in tutti coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa” (Ebrei 12:6,11).

Allora, ogni volta che ci viene il mugugno, impegniamoci a trasformarlo in un ringraziamento fiducioso, anche se, a volte, sarà un po’ difficile.

Ma di fiducia parleremo la prossima volta. 
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