Oggi in alcuni ambienti carismatici si predica “il vangelo del benessere”. Si afferma che i credenti dovrebbero godere sempre di buona salute, essere ricchi, prosperare negli affari e non avere problemi. Chi si ammala e ha delle difficoltà dimostra che Dio non lo sta benedicendo.
C’è da domandarsi che Bibbia leggono certe perone e cosa direbbe loro l’apostolo Paolo se gli capitasse di frequentare uno dei loro convegni.
Qualcuno ha detto che, probabilmente, quando arrivava in una città, che non conosceva, la cosa di cui si informava immediatamente era dove fosse la prigione, dato che con tutta probabilità ci sarebbe finito!
Nella sua seconda lettera ai credenti di Corinto, egli fa la lista delle sue sofferenze. “Dai Giudei, cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno, tre volte sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte negli abissi marini. Spesso in viaggio in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte di miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, nei deserti, sul mare, in pericolo fra falsi fratelli; in fatiche, in pene, spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a tutto questo sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono dalle chiese...” (11:24-28). Come vangelo del benessere non c’è male!
Per di più, Paolo era malato di qualcosa che non lo abbandonava mai e che veramente gli pesava. Non sembra che abbia mai chiesto al Signore di esentarlo dalle difficoltà che derivavano dal suo servizio di apostolo. Evidentemente sapeva che erano problemi che venivano col territorio. Ma confessa di avere pregato con insistenza di essere liberato dal male che lo affliggeva.
Avrà pensato: se fossi sano potrei servire più facilmente... sarei più pronto a testimoniare... sarei meno di disturbo ai credenti che mi ospitano... mi potrei spostare senza tanto dolore... Egli racconta: “Mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore affinché l’allontanasse da me, ed Egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza»” (2 Corinzi 12:7-9).
Un credente fedele come Paolo era malato e ha chiesto a Dio la liberazione. Non è stato esaudito. Come pure non sono esauditi, anche oggi, molti credenti. Ne ho conosciuti alcuni che hanno sofferto per anni. Una donna, per esempio, era ridotta a un mucchietto di ossa ratrappite. Soffriva giorno e notte. Perché? Dio ha i suoi piani. A volte guarisce e altre volte decide diversamente. Quella donna lo sapeva e lodava Dio costantemente. Un bell’esempio.
Paolo ha chiesto la liberazione con fede e fiducia nella potenza di Dio. Dio avrebbe potuto guarirlo in un istante, ma non lo ha fatto. E gli ha anche spiegato il perché: “La mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”. Quando siamo malati dipendiamo da chi ci cura, dobbiamo essere aiutati, sorretti. A volte anche umiliati. Capiamo la nostra fragilità.
Paolo l’ha capito e dice che l’angelo, cioè il messaggero, di Satana doveva essere lo strumento per aiutarlo a non diventare orgoglioso e superbo, a causa delle grandi rivelazioni spirituali che Dio gli aveva date. L’orgoglio spirituale è il peggiore nemico dei credenti ed è sempre in agguato. Dio ha dei metodi molto efficaci per tenerlo imbrigliato.
Perciò Paolo ha concluso: “Perciò molto volontieri (cioè con gioia e non con la pia rassegnazione di chi sospira e si lamenta tutto il tempo) mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo risposi su me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amore di Cristo; perché quando sono debole, allora sono forte” (vv. 9,10).
Paolo ha implorato Dio di liberarlo dalla malattia. Quando Dio gli ha detto “no” non si è ribellato, non ha fatto l’offeso, non ha preteso miracoli eclatanti, ma ha visto la mano buona di Dio all’opera per il suo bene. Quando abbiamo un piccolo bubù pensiamo a lui e cerchiamo di fare come lui.
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Non mollare mai
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Geremia è stato un altro profeta che è vissuto in un tempo difficilissimo.
Si tormentava per il peccato d’Israele e lo ha scritto molte volte nel suo libro. Tanto che l’hanno soprannominato “il profeta piangente”. Ha dovuto riferire da parte del Signore delle profezie terribili di giudizio e di grandi sofferenze per i Giudei, che avevano abbandonato il vero Dio e si erano dati all’idolatria. Avevano adottato i culti pagani e le donne erano particolarmente devote alla regina del cielo e le offrivano profumi e le consacravano delle focacce! Ad ogni esortazione a tornare al vero Dio si ribellavano, e facevano peggio.
Geremia fu osteggiato in modo particolare dai religiosi che gliene fecero passare di cotte e di crude. Dopo aver pronunciato una profezia particolarmente severa nel cortile del tempio, Pascur, il sommo sacerdote e sovrintendente del tempio lo fece mettere in prigione e incatenare.
Quando fu liberato, Geremia gli disse: “Il Signore non ti chiama più Pascur (che significa “sicurezza d’ogni intorno”), ma Magor-Missabib (“spavento d’ogni intorno”), poiché così parla il Signore: «Io ti renderò un oggetto di terrore a te stesso e a tutti i tuoi amici, essi cadranno per la spada e il tuoi occhi lo vedranno»...Tu, Pascur e tutti quelli che abitano in casa tua sarete deportati, tu andrai a Babilonia e là sarai sepolto con tutti i tuoi amici ai quali hai profetizzato menzogne” (Geremia 20:1-6). Un gran bel coraggio, non vi pare?
Ma, come succede a volte, dopo un grande picco di coraggio, ci può essere una caduta nello scoramento. Un po’ come quando, dopo un grosso esame o una situazione in cui abbiamo dovuto lottare con tutte le nostre forze, ti viene voglia di mollare tutto.
Geremia era umano e ha avuto più di uno di questi momenti. Ma, dopo l’esperienza con Pascur, ha fatto la cosa giusta. Ha aperto il suo cuore al Signore e gli ha parlato dei suoi alti e bassi. È arrivato a dire: “Maledetto il giorno in cui son nato... Perché non sono morto quando ero ancora nel grembo materno?... perché sono uscito dal grembo materno per vedere tormento e dolore, per finire i miei giorni nella vergogna?...”.
Non trovate che la Bibbia è un libro meraviglioso? Ci racconta che anche i migliori credenti hanno i loro momenti neri. E questo ci incoraggia a dire tutto a Dio e a non cercare di fare una bella figura con Lui. Tanto sa come siamo...
Geremia dice: “Tu mi hai persuaso, o Signore, e io mi sono lasciato persuadere, tu m’hai fatto forza e mi hai vinto, io sono diventato ogni giorno un oggetto di scherno... Ogni volta che parlo, grido, grido: Violenza e saccheggio! Sì, la parola del Signore è per me uno obbrobrio, uno scherno ogni giorno, ognuno si fa beffe di me...”
Sembra dire: “Ho creduto, mi sono consacrato a te, ti ubbidisco, ti servo, ma che serve?”.
Però, subito dopo, aggiunge: “Se dico: Io non lo menzionerò più, non parlerò più nel suo nome, c’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso... Lo spavento mi viene da ogni lato... ma il Signore è con me, come un potente eroe: perciò i miei persecutori inciamperanno e non prevarranno... Cantate al Signore, lodate il Signore, perché Egli libera il povero dalle mani dei malfattori!” (cap. 20).
Nella vita cristiana vengono i momenti di sconforto. Parliamo del Signore Gesù e della sua potenza e ci sentiamo rispondere: “Però anche Padre Pio...”. Parliamo di fede biblica e ti rispondono che basta essere sinceri e tutto va bene. E ci viene voglia di mollare. Andassero tutti a farsi benedire!, pensiamo.
“Ne porti in chiesa due e te ne scappano tre!” ha sospirato una volta mio marito prima di addormentarsi. Ma era solo un momento. Non ha mollato. Il giorno dopo è andato a cercarne altri quattro.
“Non mollate mai” diceva un professore credente ai suoi studenti. Come riuscirci?
In un solo modo: avere dentro di noi un fuoco ardente, il fuoco della presenza dello Spirito Santo che ci dà la forza di continuare a essere fedeli e a essere testimoni della grazia di Dio. Non necessariamente perché ne abbiamo voglia, ma perché Gesù l’ha ordinato. E sapere che Dio è un eroe potente e la sua vittoria è anche nostra.
Perciò, non molliamo mai!
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Geremia è stato un altro profeta che è vissuto in un tempo difficilissimo.
Si tormentava per il peccato d’Israele e lo ha scritto molte volte nel suo libro. Tanto che l’hanno soprannominato “il profeta piangente”. Ha dovuto riferire da parte del Signore delle profezie terribili di giudizio e di grandi sofferenze per i Giudei, che avevano abbandonato il vero Dio e si erano dati all’idolatria. Avevano adottato i culti pagani e le donne erano particolarmente devote alla regina del cielo e le offrivano profumi e le consacravano delle focacce! Ad ogni esortazione a tornare al vero Dio si ribellavano, e facevano peggio.
Geremia fu osteggiato in modo particolare dai religiosi che gliene fecero passare di cotte e di crude. Dopo aver pronunciato una profezia particolarmente severa nel cortile del tempio, Pascur, il sommo sacerdote e sovrintendente del tempio lo fece mettere in prigione e incatenare.
Quando fu liberato, Geremia gli disse: “Il Signore non ti chiama più Pascur (che significa “sicurezza d’ogni intorno”), ma Magor-Missabib (“spavento d’ogni intorno”), poiché così parla il Signore: «Io ti renderò un oggetto di terrore a te stesso e a tutti i tuoi amici, essi cadranno per la spada e il tuoi occhi lo vedranno»...Tu, Pascur e tutti quelli che abitano in casa tua sarete deportati, tu andrai a Babilonia e là sarai sepolto con tutti i tuoi amici ai quali hai profetizzato menzogne” (Geremia 20:1-6). Un gran bel coraggio, non vi pare?
Ma, come succede a volte, dopo un grande picco di coraggio, ci può essere una caduta nello scoramento. Un po’ come quando, dopo un grosso esame o una situazione in cui abbiamo dovuto lottare con tutte le nostre forze, ti viene voglia di mollare tutto.
Geremia era umano e ha avuto più di uno di questi momenti. Ma, dopo l’esperienza con Pascur, ha fatto la cosa giusta. Ha aperto il suo cuore al Signore e gli ha parlato dei suoi alti e bassi. È arrivato a dire: “Maledetto il giorno in cui son nato... Perché non sono morto quando ero ancora nel grembo materno?... perché sono uscito dal grembo materno per vedere tormento e dolore, per finire i miei giorni nella vergogna?...”.
Non trovate che la Bibbia è un libro meraviglioso? Ci racconta che anche i migliori credenti hanno i loro momenti neri. E questo ci incoraggia a dire tutto a Dio e a non cercare di fare una bella figura con Lui. Tanto sa come siamo...
Geremia dice: “Tu mi hai persuaso, o Signore, e io mi sono lasciato persuadere, tu m’hai fatto forza e mi hai vinto, io sono diventato ogni giorno un oggetto di scherno... Ogni volta che parlo, grido, grido: Violenza e saccheggio! Sì, la parola del Signore è per me uno obbrobrio, uno scherno ogni giorno, ognuno si fa beffe di me...”
Sembra dire: “Ho creduto, mi sono consacrato a te, ti ubbidisco, ti servo, ma che serve?”.
Però, subito dopo, aggiunge: “Se dico: Io non lo menzionerò più, non parlerò più nel suo nome, c’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso... Lo spavento mi viene da ogni lato... ma il Signore è con me, come un potente eroe: perciò i miei persecutori inciamperanno e non prevarranno... Cantate al Signore, lodate il Signore, perché Egli libera il povero dalle mani dei malfattori!” (cap. 20).
Nella vita cristiana vengono i momenti di sconforto. Parliamo del Signore Gesù e della sua potenza e ci sentiamo rispondere: “Però anche Padre Pio...”. Parliamo di fede biblica e ti rispondono che basta essere sinceri e tutto va bene. E ci viene voglia di mollare. Andassero tutti a farsi benedire!, pensiamo.
“Ne porti in chiesa due e te ne scappano tre!” ha sospirato una volta mio marito prima di addormentarsi. Ma era solo un momento. Non ha mollato. Il giorno dopo è andato a cercarne altri quattro.
“Non mollate mai” diceva un professore credente ai suoi studenti. Come riuscirci?
In un solo modo: avere dentro di noi un fuoco ardente, il fuoco della presenza dello Spirito Santo che ci dà la forza di continuare a essere fedeli e a essere testimoni della grazia di Dio. Non necessariamente perché ne abbiamo voglia, ma perché Gesù l’ha ordinato. E sapere che Dio è un eroe potente e la sua vittoria è anche nostra.
Perciò, non molliamo mai!
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Dio, perché?
Ma vale la pena comportarsi bene? I cattivi stanno meglio dei buoni!
Te lo sei mai chiesto? Probabilmente, sì. Se l’è chiesto Asaf, un credente dell’Antico Testamento, che occupava una posizione importante al tempo del re Davide e che, forse, è arrivato anche a vedere la gloria del tempio di Salomone.
Apparteneva a una tribù importante, la tribù di Levi, alla quale era stato affidato il sacerdozio, la cura del tabernacolo, prima, e del tempio, dei sacrifici e delle cerimonie religiose, poi.
Asaf era il capo cantore e aveva guidato la lode quando l’arca del patto era stata trasportata a Gerusalemme e, in quell’occasione, il re Davide lo aveva nominato come capo stabile del coro e aveva composto un salmo speciale perché fosse cantato (1 Cronache 16:1-37). I suoi figli e discendenti facevano parte del coro anche loro e rimasero tali per molti anni. Una famiglia che amava la musica, cantava bene e usava questo dono per glorificare Dio.
Aveva reputazione di essere un veggente, cioè dotato di doni speciali di profezia e a lui sono attribuiti almeno dieci salmi, dal 73 all’83. Un credente di valore.
Allora, come mai ha potuto dire: “Quasi inciamparono i miei piedi; poco mancò che i miei passi non scivolassero... Poiché invidiavo i prepotenti vedendo la prosperità dei malvagi. Poiché per loro non vi sono dolori e il loro corpo è sano e ben nutrito…” (Salmo 73:2-4)?
“Perché ci hai respinti per sempre? Perché arde l’ira tua contro il gregge del tuo popolo?... Ergiti, o Dio, difendi la tua causa! Ricordati che lo stolto ti oltraggia tutto il giorno…” (74:1,2).
“Il Signore ci respinge forse per sempre?... Dio ha dimenticato di aver pietà?” (77:8,9).
A volte, si pensa che i veri credenti, i servi di Dio, non dovrebbero avere mai dubbi, essere fermi come la Roccia di Gibilterra, incrollabili nella loro fede.
Asaf era un uomo onesto e si guardava attorno: il male e la cattiveria erano ovunque. I buoni soffrivano. Sembrava che Dio non si curasse dell’ingiustizia. Perciò, il grande musicista e cantore si faceva delle domande e aveva il coraggio di parlare dei suoi dubbi.
Non era del tipo che sembra sempre vittorioso e ultraspirituale. Uno del tipo che cammina sollevato sempre dieci centimetri da terra.
Meno male! Perché anche noi, a volte, facciamo come lui. Ci chiediamo: perché Dio lascia che tanti muoiano di fame? Perché non ferma le mafie di tutti i paesi? Perché gli imbroglioni trionfano? Perché chi vuol pagare tutte le sue tasse, non si può poi neppure permettere una vacanza con la famiglia? Perché Dio non fulmina gli spacciatori e coloro che fanno della prostituzione di ragazze povere la fonte delle loro ricchezze? Perché? Perché?
Asaf, in più, si chiedeva: vale la pena comportarsi bene? Vale la pena essere fedeli a Dio e cercare di fare la sua volontà? A che serve?
La sua conclusione è stata: sì, ne vale la pena. È entrato nel segreto di Dio e ha capito che i malvagi godono adesso, ma che finiranno molto male. Che la vita sulla terra dura poco e così anche durano poco le gioie dei malvagi. Che li aspetta la separazione eterna da Dio. Che chi confida in Dio, invece, vivrà un’eternità di gioia.
“Tu mi hai preso per la mano destra: mi guiderai col tuo consiglio e poi mi accoglierai nella gloria” (Salmo 73:23,24) ha concluso. Così dovrebbe concludere anche ogni credente.
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Te lo sei mai chiesto? Probabilmente, sì. Se l’è chiesto Asaf, un credente dell’Antico Testamento, che occupava una posizione importante al tempo del re Davide e che, forse, è arrivato anche a vedere la gloria del tempio di Salomone.
Apparteneva a una tribù importante, la tribù di Levi, alla quale era stato affidato il sacerdozio, la cura del tabernacolo, prima, e del tempio, dei sacrifici e delle cerimonie religiose, poi.
Asaf era il capo cantore e aveva guidato la lode quando l’arca del patto era stata trasportata a Gerusalemme e, in quell’occasione, il re Davide lo aveva nominato come capo stabile del coro e aveva composto un salmo speciale perché fosse cantato (1 Cronache 16:1-37). I suoi figli e discendenti facevano parte del coro anche loro e rimasero tali per molti anni. Una famiglia che amava la musica, cantava bene e usava questo dono per glorificare Dio.
Aveva reputazione di essere un veggente, cioè dotato di doni speciali di profezia e a lui sono attribuiti almeno dieci salmi, dal 73 all’83. Un credente di valore.
Allora, come mai ha potuto dire: “Quasi inciamparono i miei piedi; poco mancò che i miei passi non scivolassero... Poiché invidiavo i prepotenti vedendo la prosperità dei malvagi. Poiché per loro non vi sono dolori e il loro corpo è sano e ben nutrito…” (Salmo 73:2-4)?
“Perché ci hai respinti per sempre? Perché arde l’ira tua contro il gregge del tuo popolo?... Ergiti, o Dio, difendi la tua causa! Ricordati che lo stolto ti oltraggia tutto il giorno…” (74:1,2).
“Il Signore ci respinge forse per sempre?... Dio ha dimenticato di aver pietà?” (77:8,9).
A volte, si pensa che i veri credenti, i servi di Dio, non dovrebbero avere mai dubbi, essere fermi come la Roccia di Gibilterra, incrollabili nella loro fede.
Asaf era un uomo onesto e si guardava attorno: il male e la cattiveria erano ovunque. I buoni soffrivano. Sembrava che Dio non si curasse dell’ingiustizia. Perciò, il grande musicista e cantore si faceva delle domande e aveva il coraggio di parlare dei suoi dubbi.
Non era del tipo che sembra sempre vittorioso e ultraspirituale. Uno del tipo che cammina sollevato sempre dieci centimetri da terra.
Meno male! Perché anche noi, a volte, facciamo come lui. Ci chiediamo: perché Dio lascia che tanti muoiano di fame? Perché non ferma le mafie di tutti i paesi? Perché gli imbroglioni trionfano? Perché chi vuol pagare tutte le sue tasse, non si può poi neppure permettere una vacanza con la famiglia? Perché Dio non fulmina gli spacciatori e coloro che fanno della prostituzione di ragazze povere la fonte delle loro ricchezze? Perché? Perché?
Asaf, in più, si chiedeva: vale la pena comportarsi bene? Vale la pena essere fedeli a Dio e cercare di fare la sua volontà? A che serve?
La sua conclusione è stata: sì, ne vale la pena. È entrato nel segreto di Dio e ha capito che i malvagi godono adesso, ma che finiranno molto male. Che la vita sulla terra dura poco e così anche durano poco le gioie dei malvagi. Che li aspetta la separazione eterna da Dio. Che chi confida in Dio, invece, vivrà un’eternità di gioia.
“Tu mi hai preso per la mano destra: mi guiderai col tuo consiglio e poi mi accoglierai nella gloria” (Salmo 73:23,24) ha concluso. Così dovrebbe concludere anche ogni credente.
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Dio, non mi sembra giusto!
“Chi era Habacuc?” chiede la maestra ai ragazzi della sua classe di scuola domenicale.
“Bohhhhhh...” è la risposta. I ragazzi la guardano con l’espressione vispa delle icone bizantine.
“Mi pare che era un profeta. Uno di quelli poco importanti...” tenta una ragazza.
“Niente è poco importante, se è nella Bibbia” dice l’insegnante, “ma è anche vero che di lui non si sa proprio niente. Né dove è nato, né cosa ha fatto, nè a che tribù apparteneva”.
“Allora perché lo studiamo?” dice un ragazzotto con tono un po’ di sfida.
“Lo studiamo perché ha qualcosa di molto importante da insegnarci” dice la maestra. E continua: “Sembra che sia vissuto quando il regno di Giuda era in una decadenza totale e la gente si comportava malissimo. Quasi tutti erano ribelli e adoravano dei falsi idoli invece di adorare Dio, disubbidivano ai comandi di Dio ed erano immorali.
“Dio ha fatto sapere a Habacuc che avrebbe usato i Caldei, che erano crudelissmi e cattivissimi, per invadere la terra dei Giudei e punirli per i loro peccati, come si meritavano”.
I ragazzi erano attenti e interessati. Per una volta non facevano domande.
“Come pensate che abbia ragionato Habacuc?” chiese la maestra.
I ragazzi dissero: “Che Dio faceva bene... La gente cattiva si era meritata la punizione... Se facciamo male Dio deve punire...”.
“Sono buone risposte” disse la maestra, ma Habacuc aveva un problema: “Era vero che gli Ebrei erano cattivi e disubbidienti e meritavano una punizione, tanto più che Dio li aveva avvertiti tante volte e loro non avevano ascoltato, ma perché usava delle gente ancora più cattiva per punirli? Non gli sembrava giusto...”.
“Infatti... non è giusto!” disse un ragazzo un po’ bellicoso. “Dio deve punire tutti, se no non è giusto! Doveva usare i bravi per punire i cattivi!”
“Ma, mio papà dice che Dio fa sempre del bene...” propose una bambina.
“Tranquilli!” disse la maestra. “Ascoltate come è andata a finire. Dio ha detto a Habacuc che, a suo tempo avrebbe punito anche i Caldei molto duramente. Il malvagio sarà punito una volta o l’altra e la punizione sarà dura e giusta. Dio è sovrano e fa tutte le cose come Lui vuole e quando vuole. Ma chi ama Dio e crede in Lui vivrà per mezzo della sua fede in Dio.”
“Vuol dire che nessuno che ama Dio muore in guerra?” chiese un bambino che era stato zitto fino a quel momento.
“No, purtropppo anche i credenti muoiono nelle guerre e nelle disgrazie, se Dio lo permette. Ma chi ama Dio, vivrà per sempre col Signore. E questo è molto importante.”
“È un po’ triste però...” disse lo stesso bambino.
“Sì, è triste, e per questo dobbiamo parlare alla gente di Gesù e del perdono di Dio, così, se crederanno, andranno in cielo. Ma ascoltate cosa ha detto Habacuc alla fine del suo piccolo libro. È la risposta che ha dato a Dio: “Ho udito e le mie labbra tremano... io tremo e aspetto in silenzio il giorno dell’angoscia, quando il nemico marcerà contro il popolo per assalirlo... Ma io mi rallegrerò nel Signore, esulterò nel Dio della mia salvezza. Dio, il Signore è la mia forza; Egli renderà i miei piedi come quelli delle cerve e mi farà camminare sulle alture” (Habacuc 3:17-19).
“Cosa ha fatto poi Habacuc?” chiese un ragazzo.
“Non lo sappiamo, ma certo avrà continuato a parlare alla gente e a aiutarla a credere in Dio! Come dobbiamo fare anche noi” concluse la maestra.
Habacuc, come noi, si faceva delle domande. Dio gli rispondeva direttamente, noi troviamo le risposte nella Bibbia. Per questo è importante leggerla e mai considerare qualche sua parte poco importante.
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“Bohhhhhh...” è la risposta. I ragazzi la guardano con l’espressione vispa delle icone bizantine.
“Mi pare che era un profeta. Uno di quelli poco importanti...” tenta una ragazza.
“Niente è poco importante, se è nella Bibbia” dice l’insegnante, “ma è anche vero che di lui non si sa proprio niente. Né dove è nato, né cosa ha fatto, nè a che tribù apparteneva”.
“Allora perché lo studiamo?” dice un ragazzotto con tono un po’ di sfida.
“Lo studiamo perché ha qualcosa di molto importante da insegnarci” dice la maestra. E continua: “Sembra che sia vissuto quando il regno di Giuda era in una decadenza totale e la gente si comportava malissimo. Quasi tutti erano ribelli e adoravano dei falsi idoli invece di adorare Dio, disubbidivano ai comandi di Dio ed erano immorali.
“Dio ha fatto sapere a Habacuc che avrebbe usato i Caldei, che erano crudelissmi e cattivissimi, per invadere la terra dei Giudei e punirli per i loro peccati, come si meritavano”.
I ragazzi erano attenti e interessati. Per una volta non facevano domande.
“Come pensate che abbia ragionato Habacuc?” chiese la maestra.
I ragazzi dissero: “Che Dio faceva bene... La gente cattiva si era meritata la punizione... Se facciamo male Dio deve punire...”.
“Sono buone risposte” disse la maestra, ma Habacuc aveva un problema: “Era vero che gli Ebrei erano cattivi e disubbidienti e meritavano una punizione, tanto più che Dio li aveva avvertiti tante volte e loro non avevano ascoltato, ma perché usava delle gente ancora più cattiva per punirli? Non gli sembrava giusto...”.
“Infatti... non è giusto!” disse un ragazzo un po’ bellicoso. “Dio deve punire tutti, se no non è giusto! Doveva usare i bravi per punire i cattivi!”
“Ma, mio papà dice che Dio fa sempre del bene...” propose una bambina.
“Tranquilli!” disse la maestra. “Ascoltate come è andata a finire. Dio ha detto a Habacuc che, a suo tempo avrebbe punito anche i Caldei molto duramente. Il malvagio sarà punito una volta o l’altra e la punizione sarà dura e giusta. Dio è sovrano e fa tutte le cose come Lui vuole e quando vuole. Ma chi ama Dio e crede in Lui vivrà per mezzo della sua fede in Dio.”
“Vuol dire che nessuno che ama Dio muore in guerra?” chiese un bambino che era stato zitto fino a quel momento.
“No, purtropppo anche i credenti muoiono nelle guerre e nelle disgrazie, se Dio lo permette. Ma chi ama Dio, vivrà per sempre col Signore. E questo è molto importante.”
“È un po’ triste però...” disse lo stesso bambino.
“Sì, è triste, e per questo dobbiamo parlare alla gente di Gesù e del perdono di Dio, così, se crederanno, andranno in cielo. Ma ascoltate cosa ha detto Habacuc alla fine del suo piccolo libro. È la risposta che ha dato a Dio: “Ho udito e le mie labbra tremano... io tremo e aspetto in silenzio il giorno dell’angoscia, quando il nemico marcerà contro il popolo per assalirlo... Ma io mi rallegrerò nel Signore, esulterò nel Dio della mia salvezza. Dio, il Signore è la mia forza; Egli renderà i miei piedi come quelli delle cerve e mi farà camminare sulle alture” (Habacuc 3:17-19).
“Cosa ha fatto poi Habacuc?” chiese un ragazzo.
“Non lo sappiamo, ma certo avrà continuato a parlare alla gente e a aiutarla a credere in Dio! Come dobbiamo fare anche noi” concluse la maestra.
Habacuc, come noi, si faceva delle domande. Dio gli rispondeva direttamente, noi troviamo le risposte nella Bibbia. Per questo è importante leggerla e mai considerare qualche sua parte poco importante.
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“Non so se lo so fare, ma ci provo!”
“C’è del potenziale in quel ragazzo!” disse, molti anni fa, l’allenatore di una squadretta di pallacanestro di una scuola americana, guardando un ragazzo magro e piuttosto denutrito, che gli aveva detto che avrebbe avuto piacere di giocare. Nessuno gli avrebbe dato fiducia, ma l’allenatore fece di lui uno dei migliori cestisti del suo tempo.
Quando si pensa alla gente che Dio ha usato, ci si deve convincere che Lui vede al di là delle apparenze. È stato così per Gedeone che, la prima volta che ebbe a che fare con Dio, si sentì dire: “Il Signore è con te, o uomo forte e valoroso!”.
Non si sarebbe detto, perché Gedeone se ne stava, mezzo nascosto, in un luogo angusto a trebbiare il grano. Era pieno di paura dei Madianiti che avrebbero potuto venire, all’improvviso e in qualsiasi momento, a razziare ogni cosa. C’era ben poco di valoroso nel suo atteggiamento. Ma Dio sapeva cosa voleva fare.
Gedeone gli rispose: “Ahimè, mio signore, se il Signore è con noi, perché ci è accaduto tutto questo? Dove sono tutte quelle sue meraviglie che i nostri padri ci hanno narrate... ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha dato nelle mani dei Madianiti...” (Giudici 6:13,14).
Allora il Signore gli disse: “Va con questa forza che tu hai e libera Israele dalle mani dei Madianiti; non sono io che ti mando?”.
“Ma Signore, la mia famiglia è la più povera di Manasse (una tribù di Israele, poco illustre) e io sono il più piccolo della casa di mio padre...” (suona un po’ come le scuse di Mosè, non vi pare?). Ma il Signore risponde: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fosse un uomo solo”.
“Se è così, dammi un segno che sei proprio tu che mi parli... Lascia che vada a prepararti un’offerta...”
Quando Gedeona torna con l’offerta da consacrare a Dio, la Persona che gli aveva parlato la tocca con la punta del suo bastone e la consuma col fuoco. Era il segno richiesto e Gedeone capisce. Chi gli parlava era l‘Angelo dell’Eterno, la seconda Persona della Trinità, come accadeva a volte nell’Antico Testamento. Gedeone si impaurisce, ma Dio lo rassicura: “Sta’ in pace, non temere non morrai!”.
Gedeone costruisce un altare al Signore e lo chiama “Signore-pace”.
Dopo di che comincia la grande impresa dell’uomo “forte e valoroso”, fra richieste di segni al Signore, conferme, speranze, ubbidienze, timori e una grande vittoria finale. Gedeone progredisce nella fede, diventa sempre più forte e fiducioso e il Signore lo accompagna, incoraggia e sostiene, come un buon padre farebbe con un figlio. Una meraviglia!
Non è possibile qui raccontare tutta la sua storia, ma leggetela per conto vostro, se avete una Bibbia, nei capitoli 6-8 del Libro dei Giudici. Sembra un romanzo d’avventura e descrive Gedeone che, con la forza che aveva e che Dio gli dava, progredisce in maniera incredibile. (Se non avete una Bibbia, ordinatene una a Associazione Verità Evangelica, Via Pozzuoli 9, 00182 Roma. Ne abbiamo una in edizione popolare che costa solo € 1,50 + spese postali.)
La storia di Gedeone mi fa pensare a una mia amica, molto più giovane di me. Si è convertita al Signore quando aveva meno di 20 anni ed era timida al punto che, quando la guardavi, diventava rossa in faccia e voleva scappare. Ma aveva del potenziale, di cui neppure lei si rendeva conto. Ho cominciato a affidarle qualche piccolo incarico nella nostra chiesa. La sua risposta era sempre: “Non so se ci riesco, ma ci provo”. E ci riusciva!
Dio vede in tutti i suoi figli delle persone “forti e valorose” e vuole tirare fuori il nostro potenziale. Vuole usarci per fare la sua opera per mezzo di noi. Lui sa quello che fa.
Uno dei versetti della mia vita si trova nel Libro dell’Ecclesiaste: “Quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutto il cuore” (9:10). Si comincia di lì. E chissà dove si fa a finire!
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Quando si pensa alla gente che Dio ha usato, ci si deve convincere che Lui vede al di là delle apparenze. È stato così per Gedeone che, la prima volta che ebbe a che fare con Dio, si sentì dire: “Il Signore è con te, o uomo forte e valoroso!”.
Non si sarebbe detto, perché Gedeone se ne stava, mezzo nascosto, in un luogo angusto a trebbiare il grano. Era pieno di paura dei Madianiti che avrebbero potuto venire, all’improvviso e in qualsiasi momento, a razziare ogni cosa. C’era ben poco di valoroso nel suo atteggiamento. Ma Dio sapeva cosa voleva fare.
Gedeone gli rispose: “Ahimè, mio signore, se il Signore è con noi, perché ci è accaduto tutto questo? Dove sono tutte quelle sue meraviglie che i nostri padri ci hanno narrate... ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha dato nelle mani dei Madianiti...” (Giudici 6:13,14).
Allora il Signore gli disse: “Va con questa forza che tu hai e libera Israele dalle mani dei Madianiti; non sono io che ti mando?”.
“Ma Signore, la mia famiglia è la più povera di Manasse (una tribù di Israele, poco illustre) e io sono il più piccolo della casa di mio padre...” (suona un po’ come le scuse di Mosè, non vi pare?). Ma il Signore risponde: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fosse un uomo solo”.
“Se è così, dammi un segno che sei proprio tu che mi parli... Lascia che vada a prepararti un’offerta...”
Quando Gedeona torna con l’offerta da consacrare a Dio, la Persona che gli aveva parlato la tocca con la punta del suo bastone e la consuma col fuoco. Era il segno richiesto e Gedeone capisce. Chi gli parlava era l‘Angelo dell’Eterno, la seconda Persona della Trinità, come accadeva a volte nell’Antico Testamento. Gedeone si impaurisce, ma Dio lo rassicura: “Sta’ in pace, non temere non morrai!”.
Gedeone costruisce un altare al Signore e lo chiama “Signore-pace”.
Dopo di che comincia la grande impresa dell’uomo “forte e valoroso”, fra richieste di segni al Signore, conferme, speranze, ubbidienze, timori e una grande vittoria finale. Gedeone progredisce nella fede, diventa sempre più forte e fiducioso e il Signore lo accompagna, incoraggia e sostiene, come un buon padre farebbe con un figlio. Una meraviglia!
Non è possibile qui raccontare tutta la sua storia, ma leggetela per conto vostro, se avete una Bibbia, nei capitoli 6-8 del Libro dei Giudici. Sembra un romanzo d’avventura e descrive Gedeone che, con la forza che aveva e che Dio gli dava, progredisce in maniera incredibile. (Se non avete una Bibbia, ordinatene una a Associazione Verità Evangelica, Via Pozzuoli 9, 00182 Roma. Ne abbiamo una in edizione popolare che costa solo € 1,50 + spese postali.)
La storia di Gedeone mi fa pensare a una mia amica, molto più giovane di me. Si è convertita al Signore quando aveva meno di 20 anni ed era timida al punto che, quando la guardavi, diventava rossa in faccia e voleva scappare. Ma aveva del potenziale, di cui neppure lei si rendeva conto. Ho cominciato a affidarle qualche piccolo incarico nella nostra chiesa. La sua risposta era sempre: “Non so se ci riesco, ma ci provo”. E ci riusciva!
Dio vede in tutti i suoi figli delle persone “forti e valorose” e vuole tirare fuori il nostro potenziale. Vuole usarci per fare la sua opera per mezzo di noi. Lui sa quello che fa.
Uno dei versetti della mia vita si trova nel Libro dell’Ecclesiaste: “Quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutto il cuore” (9:10). Si comincia di lì. E chissà dove si fa a finire!
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Quando Dio ti dice: “Muoviti!” che fai?
Un altro personaggio biblico che ha discusso e lottato alla grande con Dio è stato Mosè. La sua storia inizia nel libro dell’Esodo, il secondo libro dell’Antico Testamento e comincia in Egitto. Come mai un Ebreo era finIto in quel paese pagano?
Giacobbe, anni prima, vi si era stabilito con i figli e le loro famiglie. Erano circa una sessantina di persone. Ci era venuto, a causa di una carestia e perché invitato da uno dei suoi dodici figli, Giuseppe, il quale, attraverso varie vicissitudini, era diventato potente e addirittura vicere d’Egitto. Il Faraone regnante lo amava e lo rispettava, dato che proprio Giuseppe aveva agito con grande sapienza e salvato con i suoi consigli il paese dalle sofferenze della carestia.
Col passare degli anni, dopo che Giacobbe, Giuseppe, i suoi fratelli e il Faraone erano morti, gli Israeliti, in Egitto, si erano moltiplicati ed erano diventati molto numerosi. Il nuovo Faraone, sucessore di quello che regnava al tempo di Giuseppe, li temeva.
Andando per le spicce, aveva cercato di eliminarli. Prima aveva ordinato alle levatrici ebree di ammazzare i maschi che nascevano, e, dato che quelle gli disubbidirono, ordinò che i maschi fossero buttati nel Nilo. Ci avrebbero pensato i coccodrilli.
Le bambine potevano essere tenute in vita. Avrebbero sposato degli Egiziani e si sarebbero identificate col popolo. Gli adulti Ebrei, residenti in Egitto, furono tutti condannati ai lavori forzati e angariati. Ne morirono molti.
Proprio in quel periodo, in una famiglia, discendente da Levi, uno dei figli di Giacobbe, nacque un bellissimo bambino, che i genitori tennero nacosto e che poi fu adottato dalla figlia stessa di Faraone, che lo chiamò Mosè, e crebbe a corte fino circa all’età di 40 anni (i particolari di tutta la vicenda sono nel cap. 2 dell’Esodo e ben conosciuti).
A 40 anni Mosè decise di uscire dal palazzo reale e di andare a trovare i suoi fratelli e connazionali ebrei. Vide un Egiziano che maltrattava gli Ebrei, lo uccise e ne nascose il corpo. Il giorno dopo, vide due Ebrei che litigavano e si picchiavano e disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo compagno?”.
E quello: “Vuoi ammazzare anche me come l’Egiziano ieri?”.
Mosè ebbe una gran paura e fuggì, anche perché aveva saputo che il Faraone era venuto a conoscenza di ciò che aveva fatto e voleva farlo morire. Andò a vivere nel deserto di Madian, vi prese moglie e vi rimase per circa 40 anni. Curava le greggi di suo suocero, Ietro. Un gran cambiamento: dagli agi della corte d’Egitto era sceso alla cura delle pecore.
Intanto tutti gli Israeliti soffrivano e gemevano. Dio ne ebbe pietà e decise di liberarli. Lo avrebbe fatto proprio per mezzo di Mosè.
Un giorno, questo pascolava le pecore e vide un cespuglio che ardeva senza consumarsi. Andò a vedere cos’era e Dio gli parlò dal cespuglio che bruciava, dicendo: “Io sono l’Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe... Ho visto l’afflizione del mio popolo, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori... sono sceso per liberarlo... Or dunque va’, io ti mando dal Faraone, perché tu faccia uscire dall’Egitto il mio popolo, i figli d’Israele...”
E qui comincia il tira e molla.
Mosè: “Chi sono io per andare da Faraone?...”
Dio: “Va’ perché sarò con te”.
Mosè: “Quando sarò andato dai figli di Israele... e dirò: «L’Iddio dei vostri padri mi ha mandato», se essi dicono: «Qual è il suo nome?», che dirò?”.
Dio: “Dirai così ai figli d’Israele: «L’IO SONO (l’Eterno) mi ha mandato da voi»”.
Mosè: “Ma non mi crederanno!”.
A quel punto, Dio incoraggia Mosè facendogli compiere due miracoli e gli promette che ne avrebbe fatti degli altri. Ma Mosè non molla: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore... sono lento di parola e di lingua...”
Dio: “Va’, io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire!”.
Mosè: “Ti prego, Signore, manda il tuo messaggio con chi vorrai!” E intende: “Manda chi ti pare, ma non me!”
La collera del Signore allora esplode: “Non c’è forse Aronne, tuo fratello? Lui parla bene. Parlerà al posto tuo e dirà quello che gli dirai tu! Falla finita, prendi il bastone e muoviti!”.
Davanti a un Dio in collera, Mosè ubbidisce. Diventerà il condottiero, il liberatore, che porterà il popolo fino ai confini della Terra Promessa. E lo farà per altri 40 anni!
Quanto assomigliamo anche noi a Mosè nella sua reticenza!
Il Signore ci dice di essere i suoi testimoni e noi ci ritiriamo. Diciamo che siamo timidi e impreparati. Dobbiamo pensare alla famiglia e agli affari.
Dio dice che siamo i suoi ambasciatori e noi restiamo chiusi in casa. Troppo faticoso!
Afferma che dobbiamo sostenere la sua opera coi nostri beni e noi usiamo i nostri soldi per comprarci un paio di scarpe di cui potremmo fare a meno.
Ci dice di andare e noi puntiamo i piedi. Ci dice di star fermi e noi scappiamo. Di resistere al peccato e noi cadiamo.
E se poi perde la pazienza, e usa le maniere forti, siamo sorpresi e diciamo: “Ma che male ho fatto?”.
Meglio ubbidire!
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Giacobbe, anni prima, vi si era stabilito con i figli e le loro famiglie. Erano circa una sessantina di persone. Ci era venuto, a causa di una carestia e perché invitato da uno dei suoi dodici figli, Giuseppe, il quale, attraverso varie vicissitudini, era diventato potente e addirittura vicere d’Egitto. Il Faraone regnante lo amava e lo rispettava, dato che proprio Giuseppe aveva agito con grande sapienza e salvato con i suoi consigli il paese dalle sofferenze della carestia.
Col passare degli anni, dopo che Giacobbe, Giuseppe, i suoi fratelli e il Faraone erano morti, gli Israeliti, in Egitto, si erano moltiplicati ed erano diventati molto numerosi. Il nuovo Faraone, sucessore di quello che regnava al tempo di Giuseppe, li temeva.
Andando per le spicce, aveva cercato di eliminarli. Prima aveva ordinato alle levatrici ebree di ammazzare i maschi che nascevano, e, dato che quelle gli disubbidirono, ordinò che i maschi fossero buttati nel Nilo. Ci avrebbero pensato i coccodrilli.
Le bambine potevano essere tenute in vita. Avrebbero sposato degli Egiziani e si sarebbero identificate col popolo. Gli adulti Ebrei, residenti in Egitto, furono tutti condannati ai lavori forzati e angariati. Ne morirono molti.
Proprio in quel periodo, in una famiglia, discendente da Levi, uno dei figli di Giacobbe, nacque un bellissimo bambino, che i genitori tennero nacosto e che poi fu adottato dalla figlia stessa di Faraone, che lo chiamò Mosè, e crebbe a corte fino circa all’età di 40 anni (i particolari di tutta la vicenda sono nel cap. 2 dell’Esodo e ben conosciuti).
A 40 anni Mosè decise di uscire dal palazzo reale e di andare a trovare i suoi fratelli e connazionali ebrei. Vide un Egiziano che maltrattava gli Ebrei, lo uccise e ne nascose il corpo. Il giorno dopo, vide due Ebrei che litigavano e si picchiavano e disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo compagno?”.
E quello: “Vuoi ammazzare anche me come l’Egiziano ieri?”.
Mosè ebbe una gran paura e fuggì, anche perché aveva saputo che il Faraone era venuto a conoscenza di ciò che aveva fatto e voleva farlo morire. Andò a vivere nel deserto di Madian, vi prese moglie e vi rimase per circa 40 anni. Curava le greggi di suo suocero, Ietro. Un gran cambiamento: dagli agi della corte d’Egitto era sceso alla cura delle pecore.
Intanto tutti gli Israeliti soffrivano e gemevano. Dio ne ebbe pietà e decise di liberarli. Lo avrebbe fatto proprio per mezzo di Mosè.
Un giorno, questo pascolava le pecore e vide un cespuglio che ardeva senza consumarsi. Andò a vedere cos’era e Dio gli parlò dal cespuglio che bruciava, dicendo: “Io sono l’Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe... Ho visto l’afflizione del mio popolo, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori... sono sceso per liberarlo... Or dunque va’, io ti mando dal Faraone, perché tu faccia uscire dall’Egitto il mio popolo, i figli d’Israele...”
E qui comincia il tira e molla.
Mosè: “Chi sono io per andare da Faraone?...”
Dio: “Va’ perché sarò con te”.
Mosè: “Quando sarò andato dai figli di Israele... e dirò: «L’Iddio dei vostri padri mi ha mandato», se essi dicono: «Qual è il suo nome?», che dirò?”.
Dio: “Dirai così ai figli d’Israele: «L’IO SONO (l’Eterno) mi ha mandato da voi»”.
Mosè: “Ma non mi crederanno!”.
A quel punto, Dio incoraggia Mosè facendogli compiere due miracoli e gli promette che ne avrebbe fatti degli altri. Ma Mosè non molla: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore... sono lento di parola e di lingua...”
Dio: “Va’, io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire!”.
Mosè: “Ti prego, Signore, manda il tuo messaggio con chi vorrai!” E intende: “Manda chi ti pare, ma non me!”
La collera del Signore allora esplode: “Non c’è forse Aronne, tuo fratello? Lui parla bene. Parlerà al posto tuo e dirà quello che gli dirai tu! Falla finita, prendi il bastone e muoviti!”.
Davanti a un Dio in collera, Mosè ubbidisce. Diventerà il condottiero, il liberatore, che porterà il popolo fino ai confini della Terra Promessa. E lo farà per altri 40 anni!
Quanto assomigliamo anche noi a Mosè nella sua reticenza!
Il Signore ci dice di essere i suoi testimoni e noi ci ritiriamo. Diciamo che siamo timidi e impreparati. Dobbiamo pensare alla famiglia e agli affari.
Dio dice che siamo i suoi ambasciatori e noi restiamo chiusi in casa. Troppo faticoso!
Afferma che dobbiamo sostenere la sua opera coi nostri beni e noi usiamo i nostri soldi per comprarci un paio di scarpe di cui potremmo fare a meno.
Ci dice di andare e noi puntiamo i piedi. Ci dice di star fermi e noi scappiamo. Di resistere al peccato e noi cadiamo.
E se poi perde la pazienza, e usa le maniere forti, siamo sorpresi e diciamo: “Ma che male ho fatto?”.
Meglio ubbidire!
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Azzoppato, ma salvato
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Siamo sempre nell’Antico Testamento e parliamo di Giacobbe.
Era figlio di Isacco, il quale era nato miracolosamente quando i suoi genitori, Abramo e Sara, erano vecchi e non potevano più avere dei bambini.
Isacco era un uomo di pace. Aveva sposato l’amore della sua vita, una donna molto bella e intraprendente, Rebecca. Dopo vent’anni di matrimonio erano nati due gemelli: Esaù e Giacobbe. Come non dovrebbe succedere, ma a volte succede, Esaù era il favorito del padre, mentre Giacobbe era il cocchino della mamma.
Esaù amava andare a caccia ed era forte e peloso fin dalla nascita, un vero maschio. A Giacobbe era stato dato alla nascita un nome che significa “soppiantatore, colui che prende il posto di un altro”, probabilmente perché, uscendo dal corpo della madre, stringeva con la manina il calcagno del fratello, come per prenderne il posto.
Esaù era diventato un uomo che lavorava nei campi, mentre Giacobbe preferiva stare tranquillo vicino alle tende con la mamma (pur essendo ebreo, si comportava da italiano e mammone!).
A Rebecca, prima che i gemelli nascessero, Dio aveva predetto che Esaù, il maggiore, avrebbe servito il fratello minore, Giacobbe (Genesi 25:23).
Forse lei lo aveva detto a Giacobbe, ma non sembra che Isacco lo sapesse, o forse lo aveva dimenticato. In ogni modo, Giacobbe, che oltre che mammone era un tipo sveglio e traffichino, un giorno, approfittando del fatto che Esaù aveva una fame da lupo e avrebbe dato qualsiasi cosa per del cibo, gli propose di barattare con lui il diritto alla primogenitura per un bel piatto di minestra di lenticchie. Non fu solo una bravata o uno scherzo fra fratelli, come quando si scambano le figurine, ma un vero patto.
La Lettera agli Ebrei afferma: “Nessuno sia fornicatore o profano come Esaù che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura. Infatti sapete che anche più tardi, quando volle ereditare la benedizione, fu respinto, sebbene la richiedesse con lacrime, perché non ci fu ravvedimento in lui” (12:16,17).
Passa del tempo e Rebecca sente Isacco, che era ormai molto vecchio e cieco, mentre dice a Esaù di preparargli una buona pietanza, dopo di che, lo avrebbe benedetto, per ufficializzare la sua posizione di erede primogenito. Rebecca passa al contrattacco e, insieme con Giacobbe, imbastisce uno stratagemma per ingannare il padre. Una brutta storia di bugie e di inganni che finisce con Giacobbe che riceve la benedizione, ma che deve fuggire dalle ire del fratello, con Isacco ingannato e con Rebecca che è costretta a separarsi dal figlio prediletto, che non rivedrà più. Se avessero lasciato che Dio mandasse ad effetto i suoi piani, forse avrebbero evitato molti problemi. Chi può sapere?
Giacobbe fugge, ha paura, va a abitare con un zio, abbastanza disonesto pure lui, che lo sfrutta e che lui inganna. Poi prende in moglie due figlie dello zio, le quali vivono una vita di ripicche e gelosie reciproche. Tutta questa storia, e altri particolari, si trovano nella Genesi, nei capitoli 27-31. Non è un racconto ultra-edificante.
Finalmente Giacobbe decide di tornare da suo padre, con servi, mogli e figli, armenti e ricchezze. Imbastisce una riconciliazione con suo fratello, ma è terrorizzato lo stesso. Invoca Dio, ma le sue parole sono un misto di timore di Dio, paura, angoscia e rimorso.
Una sera rimane solo sulla riva di un torrente. La Genesi (cap. 32) racconta che un “uomo” lottò con lui tutta la notte. Era Dio stesso che voleva fare di lui un uomo nuovo, diverso. Probabilmente in quella lotta fece rivivere a Giacobbe tutti i suoi imbrogli, le sue bugie, i suoi sotterfugi. Giacobbe resiste (quanto ci assomiglia!), ma Dio insiste e finalmente lo colpisce a un fianco così forte da renderlo sciancato per la vita (se non capisci con le buone, Dio ti parla con le cattive).
Allo spuntare dell’alba, Dio sta per allontanarsi. E Giacobbe dice: “Non ti lascerò andare, finché tu non mi abbia benedetto”. Aveva capito che quell’uomo era speciale.
Dio gli chiede: “Come ti chiami?”.
“Giacobbe.”
In quel nome c’era tutta la radiografia del carattere e della vita di Giacobbe e Dio lo ha portato al punto di rendersi veramente conto che era quello che il suo nome diceva: un usurpatore e un imbroglione. Se non ammettiamo di essere peccatori perduti, non possiamo avere armonia con Dio.
Dio allora gli disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe (soppiantatore), ma Israele (Dio lotta) perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. La vittoria spirituale sta nella resa.
“E tu come ti chiami?” chiede Giacobbe.
Dio non gli risponde, ma lo benedice. Giacobbe finalmente capisce e dà un nuovo nome a quel luogo. Lo chiama Peniel, che significa “faccia di Dio” e spiega: “Ho visto Dio a faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata”.
Il racconto ha un gran finale, come in un film di una volta, quando il bene trionfava sulla cattiveria: “Il sole si levò quando ebbe lasciato Peniel”.
Per Giacobbe, cominciava una nuova vita, anche se zoppicava. Il peccato lascia sempre il segno. Ma è meglio vivere da zoppi, che passare l’eternità nell’inferno da dritti.
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Siamo sempre nell’Antico Testamento e parliamo di Giacobbe.
Era figlio di Isacco, il quale era nato miracolosamente quando i suoi genitori, Abramo e Sara, erano vecchi e non potevano più avere dei bambini.
Isacco era un uomo di pace. Aveva sposato l’amore della sua vita, una donna molto bella e intraprendente, Rebecca. Dopo vent’anni di matrimonio erano nati due gemelli: Esaù e Giacobbe. Come non dovrebbe succedere, ma a volte succede, Esaù era il favorito del padre, mentre Giacobbe era il cocchino della mamma.
Esaù amava andare a caccia ed era forte e peloso fin dalla nascita, un vero maschio. A Giacobbe era stato dato alla nascita un nome che significa “soppiantatore, colui che prende il posto di un altro”, probabilmente perché, uscendo dal corpo della madre, stringeva con la manina il calcagno del fratello, come per prenderne il posto.
Esaù era diventato un uomo che lavorava nei campi, mentre Giacobbe preferiva stare tranquillo vicino alle tende con la mamma (pur essendo ebreo, si comportava da italiano e mammone!).
A Rebecca, prima che i gemelli nascessero, Dio aveva predetto che Esaù, il maggiore, avrebbe servito il fratello minore, Giacobbe (Genesi 25:23).
Forse lei lo aveva detto a Giacobbe, ma non sembra che Isacco lo sapesse, o forse lo aveva dimenticato. In ogni modo, Giacobbe, che oltre che mammone era un tipo sveglio e traffichino, un giorno, approfittando del fatto che Esaù aveva una fame da lupo e avrebbe dato qualsiasi cosa per del cibo, gli propose di barattare con lui il diritto alla primogenitura per un bel piatto di minestra di lenticchie. Non fu solo una bravata o uno scherzo fra fratelli, come quando si scambano le figurine, ma un vero patto.
La Lettera agli Ebrei afferma: “Nessuno sia fornicatore o profano come Esaù che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura. Infatti sapete che anche più tardi, quando volle ereditare la benedizione, fu respinto, sebbene la richiedesse con lacrime, perché non ci fu ravvedimento in lui” (12:16,17).
Passa del tempo e Rebecca sente Isacco, che era ormai molto vecchio e cieco, mentre dice a Esaù di preparargli una buona pietanza, dopo di che, lo avrebbe benedetto, per ufficializzare la sua posizione di erede primogenito. Rebecca passa al contrattacco e, insieme con Giacobbe, imbastisce uno stratagemma per ingannare il padre. Una brutta storia di bugie e di inganni che finisce con Giacobbe che riceve la benedizione, ma che deve fuggire dalle ire del fratello, con Isacco ingannato e con Rebecca che è costretta a separarsi dal figlio prediletto, che non rivedrà più. Se avessero lasciato che Dio mandasse ad effetto i suoi piani, forse avrebbero evitato molti problemi. Chi può sapere?
Giacobbe fugge, ha paura, va a abitare con un zio, abbastanza disonesto pure lui, che lo sfrutta e che lui inganna. Poi prende in moglie due figlie dello zio, le quali vivono una vita di ripicche e gelosie reciproche. Tutta questa storia, e altri particolari, si trovano nella Genesi, nei capitoli 27-31. Non è un racconto ultra-edificante.
Finalmente Giacobbe decide di tornare da suo padre, con servi, mogli e figli, armenti e ricchezze. Imbastisce una riconciliazione con suo fratello, ma è terrorizzato lo stesso. Invoca Dio, ma le sue parole sono un misto di timore di Dio, paura, angoscia e rimorso.
Una sera rimane solo sulla riva di un torrente. La Genesi (cap. 32) racconta che un “uomo” lottò con lui tutta la notte. Era Dio stesso che voleva fare di lui un uomo nuovo, diverso. Probabilmente in quella lotta fece rivivere a Giacobbe tutti i suoi imbrogli, le sue bugie, i suoi sotterfugi. Giacobbe resiste (quanto ci assomiglia!), ma Dio insiste e finalmente lo colpisce a un fianco così forte da renderlo sciancato per la vita (se non capisci con le buone, Dio ti parla con le cattive).
Allo spuntare dell’alba, Dio sta per allontanarsi. E Giacobbe dice: “Non ti lascerò andare, finché tu non mi abbia benedetto”. Aveva capito che quell’uomo era speciale.
Dio gli chiede: “Come ti chiami?”.
“Giacobbe.”
In quel nome c’era tutta la radiografia del carattere e della vita di Giacobbe e Dio lo ha portato al punto di rendersi veramente conto che era quello che il suo nome diceva: un usurpatore e un imbroglione. Se non ammettiamo di essere peccatori perduti, non possiamo avere armonia con Dio.
Dio allora gli disse: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe (soppiantatore), ma Israele (Dio lotta) perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. La vittoria spirituale sta nella resa.
“E tu come ti chiami?” chiede Giacobbe.
Dio non gli risponde, ma lo benedice. Giacobbe finalmente capisce e dà un nuovo nome a quel luogo. Lo chiama Peniel, che significa “faccia di Dio” e spiega: “Ho visto Dio a faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata”.
Il racconto ha un gran finale, come in un film di una volta, quando il bene trionfava sulla cattiveria: “Il sole si levò quando ebbe lasciato Peniel”.
Per Giacobbe, cominciava una nuova vita, anche se zoppicava. Il peccato lascia sempre il segno. Ma è meglio vivere da zoppi, che passare l’eternità nell’inferno da dritti.
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Se ce ne fossero...
Nella Bibbia sono raccontate le storie di vari uomini che conoscevano e amavano Dio. Non erano né perfetti né infallibili, hanno avuto i loro alti e bassi, le loro vittorie e le loro debolezze, esattamente come noi.
Ci potranno insegnare molto, dato che, come loro, anche noi pecchiamo, dubitiamo e, a volte, lottiamo contro quello che Dio ci chiede. Le loro esperienze ci aiuteranno. Scopriremo come Dio li ha aiutati e usati e come può fare lo stesso con noi.
Cominciamo con Abramo.
Egli viveva a Ur, in Caldea, e aveva 75 anni quando Dio lo chiamò a uscire dal suo paese e a dirigersi verso la terra di Canaan, che sarebbe diventata la sua dimora e la dimora del popolo ebreo che sarebbe disceso da lui. Ubbidì a Dio senza esitazione e partì con sua moglie Sara e con dei parenti, fra cui un nipote Lot, senza saper esattamente dove Dio lo avrebbe mandato. La sua lunga e bella storia si trova nella Genesi, il primo libro della Bibbia.
La terra di Canaan era fertile e Lot e Abramo divennero ricchi e ebbero molto bestiame. A un certo punto, il territorio divenne piuttosto stretto e i loro pastori che curavano le gregge e le mandrie cominciarono a litigare.
“Questo posto è nostro, ci siamo arrivati prima noi...” “Ma le nostre pecore sono più numerose...”, “Noi lavoriamo per Abramo che è più importante di Lot...”
Abramo era un uomo di pace e disse a Lot: “Non è necessario litigare. Separiamoci. C’è posto per tutti. Se tu vai a destra io andrò a sinistra o viceversa. Scegli dove vuoi andare e non ci saranno contese”.
Lot pensò che l’dea era buona e scelse di andare verso una pianura ricca, fertile e piacevole, dove sorgevano anche le città di Sodoma e Gomorra, che, secondo quanto ne dice la Bibbia erano abitate da “gente scellerata”. Abramo rimase nella zona più montuosa.
Lot si mise in vari guai e si trovò coinvolto in una guerra fra vari re della zona e fu fatto prigioniero. Abramo andò a liberarlo e riportò una bella vittoria.
Quando Abramo aveva quasi cento anni, fu visitato da tre angeli, che avevano le sembianze di uomini. Abramo li accolse con generosa ospitalità orientale, e quelli gli dissero che, entro un anno, sua moglie Sara avrebbe avuto un bambino, l’erede tanto desiderato, sebbene fosse vecchia. La grande promessa di Dio che Abramo avrebbe avuto una progenie numerosa come le stelle del cielo si sarebbe finalmente avverata!
Quando si congedarono, Abramo accompagnò quegli uomini mentre si avviavano verso Sodoma. A quel punto, Dio rivelò a Abramo che avrebbe distrutto Sodoma e Gomorra, a causa del grave peccato dei loro abitanti. Il pensiero di Abramo corse a Lot.
“Farai tu perire il giusto insieme con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città; davvero farai perire anche quelli? Non perdonerai a quel luogo per cinquanta giusti che vi sono? Non sia mai che tu faccia una cosa simile!” disse Abramo rivolgendosi a Dio.
Dio gli rispose: “Se trovo nella città di Sodoma cinquanta giusti, perdonerò a tutto il luogo per amore di loro”.
Abramo insiste: “Forse ce ne saranno quarantacinque...”
E Dio: “Se ce ne saranno quarantacinque non lo farò”.
Abramo continuò: “Se ce ne fossero quaranta... trenta... venti...dieci...”
Dio dà sempre la stessa risposta: “ Se ci sono, non lo farò”. A quel punto, l‘intercessione di Abramo si ferma e Abramo torna a casa.
Se avesse continuato a pregare fino a dire: “Se ce ne fosse uno...” come sarebbe andata a finire? Le città peccaminose sarebbero state risparmiate? Un giusto, in realtà, c’era: Lot e Dio lo risparmiò con la sua famiglia.
Il giudizio su Sodoma e Gomorra, invece, fu terribile. La Bibbia racconta: “Abramo si alzò la mattina presto... guardò verso Sodoma e Gomorra e verso tutta la regione della pianura, ed ecco vide un fumo che saliva dalla terra, come il fumo di una fornace” (Genesi 19:27). Le città e i suoi abitanti furono distrutte col fuoco e lo zolfo.
Abramo avrebbe dovuto continuare a pregare? A me pare di sì.
Il peccato di quelle città lo conosciamo bene. Oggi è rispettato è accettato da molti. Ma la valutazione di Dio al riguardo è molto chiara nella Bibbia (Lettera di Paolo ai Romani, cap.1). e non è cambiata. È una Parola eterna.
Abramo ha pregato per Sodoma e Gomorra e, a un certo punto, si è fermato. Forse si è scoraggiato e non ha voluto più annoiare il Signore. Noi vogliamo fare diversamente e continuare a intercedere per chi non vive secondo il disegno di Dio.
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Ci potranno insegnare molto, dato che, come loro, anche noi pecchiamo, dubitiamo e, a volte, lottiamo contro quello che Dio ci chiede. Le loro esperienze ci aiuteranno. Scopriremo come Dio li ha aiutati e usati e come può fare lo stesso con noi.
Cominciamo con Abramo.
Egli viveva a Ur, in Caldea, e aveva 75 anni quando Dio lo chiamò a uscire dal suo paese e a dirigersi verso la terra di Canaan, che sarebbe diventata la sua dimora e la dimora del popolo ebreo che sarebbe disceso da lui. Ubbidì a Dio senza esitazione e partì con sua moglie Sara e con dei parenti, fra cui un nipote Lot, senza saper esattamente dove Dio lo avrebbe mandato. La sua lunga e bella storia si trova nella Genesi, il primo libro della Bibbia.
La terra di Canaan era fertile e Lot e Abramo divennero ricchi e ebbero molto bestiame. A un certo punto, il territorio divenne piuttosto stretto e i loro pastori che curavano le gregge e le mandrie cominciarono a litigare.
“Questo posto è nostro, ci siamo arrivati prima noi...” “Ma le nostre pecore sono più numerose...”, “Noi lavoriamo per Abramo che è più importante di Lot...”
Abramo era un uomo di pace e disse a Lot: “Non è necessario litigare. Separiamoci. C’è posto per tutti. Se tu vai a destra io andrò a sinistra o viceversa. Scegli dove vuoi andare e non ci saranno contese”.
Lot pensò che l’dea era buona e scelse di andare verso una pianura ricca, fertile e piacevole, dove sorgevano anche le città di Sodoma e Gomorra, che, secondo quanto ne dice la Bibbia erano abitate da “gente scellerata”. Abramo rimase nella zona più montuosa.
Lot si mise in vari guai e si trovò coinvolto in una guerra fra vari re della zona e fu fatto prigioniero. Abramo andò a liberarlo e riportò una bella vittoria.
Quando Abramo aveva quasi cento anni, fu visitato da tre angeli, che avevano le sembianze di uomini. Abramo li accolse con generosa ospitalità orientale, e quelli gli dissero che, entro un anno, sua moglie Sara avrebbe avuto un bambino, l’erede tanto desiderato, sebbene fosse vecchia. La grande promessa di Dio che Abramo avrebbe avuto una progenie numerosa come le stelle del cielo si sarebbe finalmente avverata!
Quando si congedarono, Abramo accompagnò quegli uomini mentre si avviavano verso Sodoma. A quel punto, Dio rivelò a Abramo che avrebbe distrutto Sodoma e Gomorra, a causa del grave peccato dei loro abitanti. Il pensiero di Abramo corse a Lot.
“Farai tu perire il giusto insieme con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città; davvero farai perire anche quelli? Non perdonerai a quel luogo per cinquanta giusti che vi sono? Non sia mai che tu faccia una cosa simile!” disse Abramo rivolgendosi a Dio.
Dio gli rispose: “Se trovo nella città di Sodoma cinquanta giusti, perdonerò a tutto il luogo per amore di loro”.
Abramo insiste: “Forse ce ne saranno quarantacinque...”
E Dio: “Se ce ne saranno quarantacinque non lo farò”.
Abramo continuò: “Se ce ne fossero quaranta... trenta... venti...dieci...”
Dio dà sempre la stessa risposta: “ Se ci sono, non lo farò”. A quel punto, l‘intercessione di Abramo si ferma e Abramo torna a casa.
Se avesse continuato a pregare fino a dire: “Se ce ne fosse uno...” come sarebbe andata a finire? Le città peccaminose sarebbero state risparmiate? Un giusto, in realtà, c’era: Lot e Dio lo risparmiò con la sua famiglia.
Il giudizio su Sodoma e Gomorra, invece, fu terribile. La Bibbia racconta: “Abramo si alzò la mattina presto... guardò verso Sodoma e Gomorra e verso tutta la regione della pianura, ed ecco vide un fumo che saliva dalla terra, come il fumo di una fornace” (Genesi 19:27). Le città e i suoi abitanti furono distrutte col fuoco e lo zolfo.
Abramo avrebbe dovuto continuare a pregare? A me pare di sì.
Il peccato di quelle città lo conosciamo bene. Oggi è rispettato è accettato da molti. Ma la valutazione di Dio al riguardo è molto chiara nella Bibbia (Lettera di Paolo ai Romani, cap.1). e non è cambiata. È una Parola eterna.
Abramo ha pregato per Sodoma e Gomorra e, a un certo punto, si è fermato. Forse si è scoraggiato e non ha voluto più annoiare il Signore. Noi vogliamo fare diversamente e continuare a intercedere per chi non vive secondo il disegno di Dio.
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