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Un modo perfetto per rovinare l’atmosfera di un pasto è iniziare una discussione a tavola, per risolvere dei problemi. Non mi riferisco a problemi come l’inquinamento mondiale o le conseguenze dell’eruzione del vulcano in Islanda. Quelli sono problemi che sappiamo risolvere tutti e in cui è facile trovare un accordo. Esattamente come quando tutti ci caliamo nel ruolo di commissari tecnici e parliamo delle partite o delle scorrettezze degli arbitri. Oppure, in veste di assessori comunali, ci sentiamo chiamati a risolvere i problemi del traffico nel centro di città come Roma o Milano. Queste sono cose da niente, soprattutto se tutti tifiamo per la stessa squadra, e se tutti non dobbiamo prendere troppi metro e bus.
Parlo piuttosto di discussioni su cose di famiglia. Tipo: la camera lasciata in disordine, la nota sul diario che dice che i temi del Sergio sono “slegati e scorretti” o il lavandino in cui sono stati lasciati dei capelli (un attento esame del DNA ha stablito che sono della Zia Cloe, che è venuta a abitare da noi perché è rimasta vedova). In questi casi, le cose sono veramente serie e si diventa tutti eccitati e belligeranti. E la gioia del pasto va a farsi benedire.
A volte, succede anche, a mio marito e a me, di essere invitati da qualche famiglia, che sembra convinta che fra un piatto di pasta e due fettine panate, possiamo sistemare il figlio adolescente ribelle, la figlia che vuole andare in discoteca e il padre che è troppo preso dal lavoro. È sempre una situaizione imbarazzante. Ne vengono fuori discussioni, musi e battibecchi assurdi e, soprattutto, inutili, per i quali noi, estranei, non possiamo fare assolutamente niente.
A tavola, bisognerebbe andarci animati da spiriti buoni. Pronti a complimentare la cuoca, desiderosi di parlare e ascoltare, senza criticare e senza tirare fuori soggetti delicati e scabrosi. C’è sempre qualcosa da raccontare. Basta pensarci.
Quando poi ci sono dei problemi, che riguardano tutti, si affrontano nella maniera giusta.
A casa nostra, è successo che, alla fine del pasto, mio marito abbia dovuto parlare di qualche situazione per la quale era importante pregare. Che si dovesse parlare di qualche decisione seria e si voleva sentire parere dei figli, che si dovessere decidere su orari da osservare o altre responsabilità.
Erano momenti importanti in cui tutti imparavamo a ascoltare, a cedere o a trovare compromessi e in cui qualcuno doveva anche abbozzare, come si dice a Roma.
Ricordo un caso, in cui mio marito ha dovuto comunicare ai figli che i nostri soldi erano pochi e che bisognava chiedere al Signore di provvedere in modo straordinario. D’altra parte, dovevamo ricordare di spegnere le luci quando uscivamo da una stanza, rinunciare alla carne e mangiare più fagioli, non comprare cose inutili, e forse, rinunciare alle vacanze.
I ragazzi non erano abituati a un discorso così serio. Perciò le loro preghiere, a fine pasto, furono più ferventi del solito.
Dopo qualche giorno, al ritorno dal lavoro, mio marito poté annunciare: “Non ci potete credere: ma abbiamo avuto, nella posta, un bel dono che ci aiuterà a arrivare alla fine del mese e forse anche un po’ più in là!”.
Gioia generale. Solo un figlio è rimasto serio e ci ha guardati tutti un po’ meravigliato.
“Non sei contento?”
“Certo che sono contento. Ma avevamo pregato, no?”
Dal più piccolo era venta una lezione di vera fede. Che problema c’era, quando si prega?
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Talis pater, talis filius
“Ma perché gridate così forte e litigate?” ha chiesto una mamma ai suoi bambini. “Lo sapete che non si deve fare!”
“Mamma, non litighiamo” è stata la risposta. “Giochiamo solo a papà e mamma!”
Roba da fare allibire. Non so se questa storia sia vera o se sia solo una paraboletta per insegnare una verità importante. Ma è un fatto che mamme che gridano hanno figli che gridano. Papà che sono scortesi e brontolano hanno figli scortesi e mai contenti. Nonni che criticano hanno nipoti che praticano la maldicenza.
Quello che siamo lo impariamo a casa e quello che diventiamo è il frutto di quello che abbiamo osservato per una vita. I nostri figli imparano da noi a mangiare con educazione, a trattare le persone con civiltà. A sorridere, a amare il lavoro e a rispettare le autorità da noi. E anche imparano a criticare, a sospettare il male, a essere sgarbati da quello che ci vedono fare.
Per esempio, mio marito non arriva mai in ritardo quando lo chiamo a tavola. Non lo fa solo perché il cibo gli piace caldo, ma perché vuole essere cortese verso me che lo ho preparato.
Mi sono trovata in certe case, in cui al momento del pasto, padre e figli trovano tutti qualcosa di impellente da fare e arrivano in ritardo. Intanto la pasta si incolla, il riso si impappola e la mamma si spazientisce e imbarazza. Spesso si scusa dicendo: “È una brutta abitudine e non so da chi l’hanno presa”. Ma, conoscendolo, è chiaro che l’hanno presa dal padre.
È facile rilassarsi a casa propria, perché “si è in famiglia”. Ci si levano le scarpe e si infilano le ciabatte. Ci si mette comodi. Ci si lascia andare un po’.
Ma è brutto approfittarne. Certi mariti dicono alla moglie: “Non ti preoccupare, quando abbiamo ospiti, so come comportarmi e mangiare come si deve! Ma se siamo solo fra noi...”
Ma è giusto trattare la moglie con meno rispetto degli ospiti? O permettere ai figli di rivolgersi con arroganza alla mamma? O farsi la barba solo quando si deve fare buona figura?
La cortesia si impara da piccoli e nelle piccole cose: tenere la porta aperta per qualcuno che deve entrare, lasciare pulito il lavandino dopo che si sono lavate le mani, appendendo con cura l’asciugamani, ripiegando il tovagliolo quando si è finito. E senza buttarsi sul pezzo di torta più grosso.
Non servono molte parole. Si insegna con l’esempio. “Tuo papà deve essere un uomo molto gentile” ha detto una ragazza a uno dei nostri figli, che non aveva fatto niente di eccezionale, ma le aveva solo tenuto aperta la porta della macchina, per farla salire. E la prossima osservazione era anche più che significativa: “Non ho mai visto mio padre fare una cosa simile”.
Sia che i figli lo dicano o stiano zitti, sembrino distratti o attenti, non c’è dubbio che siamo sempre sotto lo scrutinio degli occhi inquisitori dei piccoli. (O accusatori, se sono gli occhi degli adolescenti.)
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“Mamma, non litighiamo” è stata la risposta. “Giochiamo solo a papà e mamma!”
Roba da fare allibire. Non so se questa storia sia vera o se sia solo una paraboletta per insegnare una verità importante. Ma è un fatto che mamme che gridano hanno figli che gridano. Papà che sono scortesi e brontolano hanno figli scortesi e mai contenti. Nonni che criticano hanno nipoti che praticano la maldicenza.
Quello che siamo lo impariamo a casa e quello che diventiamo è il frutto di quello che abbiamo osservato per una vita. I nostri figli imparano da noi a mangiare con educazione, a trattare le persone con civiltà. A sorridere, a amare il lavoro e a rispettare le autorità da noi. E anche imparano a criticare, a sospettare il male, a essere sgarbati da quello che ci vedono fare.
Per esempio, mio marito non arriva mai in ritardo quando lo chiamo a tavola. Non lo fa solo perché il cibo gli piace caldo, ma perché vuole essere cortese verso me che lo ho preparato.
Mi sono trovata in certe case, in cui al momento del pasto, padre e figli trovano tutti qualcosa di impellente da fare e arrivano in ritardo. Intanto la pasta si incolla, il riso si impappola e la mamma si spazientisce e imbarazza. Spesso si scusa dicendo: “È una brutta abitudine e non so da chi l’hanno presa”. Ma, conoscendolo, è chiaro che l’hanno presa dal padre.
È facile rilassarsi a casa propria, perché “si è in famiglia”. Ci si levano le scarpe e si infilano le ciabatte. Ci si mette comodi. Ci si lascia andare un po’.
Ma è brutto approfittarne. Certi mariti dicono alla moglie: “Non ti preoccupare, quando abbiamo ospiti, so come comportarmi e mangiare come si deve! Ma se siamo solo fra noi...”
Ma è giusto trattare la moglie con meno rispetto degli ospiti? O permettere ai figli di rivolgersi con arroganza alla mamma? O farsi la barba solo quando si deve fare buona figura?
La cortesia si impara da piccoli e nelle piccole cose: tenere la porta aperta per qualcuno che deve entrare, lasciare pulito il lavandino dopo che si sono lavate le mani, appendendo con cura l’asciugamani, ripiegando il tovagliolo quando si è finito. E senza buttarsi sul pezzo di torta più grosso.
Non servono molte parole. Si insegna con l’esempio. “Tuo papà deve essere un uomo molto gentile” ha detto una ragazza a uno dei nostri figli, che non aveva fatto niente di eccezionale, ma le aveva solo tenuto aperta la porta della macchina, per farla salire. E la prossima osservazione era anche più che significativa: “Non ho mai visto mio padre fare una cosa simile”.
Sia che i figli lo dicano o stiano zitti, sembrino distratti o attenti, non c’è dubbio che siamo sempre sotto lo scrutinio degli occhi inquisitori dei piccoli. (O accusatori, se sono gli occhi degli adolescenti.)
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Che ne pensate?
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Ho visitato la clinica in cui sono nati tre dei nostri figli. Allora, era tenuta da suore capacissime e gentilissime. Oggi le suore presenti sono vecchie e pochissime. “Mancano le vocazioni” si dice.
Anche nei nostri ambienti evangelici non sono molti i giovani che pensano a investire la loro vita in un servizio “a pieno tempo” per il Sgnore. Come mai?
Ho visitato la clinica in cui sono nati tre dei nostri figli. Allora, era tenuta da suore capacissime e gentilissime. Oggi le suore presenti sono vecchie e pochissime. “Mancano le vocazioni” si dice.
Anche nei nostri ambienti evangelici non sono molti i giovani che pensano a investire la loro vita in un servizio “a pieno tempo” per il Sgnore. Come mai?
Un professore di missioni ha elencato dieci ragioni per spiegare, secondo lui, questo fenomeno inquietante. Tu gli daresti ragione?
- Chi esercita un ministero spirituale non è più stimato come una volta, neanche dai credenti.
- I giovani desiderano una misura di sicurezza, mentre il servizio cristiano non la prevede, nel senso che comporta di solito sacrifici e rinunzie.
- Molti giovani non vogliono sottomettersi ad alcuna autorità, né umana né divina, ma è impossibile fare un buon lavoro spirituale agendo solo di testa propria.
- La società è molto frammentata. I giovani desiderano una specializzazione in cui esprimersi e pensano che i loro talenti saranno sciupati in un ministero spirituale.
- Il lavoro missionario è visto più come una professione umana e non come una chiamata divina. Perciò è valutato o respinto per motivi professionali.
- Molti si spaventano davanti a un impiego a lungo termine. Una volta dati a un lavoro spirituale, è difficile o impossibile rientrare in altre occupazioni.
- La mentalità secolarizzata ha invaso la chiesa. Perciò un servizio sociale sembra utile, mentre un servzio spirituale è considerato pittosto fuori della realtà.
- I giovani sono insicuri anche riguardo alla propria fede. I loro interrogativi superano le loro certezze.
- Molti giovani credenti hanno una fede più ereditata dai genitori credenti che non convinzioni proprie. Respingono perciò un impegno totale.
- Troppi ascoltano più i consigli di altri, le opinioni di genitori o amici, che non i comandamenti della Bibbia.
Vorrei sentire le vostre reazioni. Ciao!
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Ascoltare la campagna
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“Che ne dite se oggi ascoltassimo la campagna?” ho chiesto ai miei bambini quando erano alle elementari (i quattro erano molto vicini di età e avevano gli stessi interessi, per cui era facile proporre e fare delle cose insieme).
Mi hanno guardata senza capire.
“Voglio dire che ascoltiamo insieme della musica speciale. L’uomo che l’ha scritta ha cercato di imitare il canto degli uccelli, il rumore del vento, il rombo dei tuoni, il ruscello... Noi ascoltiamo e scopriamo quello che ci ha messo dentro... Va bene?”
L’idea piaceva e ci siamo seduti a ascoltare le prime note.
“Io sento un canarino!”
“Per me, era un merlo!”
“Io sento un cane...”
“Ma vai, è il cane del portiere!...”
Risate di tutti. “Ssssssssssss, ascoltate ancora!”
Io pensavo che avrebbero ascoltato con attenzione al massimo per cinque minuti e poi avrebbero detto che andavano a giocare; invece hanno ascoltato quasi fino alla fine e quando è arrivato il momento della tempesta hanno avuto il permesso di battere il tempo e accompagnare i tuoni coi pugni sul tavolo. Un gran finale.
A musica finita, uno ha detto: “Mamma, questa canzoncina mi è piaciuta!”
Meno male: era la Pastorale di Beethoven!
A me sembra importante che i bambini imparino a apprezzare la buona musica. Noi cercavamo di ascoltare della musica classica, a volume molto basso, durante i pasti. Lo avevamo visto fare a casa di alcuni amici, che ci avevano detto che quel tipo di musica aveva un effetto calmante sull’atmosfera della famiglia.
Ci era sembrata un’idea buona e ci abbiamo provato. Funzionava e permetteva di calmare la vivacità eccessiva e rendeva i pasti più rilassati e piacevoli.
Mi pare che oggi i ragazzi siano tanto irrequieti e poco concentrati anche perché ascoltano musica a volume eccesivo e tutta la loro cultura musicale è praticamente fatta di canzoni ritmate e senza una vera melodia o armonia. Sanno certo distinguere il suono di una batteria da quello di un tamburo, ma non distinguono un flauto da un clarinetto.
Perfino nelle nostre chiese evageliche, gli inni della fede, quelli con le melodie solenni o gioiosamente melodiche, si cantano molto meno. Ed è un peccato, anche perché il contenuto delle parole dei canti recenti è penosamente superficiale. Non per niente, Lutero ha affiancato un innario alla traduzione della Bibbia. Così i fedeli, forse ignoranti, se non addirittura analfabeti, imparavano la dottrina almeno cantando! Oggi si impara a ripetere la stessa frase quindici volte, come se il Signore fosse duro d’orecchi o lento a capire. Eppure Lui stesso ha detto di non usare “vane ripetizioni”....
Evidentemente oggi i gusti sono cambiati e un po’ tutto (la moda, l’arredamento, la pittura, la musica) rispecchia il disordine morale del mondo trasgressivo in cui viviamo. E, piano piano, molto di questo gusto si è insinuato anche nelle nostre riunoni di culto. Penso che sarebbe importante pensarci.
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“Che ne dite se oggi ascoltassimo la campagna?” ho chiesto ai miei bambini quando erano alle elementari (i quattro erano molto vicini di età e avevano gli stessi interessi, per cui era facile proporre e fare delle cose insieme).
Mi hanno guardata senza capire.
“Voglio dire che ascoltiamo insieme della musica speciale. L’uomo che l’ha scritta ha cercato di imitare il canto degli uccelli, il rumore del vento, il rombo dei tuoni, il ruscello... Noi ascoltiamo e scopriamo quello che ci ha messo dentro... Va bene?”
L’idea piaceva e ci siamo seduti a ascoltare le prime note.
“Io sento un canarino!”
“Per me, era un merlo!”
“Io sento un cane...”
“Ma vai, è il cane del portiere!...”
Risate di tutti. “Ssssssssssss, ascoltate ancora!”
Io pensavo che avrebbero ascoltato con attenzione al massimo per cinque minuti e poi avrebbero detto che andavano a giocare; invece hanno ascoltato quasi fino alla fine e quando è arrivato il momento della tempesta hanno avuto il permesso di battere il tempo e accompagnare i tuoni coi pugni sul tavolo. Un gran finale.
A musica finita, uno ha detto: “Mamma, questa canzoncina mi è piaciuta!”
Meno male: era la Pastorale di Beethoven!
A me sembra importante che i bambini imparino a apprezzare la buona musica. Noi cercavamo di ascoltare della musica classica, a volume molto basso, durante i pasti. Lo avevamo visto fare a casa di alcuni amici, che ci avevano detto che quel tipo di musica aveva un effetto calmante sull’atmosfera della famiglia.
Ci era sembrata un’idea buona e ci abbiamo provato. Funzionava e permetteva di calmare la vivacità eccessiva e rendeva i pasti più rilassati e piacevoli.
Mi pare che oggi i ragazzi siano tanto irrequieti e poco concentrati anche perché ascoltano musica a volume eccesivo e tutta la loro cultura musicale è praticamente fatta di canzoni ritmate e senza una vera melodia o armonia. Sanno certo distinguere il suono di una batteria da quello di un tamburo, ma non distinguono un flauto da un clarinetto.
Perfino nelle nostre chiese evageliche, gli inni della fede, quelli con le melodie solenni o gioiosamente melodiche, si cantano molto meno. Ed è un peccato, anche perché il contenuto delle parole dei canti recenti è penosamente superficiale. Non per niente, Lutero ha affiancato un innario alla traduzione della Bibbia. Così i fedeli, forse ignoranti, se non addirittura analfabeti, imparavano la dottrina almeno cantando! Oggi si impara a ripetere la stessa frase quindici volte, come se il Signore fosse duro d’orecchi o lento a capire. Eppure Lui stesso ha detto di non usare “vane ripetizioni”....
Evidentemente oggi i gusti sono cambiati e un po’ tutto (la moda, l’arredamento, la pittura, la musica) rispecchia il disordine morale del mondo trasgressivo in cui viviamo. E, piano piano, molto di questo gusto si è insinuato anche nelle nostre riunoni di culto. Penso che sarebbe importante pensarci.
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Acciaccate, ma utili
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In cucina ho alcune pentole che uso tutto il tempo e altre che non uso quasi mai. Tutte le donne sono così. Una mia amica aveva due padelle di ferro che pesavano quanto la morte e che lei portava anche in campeggio. Non poteva separarsene.
Le pentole e le padelle più usate, di solito, sono le meno belle, le più acciaccate. A volte, sembra che abbiano fatto la prima e la seconda guerra mondiale. Ma diventano le preferite, perché hanno l’impugnatura comoda, la grandezza che si adatta a cucinare certi cibi e la capienza perfetta. Sono come vecchie amiche di famiglia.
Se potessero parlare probabilmente direbbero: “Ma perché dobbiamo sempre fare tutto noi, quando ci sono tanti altri tegami e padelle lucide e quasi nuove che stanno solo lì a fare bella mostra? È possibile che la padrona non sappia che siamo stanche di essere scaldate, strusciate, grattate con la paglietta? Un po’ meno di attenzione non guasterebbe! “
Se non fossero pentole, e potessero parlare, assomiglierebbero a certi membri di chiesa, che si lamentano perché i giovani fanno poco e niente, perché devono esserci sempre loro in prima linea, nonostante la stanchezza e gli acciacchi dell’età.
È un fatto che, fra i suoi figli, sembra che anche il Signore goda nell’usare i più acciaccati e i meno appariscenti. Quelli fatti di materiali comuni e meno sofisticati. Roba che Lui può strofinare, strapazzare e sbattere un po’ qua e là. E che si lasciano usare.
Ma perché lo fa? Sa che su loro può contare, li sa maneggiare e sa che sono sempre pronti a servire, anche se, a volte, sono stanchi, a differenza di chi, bello e lustrato a festa, viene a trovarlo solo la domenica mattina e si allontana quando c’è il rischio di essere chiamato a fare qualcosa.
Perciò, il Signore sussurra al loro orecchio: “Io sono il vasaio e so esattamente quello che faccio e se vi uso più di altri ho i miei buoni motivi... Vi ricordate quel giorno, in cui mi avete detto di fare di voi quel che volevo? Ebbene, io vi ho presi in parola. Se vi strofino con la paglietta è perché voglio che siate sempre puliti e adatti al mio servizio. Se vi lavo nell’acqua bollente è perché così non avrete germi e impurità... Io userei qualsiasi altra pentola, ma molte non me ne danno il permesso...”
D’altra parte, “i credenti-pentolini-acciaccati e strusciati” ci resterebbero molto male se il Signore li buttasse in un canto e non li usasse più. Invece sanno che, quando avranno finito di servire, il Signore li prenderà con sé e se li terrà preziosi per tutta l’eternità. A quel punto, troverà altri pentolini pronti a essere usati.
Che tipo di pentolino sei? Spero che tu non sia del tipo tirato a lucido, che fa una bella figura, ma che serve a poco.
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In cucina ho alcune pentole che uso tutto il tempo e altre che non uso quasi mai. Tutte le donne sono così. Una mia amica aveva due padelle di ferro che pesavano quanto la morte e che lei portava anche in campeggio. Non poteva separarsene.
Le pentole e le padelle più usate, di solito, sono le meno belle, le più acciaccate. A volte, sembra che abbiano fatto la prima e la seconda guerra mondiale. Ma diventano le preferite, perché hanno l’impugnatura comoda, la grandezza che si adatta a cucinare certi cibi e la capienza perfetta. Sono come vecchie amiche di famiglia.
Se potessero parlare probabilmente direbbero: “Ma perché dobbiamo sempre fare tutto noi, quando ci sono tanti altri tegami e padelle lucide e quasi nuove che stanno solo lì a fare bella mostra? È possibile che la padrona non sappia che siamo stanche di essere scaldate, strusciate, grattate con la paglietta? Un po’ meno di attenzione non guasterebbe! “
Se non fossero pentole, e potessero parlare, assomiglierebbero a certi membri di chiesa, che si lamentano perché i giovani fanno poco e niente, perché devono esserci sempre loro in prima linea, nonostante la stanchezza e gli acciacchi dell’età.
È un fatto che, fra i suoi figli, sembra che anche il Signore goda nell’usare i più acciaccati e i meno appariscenti. Quelli fatti di materiali comuni e meno sofisticati. Roba che Lui può strofinare, strapazzare e sbattere un po’ qua e là. E che si lasciano usare.
Ma perché lo fa? Sa che su loro può contare, li sa maneggiare e sa che sono sempre pronti a servire, anche se, a volte, sono stanchi, a differenza di chi, bello e lustrato a festa, viene a trovarlo solo la domenica mattina e si allontana quando c’è il rischio di essere chiamato a fare qualcosa.
Perciò, il Signore sussurra al loro orecchio: “Io sono il vasaio e so esattamente quello che faccio e se vi uso più di altri ho i miei buoni motivi... Vi ricordate quel giorno, in cui mi avete detto di fare di voi quel che volevo? Ebbene, io vi ho presi in parola. Se vi strofino con la paglietta è perché voglio che siate sempre puliti e adatti al mio servizio. Se vi lavo nell’acqua bollente è perché così non avrete germi e impurità... Io userei qualsiasi altra pentola, ma molte non me ne danno il permesso...”
D’altra parte, “i credenti-pentolini-acciaccati e strusciati” ci resterebbero molto male se il Signore li buttasse in un canto e non li usasse più. Invece sanno che, quando avranno finito di servire, il Signore li prenderà con sé e se li terrà preziosi per tutta l’eternità. A quel punto, troverà altri pentolini pronti a essere usati.
Che tipo di pentolino sei? Spero che tu non sia del tipo tirato a lucido, che fa una bella figura, ma che serve a poco.
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5 cose... sciocche (ma non troppo)
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“Per fortificarmi il carattere mi sono abituato a fare ogni giorno due cose spiacevolissime: alzarmi la mattina e andare a letto la sera,” diceva Ernest Hemingway.
Io capisco perfettamente i sentimenti del bravo Ernest soprattutto per la prima parte. Anche se dicono che i vecchi trovano facile alzarsi presto, io faccio ancora fatica a mettere fuori i piedi da sotto le coperte e infilarmi le pantofole, per cominciare a funzionare.
Posso biasimare la pressione bassa, il lavoro arretrato che mi ha tenuta alzata la sera prima, ma se mi metto la mano sulla coscienza devo pronunciare una sentenza che non mi piace: la mia è pura pigrizia. Infatti, dieci o quindici minuti in più a letto non mi farebbero salire la pressione e non mi farebbero ricuperare il sonno arretrato. Mi farebbero solo piacere.
Ma, col passare degli anni, ho capito che le ore della mattina sono preziose e insostituibili.
“Per fortificarmi il carattere mi sono abituato a fare ogni giorno due cose spiacevolissime: alzarmi la mattina e andare a letto la sera,” diceva Ernest Hemingway.
Io capisco perfettamente i sentimenti del bravo Ernest soprattutto per la prima parte. Anche se dicono che i vecchi trovano facile alzarsi presto, io faccio ancora fatica a mettere fuori i piedi da sotto le coperte e infilarmi le pantofole, per cominciare a funzionare.
Posso biasimare la pressione bassa, il lavoro arretrato che mi ha tenuta alzata la sera prima, ma se mi metto la mano sulla coscienza devo pronunciare una sentenza che non mi piace: la mia è pura pigrizia. Infatti, dieci o quindici minuti in più a letto non mi farebbero salire la pressione e non mi farebbero ricuperare il sonno arretrato. Mi farebbero solo piacere.
Ma, col passare degli anni, ho capito che le ore della mattina sono preziose e insostituibili.
Mi servono per leggere la Bibbia e pregare in pace, prima che comincino altre distrazioni. Un tempo di raccoglimento e di meditazione della Parola di Dio, da il là a tutta la giornata. La Parola mi ammonisce, mi sprona e mi conforta e la preghiera della mattina intavola una conversazione col Signore che può continuare anche nel resto della giornata. Una lista di preghiera personale mi aiuta a ricordare i soggetti che mi stanno a cuore e mi aiuta a pregare con ordine.
La mattina presto, posso fare anche i piani per la giornata, ricordare cose da fare e sistemare le mie priorità.
A proposito di liste, cerco di seguire il consiglio di un uomo d’affari che, pare, sia stato un grande successo nella sua carriera. Scrivo, la sera, in ordine di importanza, cinque cose che intendo assolutamente fare il giorno dopo. Sarà un trucco psicologico, ma una lista mi aiuta e mi fa sentire organizzata. Tipo?
Eccone una, per esempio.
- Attaccare un certo bottone (detesto farlo, perciò è al primo posto).
- Smacchiare una macchia dal cuscino di una poltrona (sta lì da due settimane).
- Telefonare a....
- Ordinare il cassetto della cucina e pulirlo bene.
- Mettere il concime alle piante.
Che volete? Ognuno ha le sciocchezze sue. Voi avete certamente le vostre.
Io odio cucire, detesto mettere in ordine i cassetti e certe persone al telefono parlano a fiume, per cui sono un po’ reticente a chiamarle. Perciò la lista mi aiuta.
Per esempio, stasera dovrò scrivere al numero 1: rammendare un buco in un vecchio golf di mio marito. L’ho ricordato in questo momento.
Che volete, scrivere questo post mi piace da matti e non ho bisogno di metterlo in lista. Ma la vita è fatta anche di bottoni da attaccare e di cassetti da pulire. Ciao!
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Il quadro sarà completo
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In un quadro in casa nostra c’è la riproduzione della pittura di un certo V. Irolli, un impressionista. È intitolato “Verso la scuola”. Rappresenta un bambino, pensoso, che si avvia verso la scuola col cestino della merenda in mano.
Ce l’avevo in camera mia, quando ero bambina, e mi ricordo che quando i miei genitori me l’appesero al muro, mi dissero: “Guarda come è bello!” Io lo guardai e, onestamente, non capii che cosa rappresentasse.
Da bambina io non chiedevo mai spiegazioni e cercavo di trovarmele da sola (per esempio, avevo deciso che un maresciallo era una persona in mezzo al mare con uno “sciallo”, giallo per giunta!, e che il “pane condito” fosse un pane in cui era rimasto un pezzo del dito del panettiere), perciò mi mettevo davanti alla figura del bambino che andava a scuola, quasi col naso contro il vetro, per osservarla bene da vicino. Volevo capire perché era bella. Ma, da quella posizione, ci capivo ancora di meno: vedevo farfalle multicolori, mi sembrava di vedere dei fiori e degli insetti. Che confusione!
Finalmente, un giorno, guardando la figura da lontano, vidi la sagoma di un bimbo, col grembiule, come usava allora, un berrettino in testa e mi sembrò di avere fatto la scoperta del secolo: sì, era un bambino che andava a scuola e non era neppure troppo contento di andarci! Il quadro era bello!
Capii che i quadri si guardano meglio da lontano, soprattuto se sono usciti dal pennello di un impressionista. Da lontano si vede l’insieme e da vicino si notano solo i particolari, che, a volte, sembano pennellate o puntini di colore senza scopo.
Crescendo, ho imparato che nella vita succede un po’ la stessa cosa. I giorni, i mesi e gli anni passano e spesso ci sembrano monotoni, a volte senza senso e a volte delle vere e proprie macchie scure che imbrattano ogni cosa. Li viviamo uno dopo l’altro e ci sembra di combinare poco o niente di utile.
Però, se ci si volta indietro, si vede che molto di quello che abbiamo vissuto aveva un senso ed è stato utile.
Anche Dio vede le cose da lontano, conosce il principio e la fine, mette le sue pennellate nella nostra vita fin dal momento in cui siamo concepiti. Ha in mente tutto il quadro finito e lo dipinge a modo suo.
Un giorno ce lo mostrerà. Finito, completo, perfetto. Lo guarderemo con i “suoi” occhi e tutto prenderà un significato e un senso che anche noi comprenderemo.
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In un quadro in casa nostra c’è la riproduzione della pittura di un certo V. Irolli, un impressionista. È intitolato “Verso la scuola”. Rappresenta un bambino, pensoso, che si avvia verso la scuola col cestino della merenda in mano.
Ce l’avevo in camera mia, quando ero bambina, e mi ricordo che quando i miei genitori me l’appesero al muro, mi dissero: “Guarda come è bello!” Io lo guardai e, onestamente, non capii che cosa rappresentasse.
Da bambina io non chiedevo mai spiegazioni e cercavo di trovarmele da sola (per esempio, avevo deciso che un maresciallo era una persona in mezzo al mare con uno “sciallo”, giallo per giunta!, e che il “pane condito” fosse un pane in cui era rimasto un pezzo del dito del panettiere), perciò mi mettevo davanti alla figura del bambino che andava a scuola, quasi col naso contro il vetro, per osservarla bene da vicino. Volevo capire perché era bella. Ma, da quella posizione, ci capivo ancora di meno: vedevo farfalle multicolori, mi sembrava di vedere dei fiori e degli insetti. Che confusione!
Finalmente, un giorno, guardando la figura da lontano, vidi la sagoma di un bimbo, col grembiule, come usava allora, un berrettino in testa e mi sembrò di avere fatto la scoperta del secolo: sì, era un bambino che andava a scuola e non era neppure troppo contento di andarci! Il quadro era bello!
Capii che i quadri si guardano meglio da lontano, soprattuto se sono usciti dal pennello di un impressionista. Da lontano si vede l’insieme e da vicino si notano solo i particolari, che, a volte, sembano pennellate o puntini di colore senza scopo.
Crescendo, ho imparato che nella vita succede un po’ la stessa cosa. I giorni, i mesi e gli anni passano e spesso ci sembrano monotoni, a volte senza senso e a volte delle vere e proprie macchie scure che imbrattano ogni cosa. Li viviamo uno dopo l’altro e ci sembra di combinare poco o niente di utile.
Però, se ci si volta indietro, si vede che molto di quello che abbiamo vissuto aveva un senso ed è stato utile.
Anche Dio vede le cose da lontano, conosce il principio e la fine, mette le sue pennellate nella nostra vita fin dal momento in cui siamo concepiti. Ha in mente tutto il quadro finito e lo dipinge a modo suo.
Un giorno ce lo mostrerà. Finito, completo, perfetto. Lo guarderemo con i “suoi” occhi e tutto prenderà un significato e un senso che anche noi comprenderemo.
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Vaccinazione di massa?
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Ho guardato in TV, domenica 2 maggio, la cerimonia a Torino per l’ostensione della Sindone, presieduta dal Papa e davanti a migliaia di persone.
Come mai non ero nella mia chesa evangelica, a fare la Santa Cena col pane e il vino, come Gesù ha insegnato e leggendo le Scritture e ascoltandone i commenti e, cantando gli inni della fede? Perché ero davanti al piccolo schermo?
La risposta è che Guglielmo, mio marito, era nell’impossibilità di guidare la macchina. Dato che non abitiamo a Roma, dove di solito ci riuniamo per adorare il Signore, eravamo rimasti a casa.
Ma torniamo alla cerimonia di Torino. Quando alcuni (o molti) dicono che gli Italiani non sanno organizzare le cose, dovrebbero fare la faccia rossa di vergogna . Quando ci si mettono, anche in Italia tutto funziona alla perfezione.
Per esempio, a Torino: folla ordinata (apparentemente più interessata a sbracciarsi per salutare i parenti che potevano vederli in TV, che a ascoltare cori e omelie e letture di Salmi), preti, diaconi, e vescovi tutti al loro posto, allineati come in una pittura del Medioevo. Cantori e suonatori che eseguivano musica alla perfezione, ombrellini aperti anche se non pioveva. Neppure una grinza e ammirazione generale.
Ma, per me (e suppongo anche per ogni credente che conosce la Bibbia) è stata una grande tristezza e una pena profonda. E spiego il perché.
Una volta di più ho visto, in una coreografia perfettamente orchestrata, la terribile mescolanza di verità e errore che caratterizza la dottrina della Chiesa Romana.
È vero: i salmi cantati venivano dalla Bibbia, le letture erano dal Vangelo, ma la l’applicazione pratica veniva in parte, se non tutta, dalla tradizione: invocazioni a Maria e ai santi, l’eucarestia che dovrebbe essere solo un ricordo dei simboli usati da Gesù con gli apostoli, prima della sua crocifissione, trasformata in adorazione di un’ostia, la venerazione sentimentale di una reliquia, cosa strettamente proibita nelle Scritture, come di ogni immagine sacra (Esodo 20:4-6).
A questo punto, è giusto anche ricordare che perfino il serpente di rame, che era stato un oggetto che gli Israeliti ribelli avevano dovuto, per ordine di Dio, guardare per essere guariti da una piaga inviata loro per punizione dal Signore, dovette essere distrutto, essendo divenuto un oggetto di venerazione (2 Re 18:4).
In medicina, per vaccinare le persone si inietta un po’ della sostanza che produce la malattia e la persona diventa immune alla malattia stessa. Purtroppo da molti secoli la chiesa ufficiale inietta un po’ di verità nella gente e la rende immune alla verità completa della Sacra Scrittura, che afferma che la salvezza è solo per grazia (e non per grazia e opere), che dichiara che l’opera compiuta da Cristo sulla croce è stata sufficiente per espiare ogni peccato (e che nulla l’uomo può aggiungere ad essa), che Cristo è l’unico Avvocato e Mediatore di cui abbiamo bisogno e che nulla si deve aggiungere a ciò che la Parola di Dio dice.
La folla di Torino è tornata a casa con un grande “esperienza spirituale”, e certo con molte speranze. Ma con quante certezze per il futuro eterno?
Purtroppo nessuna, perché una religione basata sulla buona condotta e gli sforzi umani, in cui la fede è messa praticamente in secondo piano, non ne può dare.
Ho paura che sia stata solamente sottoposta a una nuova vaccinazione.
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Ho guardato in TV, domenica 2 maggio, la cerimonia a Torino per l’ostensione della Sindone, presieduta dal Papa e davanti a migliaia di persone.
Come mai non ero nella mia chesa evangelica, a fare la Santa Cena col pane e il vino, come Gesù ha insegnato e leggendo le Scritture e ascoltandone i commenti e, cantando gli inni della fede? Perché ero davanti al piccolo schermo?
La risposta è che Guglielmo, mio marito, era nell’impossibilità di guidare la macchina. Dato che non abitiamo a Roma, dove di solito ci riuniamo per adorare il Signore, eravamo rimasti a casa.
Ma torniamo alla cerimonia di Torino. Quando alcuni (o molti) dicono che gli Italiani non sanno organizzare le cose, dovrebbero fare la faccia rossa di vergogna . Quando ci si mettono, anche in Italia tutto funziona alla perfezione.
Per esempio, a Torino: folla ordinata (apparentemente più interessata a sbracciarsi per salutare i parenti che potevano vederli in TV, che a ascoltare cori e omelie e letture di Salmi), preti, diaconi, e vescovi tutti al loro posto, allineati come in una pittura del Medioevo. Cantori e suonatori che eseguivano musica alla perfezione, ombrellini aperti anche se non pioveva. Neppure una grinza e ammirazione generale.
Ma, per me (e suppongo anche per ogni credente che conosce la Bibbia) è stata una grande tristezza e una pena profonda. E spiego il perché.
Una volta di più ho visto, in una coreografia perfettamente orchestrata, la terribile mescolanza di verità e errore che caratterizza la dottrina della Chiesa Romana.
È vero: i salmi cantati venivano dalla Bibbia, le letture erano dal Vangelo, ma la l’applicazione pratica veniva in parte, se non tutta, dalla tradizione: invocazioni a Maria e ai santi, l’eucarestia che dovrebbe essere solo un ricordo dei simboli usati da Gesù con gli apostoli, prima della sua crocifissione, trasformata in adorazione di un’ostia, la venerazione sentimentale di una reliquia, cosa strettamente proibita nelle Scritture, come di ogni immagine sacra (Esodo 20:4-6).
A questo punto, è giusto anche ricordare che perfino il serpente di rame, che era stato un oggetto che gli Israeliti ribelli avevano dovuto, per ordine di Dio, guardare per essere guariti da una piaga inviata loro per punizione dal Signore, dovette essere distrutto, essendo divenuto un oggetto di venerazione (2 Re 18:4).
In medicina, per vaccinare le persone si inietta un po’ della sostanza che produce la malattia e la persona diventa immune alla malattia stessa. Purtroppo da molti secoli la chiesa ufficiale inietta un po’ di verità nella gente e la rende immune alla verità completa della Sacra Scrittura, che afferma che la salvezza è solo per grazia (e non per grazia e opere), che dichiara che l’opera compiuta da Cristo sulla croce è stata sufficiente per espiare ogni peccato (e che nulla l’uomo può aggiungere ad essa), che Cristo è l’unico Avvocato e Mediatore di cui abbiamo bisogno e che nulla si deve aggiungere a ciò che la Parola di Dio dice.
La folla di Torino è tornata a casa con un grande “esperienza spirituale”, e certo con molte speranze. Ma con quante certezze per il futuro eterno?
Purtroppo nessuna, perché una religione basata sulla buona condotta e gli sforzi umani, in cui la fede è messa praticamente in secondo piano, non ne può dare.
Ho paura che sia stata solamente sottoposta a una nuova vaccinazione.
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Please e grazie
Ho una nipotina di quattro anni che è uno sbrago. Parla e gesticola come un’adulta e ha un sorriso che ti ruba il cuore.
Il suo linguaggio è un misto di italiano e di inglese e, a volte, è abbastanza incomprensibile. Ma ha una magnifica abitudine: quando vuole qualcosa comincia sempre la sua frase con “please” e, quando ottiene quello che ha chiesto, dice “grazie”. Non perde un colpo. Naturalmente un “bravo!” va ai genitori che glielo hanno inculcato.
L’arte di ringraziare è insegnata nella Bibbia e Dio si adira con chi non lo ringrazia. Si adira tanto che lo abbandona. Lo dice nel primo capitolo della lettera di San Paolo ai Romani. E questo è un pensiero spaventoso, che dovrebbe farci stare in campana.
Il Salmo 100 esorta a lodare il Signore e a “entrare nelle sue porte con ringraziamento” (v.4).
La nostra preghiera deve essere sempre rivolta a Dio e accompagnata dalla riconoscenza. La Bibbia è piena di esempi di ringraziamento. Eccone alcuni.
Mosè ha ringraziato con entusiasmo e canti, dopo aver attraversato miracolosamente il Mar Rosso.
Esdra ha ringraziato Dio perché aveva avuto il permesso di lasciare l’esilio a Babilonia e di tornare a ricostruire il tempio a Gerusalemme.
Davide ringraziava per la bellezza della creazione, la fedeltà del Signore, le sue liberazioni, le sue opere potenti.
Paolo ringraziava per la salvezza e il perdono dei peccati, per il meraviglioso piano di Dio in favore dei peccatori.
Anche il Signore Gesù è stato un esempio perfetto di ringraziamento al Padre. Lui che era Dio lodava il Padre perché le sue meraviglie erano state rivelate ai bambini e alle persone umili (Matteo 11:25) e ringraziava il Padre perché lo esaudiva sempre (Giovanni 11:41,42). E passava notti intere a lodare e ringraziare il suo Padre Celeste.
E noi? Ringraziamo poco e forse per questo riceviamo poco.
Ascoltiamo tre brani. “Angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fare conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Filippesi 4:6,7).
“Siate sempre gioiosi; non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio verso di voi” (1 Tessalonicesi 5:16-18).
“La pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. La Parola di Cristo abiti in voi abbondantemente.... qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio per mezzo di Lui” (Colossesi 3:15-17).
Capito? Dio vuole essere avvicinato con un “please” umile e sottomesso e esige un “grazie” tutto il tempo e in ogni occasione per quello che ci dona. Se siamo ingrati non possiamo aspettarci che risponda alle nostre preghiere.
Il suo linguaggio è un misto di italiano e di inglese e, a volte, è abbastanza incomprensibile. Ma ha una magnifica abitudine: quando vuole qualcosa comincia sempre la sua frase con “please” e, quando ottiene quello che ha chiesto, dice “grazie”. Non perde un colpo. Naturalmente un “bravo!” va ai genitori che glielo hanno inculcato.
L’arte di ringraziare è insegnata nella Bibbia e Dio si adira con chi non lo ringrazia. Si adira tanto che lo abbandona. Lo dice nel primo capitolo della lettera di San Paolo ai Romani. E questo è un pensiero spaventoso, che dovrebbe farci stare in campana.
Il Salmo 100 esorta a lodare il Signore e a “entrare nelle sue porte con ringraziamento” (v.4).
La nostra preghiera deve essere sempre rivolta a Dio e accompagnata dalla riconoscenza. La Bibbia è piena di esempi di ringraziamento. Eccone alcuni.
Mosè ha ringraziato con entusiasmo e canti, dopo aver attraversato miracolosamente il Mar Rosso.
Esdra ha ringraziato Dio perché aveva avuto il permesso di lasciare l’esilio a Babilonia e di tornare a ricostruire il tempio a Gerusalemme.
Davide ringraziava per la bellezza della creazione, la fedeltà del Signore, le sue liberazioni, le sue opere potenti.
Paolo ringraziava per la salvezza e il perdono dei peccati, per il meraviglioso piano di Dio in favore dei peccatori.
Anche il Signore Gesù è stato un esempio perfetto di ringraziamento al Padre. Lui che era Dio lodava il Padre perché le sue meraviglie erano state rivelate ai bambini e alle persone umili (Matteo 11:25) e ringraziava il Padre perché lo esaudiva sempre (Giovanni 11:41,42). E passava notti intere a lodare e ringraziare il suo Padre Celeste.
E noi? Ringraziamo poco e forse per questo riceviamo poco.
Ascoltiamo tre brani. “Angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fare conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Filippesi 4:6,7).
“Siate sempre gioiosi; non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio verso di voi” (1 Tessalonicesi 5:16-18).
“La pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti. La Parola di Cristo abiti in voi abbondantemente.... qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio per mezzo di Lui” (Colossesi 3:15-17).
Capito? Dio vuole essere avvicinato con un “please” umile e sottomesso e esige un “grazie” tutto il tempo e in ogni occasione per quello che ci dona. Se siamo ingrati non possiamo aspettarci che risponda alle nostre preghiere.
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