Quello che si impara da bambini, non si dimentica.
L’ho detto, la volta scorsa, parlando dei viaggi che mio papà mi faceva fare sul divano di casa, accompagnata dall’inseparabile valigetta di velluto rosso, allo scopo di insegnarmi la geografia. Onestamente, quando sono andata in prima elementare e la maestra si è resa conto che sapevo che Noto è in Sicilia, le mie azioni sono salite notevolmente. Peccato che mio padre non mi avesse anche dato qualche nozione di matematica! Mi sarebbe stata utile.
Sia come sia, dato che il cervello dei bambini è come una spugna pronta a assorbire ogni cosa, perché non cercare di fornirlo di informazioni sulla persona di Dio, prima che glielo riempiano di altre mille cose gli insegnanti quando comincerà a andare a scuola o quando voi, sbagliando, lo parcheggerete davanti alla TV per avere una mezz’ora di pace per conto vostro?
Io ho trovato facile usare un metodo semplice e naturale, dato che ho capito molto presto che le spiegazioni tipo predica non andavano molto lontano. Il mio metodo l’ho chiamato “chiacchierare la Bibbia”. Cioè infilavo nei discorsi degli insegnamenti biblici, senza avere l’aria di fare la scuola domenicale.
Faccio un esempio. Ricordo che mi avevano regalato un mazzo di rose e le mettevo in un vaso. Uno dei bambini ha offerto di aiutarmi.
“Fai attenzione alle spine, se ti pungi fanno male!” ho detto.
“Perché ci sono le spine?” ha chiesto il bambino. “Sarebbe meglio che il gambo fosse liscio!”
“Dio ha messo delle spine perché così i bruchi…”
“Cosa sono i bruchi?”
“Delle specie di vermi pelosi che, se non ci fossero le spine, salirebbero fino a mangiare i petali delle rose e le rovinerebbero tutte… Invece, guarda come Dio ha fatto bene i petali. Sembrano di velluto”.
“Dio ha fatto le rose belle e poi le aiuta a non essere mangiate! Dio pensa a tutto, vero mamma?”
“Vero”.
I bambini sono contenti di imparare a conoscere Dio e amano molto le storie della Bibbia.
E poi, magari, arrivano con delle domade abbastanza originali. Tipo: “Dio ha davvero creato anche le zanzare?” oppure: “Come tiene appese le nuvole in cielo?” oppure: “Ce l’avevano l’ombrello al tempo di Noè?”. Oppure, come ha fatto una mia nipotina: “Chi ha inventato i Cattolici?”
Perciò, se decidete di chiacchierare la Bibbia, siate pronti a tutto e spolverate tutte le vostre conoscenze di scienza e di teologia. Farete quello che il Signore comanda: “Inculca al faciullo la via che deve tenere… da vecchio non se ne allontanerà” e “allevate i vostri figli in disciplina (insegnamento) e ammonizione del Signore”.
E troverete che ne vale la pena.
Partenze
Dalla Calabria alla Lombardia, per poi scendere in Puglia, ritornare a Roma e partire per l’America. Veramente, mio marito ed io, nel mese di marzo, non ci siamo fermati. E per due vecchi come noi, non è sempre facile, anche se siamo ultrariconoscenti al Signore di avere la salute sufficiente per farlo.
A me piace tanto viaggiare (ho sempre pensato di avere del sangue zingaro nelle vene, perché quando torno da un viaggio, penso che sarebbe bello ripartire). Quello che mi spaventa sempre un po’ è l’idea di fare le valigie e di non dimenticare nulla. Vado avanti a forza di liste e di appunti, ma non sempre mi bastano. Non vi confido le cose che ho dimenticate a volte (tipo i pantaloni di mio marito, mentre ho ricordato la giacca...) e che erano piuttosto imbarazzanti. Fino ad ora non ho mai dimenticato la Bibbia e gli appunti degli studi biblici per i convegni. Meno male!
Mentre scrivo questo blog, sto per partire per due settimane in America, e mi pare di non aver dimenticato niente, ma chissà... Il mese di aprile non si presenta meno movimentato.
Ogni volta che parto, ripenso a quando ero bambina e mio papà mi faceva viaggiare virtualmente sul divano di casa nostra. Un po’ per farmi divertire e un po’ per insegnarmi la geografia dell’Italia.
Partivamo da Gorizia, dove abitavamo, e mettevamo la mia valigetta di velluto rosso sulla spalliera del divano del salotto che diventava lo scompartimento del treno. Prima classe, naturalmente!
Poi papà diventava capostazione, capotreno e macchinista, diceva: “Signori in carrozza!”, e dava il via col fischietto. Tu-tuum, tu-tuum, tu-tuum e tu-tumm (le ruote dei treni allora facevano un rumore così) arrivavamo a Verona, poi a Bologna e a Firenze. Se necessario, in una serata arrivavamo anche a Palermo per mangiare la cassata (virtuale, naturalmente).
Ma a Verona papà mi faceva guardare fuori dal finestrino per vedere l’Adige e a Bologna vedevo le torri degli Asinelli e mi raccontava che lì, in quella città, suo padre faceva il professore e si era convertito al Vangelo. E poi mi raccontava dove lui aveva fatto l’Accademia militare, dove il Re aveva la sua tenuta estiva e dove, in un albergo, il letto era così pieno di cimici che le doveva raccogliere con una cartolina. Io ridevo, sgranavo gli occhi e mi stupivo. Poi dicevo agli amichetti: “Il mio papà mi porta con sé in viaggio ogni sera e mi spiega TUTTO”.
Il mio papà era il mio eroe. Era un uomo molto occupato, ma la sera trovava il tempo per stare anche con me. Quello che mi diceva era oro colato e io ero convinta che non potesse sbagliare.
Quando si hanno i figli piccoli, si pensa poco a quanto sia importante giocare e parlare con loro, e raccontare e spiegare le cose piccole e grandi della vita via via che crescono.
I nostri figli, con la crudele sincerità dell’infanzia, mi chiedevano di raccontare come erano “i tempi antichi, quando eri bambina”. Recentemente un mio nipotino si è convinto di avere avuto a che fare con un autentico dinosauro, quando gli ho raccontato come erano i telefoni quando ero piccola come lui. Se n’è andato scuotendo la testa e dicendo: “Però…. Però...”. (Forse voleva dire: “Però è ancora viva!”)
Oggi fra videogiochi, TV, telefonini, mi pare che ognuno viva per conto suo, mentre le famiglie si sfaldano senza che i membri se ne rendano conto. Sarebbe importante, almeno una volta in settimana, che le famiglie spegnessero la TV e facessero qualcosa insieme.
Tipo? Che ne so… Tipo giocare a domino o costruire, a puntate, l’albero genealogico della famiglia raccontando qualcosa dei parenti (così si potrebbero utilizzare anche quelle vecche foto ingiallite che stanno in quella vecchia scatola da scarpe e che nessuno ha il coraggio di buttare).
Oppure, fare dei biscotti tutti insieme.
Oppure, idea!, pulire tutti insieme il garage, in vista di una visita dal gelataio a fine lavoro.
Oppure, andare a fare una visita (breve, per amore dei figli!) a una persona sola che avrebbe piacere di essere ricordata.
Insomma, pensateci e inventate!
Quello che si fa in famiglia da piccoli si ricorda tutta la vita. Come quei miei viaggi sul divano con mio papà che, senza che me ne accorgessi, mi insegnava quieto quieto anche la geografia.
Ma c’è di più. Ne parliamo alla prossima.
A me piace tanto viaggiare (ho sempre pensato di avere del sangue zingaro nelle vene, perché quando torno da un viaggio, penso che sarebbe bello ripartire). Quello che mi spaventa sempre un po’ è l’idea di fare le valigie e di non dimenticare nulla. Vado avanti a forza di liste e di appunti, ma non sempre mi bastano. Non vi confido le cose che ho dimenticate a volte (tipo i pantaloni di mio marito, mentre ho ricordato la giacca...) e che erano piuttosto imbarazzanti. Fino ad ora non ho mai dimenticato la Bibbia e gli appunti degli studi biblici per i convegni. Meno male!
Mentre scrivo questo blog, sto per partire per due settimane in America, e mi pare di non aver dimenticato niente, ma chissà... Il mese di aprile non si presenta meno movimentato.
Ogni volta che parto, ripenso a quando ero bambina e mio papà mi faceva viaggiare virtualmente sul divano di casa nostra. Un po’ per farmi divertire e un po’ per insegnarmi la geografia dell’Italia.
Partivamo da Gorizia, dove abitavamo, e mettevamo la mia valigetta di velluto rosso sulla spalliera del divano del salotto che diventava lo scompartimento del treno. Prima classe, naturalmente!
Poi papà diventava capostazione, capotreno e macchinista, diceva: “Signori in carrozza!”, e dava il via col fischietto. Tu-tuum, tu-tuum, tu-tuum e tu-tumm (le ruote dei treni allora facevano un rumore così) arrivavamo a Verona, poi a Bologna e a Firenze. Se necessario, in una serata arrivavamo anche a Palermo per mangiare la cassata (virtuale, naturalmente).
Ma a Verona papà mi faceva guardare fuori dal finestrino per vedere l’Adige e a Bologna vedevo le torri degli Asinelli e mi raccontava che lì, in quella città, suo padre faceva il professore e si era convertito al Vangelo. E poi mi raccontava dove lui aveva fatto l’Accademia militare, dove il Re aveva la sua tenuta estiva e dove, in un albergo, il letto era così pieno di cimici che le doveva raccogliere con una cartolina. Io ridevo, sgranavo gli occhi e mi stupivo. Poi dicevo agli amichetti: “Il mio papà mi porta con sé in viaggio ogni sera e mi spiega TUTTO”.
Il mio papà era il mio eroe. Era un uomo molto occupato, ma la sera trovava il tempo per stare anche con me. Quello che mi diceva era oro colato e io ero convinta che non potesse sbagliare.
Quando si hanno i figli piccoli, si pensa poco a quanto sia importante giocare e parlare con loro, e raccontare e spiegare le cose piccole e grandi della vita via via che crescono.
I nostri figli, con la crudele sincerità dell’infanzia, mi chiedevano di raccontare come erano “i tempi antichi, quando eri bambina”. Recentemente un mio nipotino si è convinto di avere avuto a che fare con un autentico dinosauro, quando gli ho raccontato come erano i telefoni quando ero piccola come lui. Se n’è andato scuotendo la testa e dicendo: “Però…. Però...”. (Forse voleva dire: “Però è ancora viva!”)
Oggi fra videogiochi, TV, telefonini, mi pare che ognuno viva per conto suo, mentre le famiglie si sfaldano senza che i membri se ne rendano conto. Sarebbe importante, almeno una volta in settimana, che le famiglie spegnessero la TV e facessero qualcosa insieme.
Tipo? Che ne so… Tipo giocare a domino o costruire, a puntate, l’albero genealogico della famiglia raccontando qualcosa dei parenti (così si potrebbero utilizzare anche quelle vecche foto ingiallite che stanno in quella vecchia scatola da scarpe e che nessuno ha il coraggio di buttare).
Oppure, fare dei biscotti tutti insieme.
Oppure, idea!, pulire tutti insieme il garage, in vista di una visita dal gelataio a fine lavoro.
Oppure, andare a fare una visita (breve, per amore dei figli!) a una persona sola che avrebbe piacere di essere ricordata.
Insomma, pensateci e inventate!
Quello che si fa in famiglia da piccoli si ricorda tutta la vita. Come quei miei viaggi sul divano con mio papà che, senza che me ne accorgessi, mi insegnava quieto quieto anche la geografia.
Ma c’è di più. Ne parliamo alla prossima.
Una porta chiusa
L’altro giorno, mio marito e io siamo rimasti chiusi fuori di casa.
Come si dice sempre “questa proprio non ci voleva”. Avevamo tremila cosa da fare e da finire, fra cui una commissione in paese, prima di partire per un viaggio il giorno dopo. Nella fretta, mio marito ha chiuso la porta, lasciando la chiave all’interno nella toppa.
Poco male, abbiamo pensato: una vicina ha la nostra chiave. Ma la vicina non era in casa e non avevamo la minima idea di quando sarebbe tornata. Siamo andati da due fabbri e nessuno poteva venire immediatamente. Abbiamo cercato un contadino, che è sempre pieno di risorse, e non l’abbiamo trovato.
Che fare?
Aspettare la vicina e sperare che la sua chiave girasse nella serratura. Dopo due ore abbondanti, siamo riusciti a entrare a casa. E a fare le tremila cose necessarie.
Restare chiusi fuori di casa è piuttosto traumatico. Ci si sente impotenti. Ma in una casa, bene o male, con l’aiuto dei vicini, di un fabbro o dei pompieri si rientra. In fondo, è solo una grande scocciatura.
Ma ho pensato a certe porte chiuse di cui parla la Bibbia.
Per esempio, una porta chiusa al tempo di Noè. Dio gli aveva fatto sapere che sarebbe venuto un diluvio terribile e gli disse di costruire un’arca in cui salvarsi. Ebbe tempo centovent’anni per farlo e, durante quel periodo, avvertì la gente che Dio stava per giudicare la cattiveria umana e che si doveva pentire. Tutti lo presero in giro.
Quando l’arca fu finita, fu riempita miracolosamente di animali e Noè e la sua famglia vi furono entrati, Dio chiuse la porta. E cominciò a piovere.
Chissà in quanti andarono a bussare e a gridare: “Noè, aprici!”. Ma la porta era chiusa.
Di un’altra porta chiusa, parlò Gesù in una sua parabola in cui raccontò di dieci donne che attendevano lo sposo e dovevano vegliare per non essere prese di sorpresa. Tutte avevano delle lampade. Cinque ci misero dell’olio per fare luce e vederci. Le altre cinque trascurarono di farlo. Tutte si assopirono, ma, a un tratto, il Signore (lo Sposo) le chiamò perché andassero da Lui. Le cinque con le lampade accese erano pronte, corsero dal Signore e furono accolte. Le altre andarono a comprarsi dell’olio, ma quando arrivarono alla casa dove era il Signore e dove erano già entrate le altre donne con le lampade accese, la porta era stata definitivamente chiusa.
Un giorno anche la porta della salvezza sarà chiusa. Gesù ha detto molto chiaramente che oggi Lui è l’unica porta di salvezza. Si entra in cielo per mezzo di Lui e di Lui solo. Non ci sono altre vie, altre porte, altre possibilità offerte da Dio. Si entra in cielo credendo in Lui, in quello che ha fatto, nella sua opera espiatoria compiuta sulla croce e accettando come mendicanti immeritevoli il dono della sua grazia. Altrimenti si resta fuori.
E fuori c’è l’inferno. Pensaci.
Che rimanessimo fuori di casa “non ci voleva”? Se la nostra distrazione è servita a darmi l’idea di scrivere questo blog, per avvertire qualcuno, evidentemente “ci voleva”!
Come si dice sempre “questa proprio non ci voleva”. Avevamo tremila cosa da fare e da finire, fra cui una commissione in paese, prima di partire per un viaggio il giorno dopo. Nella fretta, mio marito ha chiuso la porta, lasciando la chiave all’interno nella toppa.
Poco male, abbiamo pensato: una vicina ha la nostra chiave. Ma la vicina non era in casa e non avevamo la minima idea di quando sarebbe tornata. Siamo andati da due fabbri e nessuno poteva venire immediatamente. Abbiamo cercato un contadino, che è sempre pieno di risorse, e non l’abbiamo trovato.
Che fare?
Aspettare la vicina e sperare che la sua chiave girasse nella serratura. Dopo due ore abbondanti, siamo riusciti a entrare a casa. E a fare le tremila cose necessarie.
Restare chiusi fuori di casa è piuttosto traumatico. Ci si sente impotenti. Ma in una casa, bene o male, con l’aiuto dei vicini, di un fabbro o dei pompieri si rientra. In fondo, è solo una grande scocciatura.
Ma ho pensato a certe porte chiuse di cui parla la Bibbia.
Per esempio, una porta chiusa al tempo di Noè. Dio gli aveva fatto sapere che sarebbe venuto un diluvio terribile e gli disse di costruire un’arca in cui salvarsi. Ebbe tempo centovent’anni per farlo e, durante quel periodo, avvertì la gente che Dio stava per giudicare la cattiveria umana e che si doveva pentire. Tutti lo presero in giro.
Quando l’arca fu finita, fu riempita miracolosamente di animali e Noè e la sua famglia vi furono entrati, Dio chiuse la porta. E cominciò a piovere.
Chissà in quanti andarono a bussare e a gridare: “Noè, aprici!”. Ma la porta era chiusa.
Di un’altra porta chiusa, parlò Gesù in una sua parabola in cui raccontò di dieci donne che attendevano lo sposo e dovevano vegliare per non essere prese di sorpresa. Tutte avevano delle lampade. Cinque ci misero dell’olio per fare luce e vederci. Le altre cinque trascurarono di farlo. Tutte si assopirono, ma, a un tratto, il Signore (lo Sposo) le chiamò perché andassero da Lui. Le cinque con le lampade accese erano pronte, corsero dal Signore e furono accolte. Le altre andarono a comprarsi dell’olio, ma quando arrivarono alla casa dove era il Signore e dove erano già entrate le altre donne con le lampade accese, la porta era stata definitivamente chiusa.
Un giorno anche la porta della salvezza sarà chiusa. Gesù ha detto molto chiaramente che oggi Lui è l’unica porta di salvezza. Si entra in cielo per mezzo di Lui e di Lui solo. Non ci sono altre vie, altre porte, altre possibilità offerte da Dio. Si entra in cielo credendo in Lui, in quello che ha fatto, nella sua opera espiatoria compiuta sulla croce e accettando come mendicanti immeritevoli il dono della sua grazia. Altrimenti si resta fuori.
E fuori c’è l’inferno. Pensaci.
Che rimanessimo fuori di casa “non ci voleva”? Se la nostra distrazione è servita a darmi l’idea di scrivere questo blog, per avvertire qualcuno, evidentemente “ci voleva”!
Siete ancora a quel punto?
Una donna infelicemente sposata ce lo ha chiesto, dopo averci guardati incredula. Eravamo, marito e io, seduti su una panca e ci tenevamo per mano. Poi ha aggiunto col sorriso acido di chi la sa lunga: “Questa è roba da fidanzati”. E se n’è andata scuotendo la testa.
Sapevamo che il suo matrimonio stava andando a pezzi. Ma non solo per colpa del marito.
Molte donne hanno delle idee strane sul matrimonio. Pensano che tutto sia fatto e finito dopo il “sì” pronunciato in Comune o in chiesa. E invece tutto, o quasi, incomincia.
Ricordo che eravamo sposati da più di un anno e io aspettavo i gemelli. Siamo andati a mangiare in un ristorante sulla costa laziale, vicino a Anzio. La moglie del proprietario aveva avuto da poco un bambino e i complimenti di parenti, amici e commensali si sprecavano. Io ero molto interessata al bambino, naturalmente.
Mio marito, invece, era colpito dalla mamma del bambino, che accettava estatica i complimenti, in vestaglia, ciabatte e decisamente con l’aspetto sfasciato di chi ha fatto la notte e ha fatto un figlio da poco. Mi ha guardata e pensieroso ha chiesto: “Mica diventerai così, eh?”
“Speriamo di no!” ho risposto. Un’osservazione così valeva più di cento manuali sulla vita matrimoniale.
Un marito vuole una moglie che si tenga bene, almeno quanto si teneva durante il fidanzamento. Vuole essere ascoltato dalla moglie con lo stesso interesse di quando le raccontava qualcosa mentre mangiavano una pizza durante il periodo del corteggiamento. Ha piacere di essere apprezzato verbalmente per il suo aspetto, per quello che fa, per come provvede alla famiglia e, perché no?, per come si comporta nell’intimità. Vuole essere assecondato quando si mostra affettuoso e ti porta a casa una pianta per sostituire per quella che sei riuscita a far morire o di sete o di annegamento.
Io ho imparato molto da altre mogli.
Per esempio, un amico, che ospitavamo, mi è arrivato in cucina con gli occhi che gli brillavano come fari della macchina dei Carabinieri. “Guarda” mi ha detto, “che mi ha fatto quel tesoro di mia moglie! Nel taschino della camicia, ho trovato un biglietto con scritto, mi manchi e ti voglio bene!”.
E io mi sono detta: “Maria Teresa, prendi su e impara!”.
Ho visto la moglie di un servitore di Dio, che portava a suo marito un vassoio con una tazza di tè e una tovaglietta stirata e ricamata, come se fosse stato il Presidente della Repubblica. Di nuovo mi sono detta: “Impara!”.
E mio marito ha imparato pure lui: quando vado per un paio di giorni a un convegno, tornando a casa, trovo sempre un foglio, magari sotto il cuscino con scritto: “Ben tornata, amore mio!”.
Ma che ci vuole a fare piacere alla persona che ci ha scelte, e che abbiamo scelta, per la vita? Basta pensarci.
Sapevamo che il suo matrimonio stava andando a pezzi. Ma non solo per colpa del marito.
Molte donne hanno delle idee strane sul matrimonio. Pensano che tutto sia fatto e finito dopo il “sì” pronunciato in Comune o in chiesa. E invece tutto, o quasi, incomincia.
Ricordo che eravamo sposati da più di un anno e io aspettavo i gemelli. Siamo andati a mangiare in un ristorante sulla costa laziale, vicino a Anzio. La moglie del proprietario aveva avuto da poco un bambino e i complimenti di parenti, amici e commensali si sprecavano. Io ero molto interessata al bambino, naturalmente.
Mio marito, invece, era colpito dalla mamma del bambino, che accettava estatica i complimenti, in vestaglia, ciabatte e decisamente con l’aspetto sfasciato di chi ha fatto la notte e ha fatto un figlio da poco. Mi ha guardata e pensieroso ha chiesto: “Mica diventerai così, eh?”
“Speriamo di no!” ho risposto. Un’osservazione così valeva più di cento manuali sulla vita matrimoniale.
Un marito vuole una moglie che si tenga bene, almeno quanto si teneva durante il fidanzamento. Vuole essere ascoltato dalla moglie con lo stesso interesse di quando le raccontava qualcosa mentre mangiavano una pizza durante il periodo del corteggiamento. Ha piacere di essere apprezzato verbalmente per il suo aspetto, per quello che fa, per come provvede alla famiglia e, perché no?, per come si comporta nell’intimità. Vuole essere assecondato quando si mostra affettuoso e ti porta a casa una pianta per sostituire per quella che sei riuscita a far morire o di sete o di annegamento.
Io ho imparato molto da altre mogli.
Per esempio, un amico, che ospitavamo, mi è arrivato in cucina con gli occhi che gli brillavano come fari della macchina dei Carabinieri. “Guarda” mi ha detto, “che mi ha fatto quel tesoro di mia moglie! Nel taschino della camicia, ho trovato un biglietto con scritto, mi manchi e ti voglio bene!”.
E io mi sono detta: “Maria Teresa, prendi su e impara!”.
Ho visto la moglie di un servitore di Dio, che portava a suo marito un vassoio con una tazza di tè e una tovaglietta stirata e ricamata, come se fosse stato il Presidente della Repubblica. Di nuovo mi sono detta: “Impara!”.
E mio marito ha imparato pure lui: quando vado per un paio di giorni a un convegno, tornando a casa, trovo sempre un foglio, magari sotto il cuscino con scritto: “Ben tornata, amore mio!”.
Ma che ci vuole a fare piacere alla persona che ci ha scelte, e che abbiamo scelta, per la vita? Basta pensarci.
“Maria Teresa, perché non porti i pantaloni? “
Stavo facendo una serie di studi sulla bellezza e il privilegio di essere donna e avevo chiesto se ci fossero domande, dopo averne concluso uno. Onestamente pensavo che mi avrebbero chiesto delle cose riguardo allo studio e al soggetto che avevo trattato. Non avevo parlato di indumenti.
“Non li porto perché mi pare che non mi starebbero bene. Sono bassa di statura, e (ho canticchiato) “non ho l’età...”! Pensavo di aver chiuso felicemente l’argomento, invece hanno continuato: “Sono comodi... sono di moda... la gonna non usa più... la Bibbia non lo proibisce...”
Ho dovuto continuare: “Se proprio volete saperlo, mi pare che noi donne, in generale, non siamo fatte con una forma che si adatta ai pantaloni. Abbiamo le anche larghe, le natiche i solito grassottelle e i pantaloni mettono in risalto quello che una gonna invece nasconde felicemente. Secondo me, per portare bene i pantaloni, bisogna essere magre, alte e slanciate.... Io non lo sono. Altre domande?”
“Ma tuo marito te li lascerebbe portare?” E ridagliela!
“Penso di sì, purché non fossero a vita bassa. E non sol perché sono vecchia. Sono sicura che non avrebbe permesso neppure a nostra figlia di portarli, quando era adolescente. Abbiamo avuto abbastanza discussioni riguardo alla minigonna che era stata inventata allora, allora...” .
“Altre domande?”
Silenzio. Meno male.
Oggi sui pantaloni delle donne non si discute più e spesso mi viene da sorridere nel vedere molte mogli di anziani e di responsabili di chiesa che indossano i pantaloni anche la domenica mattina, magari bluejeans, al culto. E pensare che quegli stessi anziani, o i loro padri, avevano discusso per ore e predicato, versetti biblici alla mano, su come noi donne ci dovevamo vestire. Anche allora, la consideravo una terribile perdita di tempo, che sapeva di legalismo.
Oggi, però, non sarebbe forse del tutto sbagliato ogni tanto accennare all’importanza della modestia e del pudore. Ma i tempi cambiano. E non in bene.
“Non li porto perché mi pare che non mi starebbero bene. Sono bassa di statura, e (ho canticchiato) “non ho l’età...”! Pensavo di aver chiuso felicemente l’argomento, invece hanno continuato: “Sono comodi... sono di moda... la gonna non usa più... la Bibbia non lo proibisce...”
Ho dovuto continuare: “Se proprio volete saperlo, mi pare che noi donne, in generale, non siamo fatte con una forma che si adatta ai pantaloni. Abbiamo le anche larghe, le natiche i solito grassottelle e i pantaloni mettono in risalto quello che una gonna invece nasconde felicemente. Secondo me, per portare bene i pantaloni, bisogna essere magre, alte e slanciate.... Io non lo sono. Altre domande?”
“Ma tuo marito te li lascerebbe portare?” E ridagliela!
“Penso di sì, purché non fossero a vita bassa. E non sol perché sono vecchia. Sono sicura che non avrebbe permesso neppure a nostra figlia di portarli, quando era adolescente. Abbiamo avuto abbastanza discussioni riguardo alla minigonna che era stata inventata allora, allora...” .
“Altre domande?”
Silenzio. Meno male.
Oggi sui pantaloni delle donne non si discute più e spesso mi viene da sorridere nel vedere molte mogli di anziani e di responsabili di chiesa che indossano i pantaloni anche la domenica mattina, magari bluejeans, al culto. E pensare che quegli stessi anziani, o i loro padri, avevano discusso per ore e predicato, versetti biblici alla mano, su come noi donne ci dovevamo vestire. Anche allora, la consideravo una terribile perdita di tempo, che sapeva di legalismo.
Oggi, però, non sarebbe forse del tutto sbagliato ogni tanto accennare all’importanza della modestia e del pudore. Ma i tempi cambiano. E non in bene.
Il perdono è terapeutico
Ho parlato di donne abusate e di come reagire. Cosa fare quando si subiscono dei torti, dei maltrattamenti? Le possibilità sono due: subire e pregare che le cose cambino o agire biblicamente nella speranza che serva a cambiarle.
La volta scorsa ho parlato di una donna che mi ha telefonato per parlarmi delle sue difficoltà col marito. Aspetto ancora di sapere vanno le cose. Però, oltre a pregare e chiedere l’intervento di chi poteva riprendere e correggere la condotta di suo marito, le ho detto una cosa che io ritengo essenziale e che riguardava lei e solo lei: il dovere di perdonare il marito violento. Cosa non facile.
“Ma sono anni che lo sopporto!” ha esclamato.
“Andiamoci piano, cara” ho detto. “Sopportare non significa perdonare. Il perdono fa bene, la sopportazione deprime” ho spiegato.
“Non ti capisco...”
Ci sono tante idee sbagliate sul perdono. Prima di tutto, diciamo cosa non è. Non è subire con pazienza i torti. Non è mettere, come si dice, una pietra sopra a un’offesa e ricominciare da capo, non è cercare di non farci caso, non è vendicarsi. Non è neppure un sentimento che proviene da un impeto del cuore, dato che molte volte non abbiamo nessuna voglia di perdonare.
Perdonare è piuttosto solo un’ubbidienza al comando del Signore che afferma che se non perdoniamo agli altri i loro peccati, Lui non perdonerà i nostri. E’ perciò un atto preciso e definitivo della nostra volontà.
Come funziona? In preghiera, si nomina al Signore con precisione il torto subito e si dice: “Per questo torto io lo (o la o li) perdono e ti prego di perdonare la mia rabbia e la mia voglia di vendetta. Aiutami a non rimuginarci più su. Amen”.
Non succederanno i fuochi d’artificio, non si sentiranno le trombe suonare, ma ti si toglierà un peso dallo stomaco. Provare per credere.
Vuol dire che tutto andrà a posto e sarà come se non fosse successo nulla? No. È possibile che nulla cambierà e che si debba ancora procedere per riprendere chi ha fatto del male. La riconciliazione avviene solo quando e se la persona che ha offeso chiede a sua volta perdono. Quello che cambia è solo il cuore e l’atteggiamento di chi perdona. Ma è già molto!
La volta scorsa ho parlato di una donna che mi ha telefonato per parlarmi delle sue difficoltà col marito. Aspetto ancora di sapere vanno le cose. Però, oltre a pregare e chiedere l’intervento di chi poteva riprendere e correggere la condotta di suo marito, le ho detto una cosa che io ritengo essenziale e che riguardava lei e solo lei: il dovere di perdonare il marito violento. Cosa non facile.
“Ma sono anni che lo sopporto!” ha esclamato.
“Andiamoci piano, cara” ho detto. “Sopportare non significa perdonare. Il perdono fa bene, la sopportazione deprime” ho spiegato.
“Non ti capisco...”
Ci sono tante idee sbagliate sul perdono. Prima di tutto, diciamo cosa non è. Non è subire con pazienza i torti. Non è mettere, come si dice, una pietra sopra a un’offesa e ricominciare da capo, non è cercare di non farci caso, non è vendicarsi. Non è neppure un sentimento che proviene da un impeto del cuore, dato che molte volte non abbiamo nessuna voglia di perdonare.
Perdonare è piuttosto solo un’ubbidienza al comando del Signore che afferma che se non perdoniamo agli altri i loro peccati, Lui non perdonerà i nostri. E’ perciò un atto preciso e definitivo della nostra volontà.
Come funziona? In preghiera, si nomina al Signore con precisione il torto subito e si dice: “Per questo torto io lo (o la o li) perdono e ti prego di perdonare la mia rabbia e la mia voglia di vendetta. Aiutami a non rimuginarci più su. Amen”.
Non succederanno i fuochi d’artificio, non si sentiranno le trombe suonare, ma ti si toglierà un peso dallo stomaco. Provare per credere.
Vuol dire che tutto andrà a posto e sarà come se non fosse successo nulla? No. È possibile che nulla cambierà e che si debba ancora procedere per riprendere chi ha fatto del male. La riconciliazione avviene solo quando e se la persona che ha offeso chiede a sua volta perdono. Quello che cambia è solo il cuore e l’atteggiamento di chi perdona. Ma è già molto!
Chi bussa alla tua porta?
Se non è ancora successo, una volta o l’altra verranno a bussare alla tua porta i Testimoni di Geova. Ti diranno che ti devono parlare di cose importanti riguardo al tuo futuro e il futuro di questo nostro pianeta. Oppure arriveranno i cosiddetti “arancioni” con le loro spiegazioni del loro tipo di buddismo o si affacceranno i rappresentanti di altre sette strane, come i Mormoni, che hanno l’aria così brava, educata e rispettosa.
La domanda che sorge, quando si presentano, è: “E se avessero ragione? Se avessero almeno una parte della verità, sarebbe giusto ascoltarli e, magari, aiutarli a conoscere il Vangelo?”
Molti li accolgono e, se non sono ben radicati nella Parola di Dio, spesso rimangono confusi. Perciò è importante conoscere alcune caratteristiche che aiutano a capire se ce ne posiamo fidare o no.
Alcuni elementi accomunano le sette. Ogni setta ne ha almeno un paio.
Il primo è che negano che la Bibbia sia sufficiente per conoscere la verità. Nel farlo, sono molto sottili. I Mormoni ti dicono “la Bibbia è meravigliosa, ma noi ti offriamo qualcosa in più, il Libro di Mormon con delle rivelazioni straordinarie e importanti date da Dio a un suo servo prediletto”. I Testimoni ti dicono che la loro Bibbia è tradotta meglio della tua (in realtà è una traduzione che distorce i testi originali) e ti danno degli stampati che fanno dire a parecchi versetti quello che, in realtà, non dicono. Alla Bibbia aggiungono visioni, rivelazioni, tradizioni.
Secondo: ogni setta ha un fondatore e un capo umano, che innalzano al di sopra di Gesù Cristo. Perciò, e questo è un elemento gravissimo, attaccano e diminuiscono la persona di Gesù. Di solito, non credono che fosse Dio (i Testimoni affermano che era l’arcangelo Michele venuto in terra), non credono al valore espiatorio del suo sacrificio sulla croce, alla sua resurrezione e alla sua ascensione in gloria. Alcuni non credono che lo Spirito Santo sia Dio e tutti affermano che la salvezza non è gratuita e che la fede non è sufficiente per ottenerla.
Terzo: non credono che l’uomo sia fondamentalmente peccatore e incapace di salvarsi . Affermano che può salvarsi con i suoi sforzi e il suo impegno. La “loro” salvezza si ottiene credendo al loro messaggio, operando per meritare il favore di Dio e, naturalmente, propagando le dottrine della loro setta particolare. La parola grazia, col significato di favore immeritato offerto da Dio al peccatore, è sconosciuta. L’uomo deve fare la sua parte per ottenere il favore di Dio.
Quarto: negano che il peccato, come trasgressione della legge di Dio, sia così grave da meritare una punizione eterna... (Se obbietti dicendo che Gesù ha più parlato di giudizio e di inferno che di beatitudine eterna, dicono che era solo un linguaggio simbolico!).
Quinto: negano che si possa essere sicuri della propria salvezza. Ed è logico: se la salvezza si merita con le opere, come si può essere sicuri di avere operato abbastanza? Se, invece, si è salvati per grazia, e non per opere, come insegna la Bibbia, la sicurezza è possibile. Non dipende da noi, ma dall’opera compiuta da Cristo e dalla misericordia di Dio in favore di chi si affida totalmente a Lui.
Sesto: affermano che solo nella loro setta c’è salvezza e che, in ogni modo, loro possiedono una “luce superiore” a quella di altri che si chiamano cristiani.
Adesso mi guardi sorpreso, perché ti è passato per la mente l’idea che anche la Chiesa romana sia una setta. Vedi un po’ tu!
La domanda che sorge, quando si presentano, è: “E se avessero ragione? Se avessero almeno una parte della verità, sarebbe giusto ascoltarli e, magari, aiutarli a conoscere il Vangelo?”
Molti li accolgono e, se non sono ben radicati nella Parola di Dio, spesso rimangono confusi. Perciò è importante conoscere alcune caratteristiche che aiutano a capire se ce ne posiamo fidare o no.
Alcuni elementi accomunano le sette. Ogni setta ne ha almeno un paio.
Il primo è che negano che la Bibbia sia sufficiente per conoscere la verità. Nel farlo, sono molto sottili. I Mormoni ti dicono “la Bibbia è meravigliosa, ma noi ti offriamo qualcosa in più, il Libro di Mormon con delle rivelazioni straordinarie e importanti date da Dio a un suo servo prediletto”. I Testimoni ti dicono che la loro Bibbia è tradotta meglio della tua (in realtà è una traduzione che distorce i testi originali) e ti danno degli stampati che fanno dire a parecchi versetti quello che, in realtà, non dicono. Alla Bibbia aggiungono visioni, rivelazioni, tradizioni.
Secondo: ogni setta ha un fondatore e un capo umano, che innalzano al di sopra di Gesù Cristo. Perciò, e questo è un elemento gravissimo, attaccano e diminuiscono la persona di Gesù. Di solito, non credono che fosse Dio (i Testimoni affermano che era l’arcangelo Michele venuto in terra), non credono al valore espiatorio del suo sacrificio sulla croce, alla sua resurrezione e alla sua ascensione in gloria. Alcuni non credono che lo Spirito Santo sia Dio e tutti affermano che la salvezza non è gratuita e che la fede non è sufficiente per ottenerla.
Terzo: non credono che l’uomo sia fondamentalmente peccatore e incapace di salvarsi . Affermano che può salvarsi con i suoi sforzi e il suo impegno. La “loro” salvezza si ottiene credendo al loro messaggio, operando per meritare il favore di Dio e, naturalmente, propagando le dottrine della loro setta particolare. La parola grazia, col significato di favore immeritato offerto da Dio al peccatore, è sconosciuta. L’uomo deve fare la sua parte per ottenere il favore di Dio.
Quarto: negano che il peccato, come trasgressione della legge di Dio, sia così grave da meritare una punizione eterna... (Se obbietti dicendo che Gesù ha più parlato di giudizio e di inferno che di beatitudine eterna, dicono che era solo un linguaggio simbolico!).
Quinto: negano che si possa essere sicuri della propria salvezza. Ed è logico: se la salvezza si merita con le opere, come si può essere sicuri di avere operato abbastanza? Se, invece, si è salvati per grazia, e non per opere, come insegna la Bibbia, la sicurezza è possibile. Non dipende da noi, ma dall’opera compiuta da Cristo e dalla misericordia di Dio in favore di chi si affida totalmente a Lui.
Sesto: affermano che solo nella loro setta c’è salvezza e che, in ogni modo, loro possiedono una “luce superiore” a quella di altri che si chiamano cristiani.
Adesso mi guardi sorpreso, perché ti è passato per la mente l’idea che anche la Chiesa romana sia una setta. Vedi un po’ tu!
Mio marito mi maltratta. Che fare?
Nel nostro pianeta, circa una donna su quattro è stata fisicamente abusata da un parente, di solito è stato il compagno o il marito o il padre. Negli Stati Uniti, secondo il Dipartimento della Giustizia, ogni 15 secondi una donna viene picchiata e circa 1.000.300 donne sono assalite da un maschio, spesso della famiglia, ogni anno. L’abuso può essere fisico, sessuale, emotivo, economico e psicologico e si determina fra persone di ogni razza, età e genere. E religione.
Penso che in Italia le cose non vadano meglio. Anche se una statistica accurata di questo tipo non è reperibile anche nei nostri ambienti evangelici, purtroppo il problema esiste. Forse in maniera meno accentuata, ma c’è.
Anni fa, ne parlavo con un vecchietto che sembrava convinto che fosse normale alzare le mani sulla moglie. “Sorella cara, la disciplina ci vuole con le donne! Se no, non capiscono” ha detto.
“Ma che siamo muli?”
“Abbastanza”.
Oggi, ufficialmente, nelle chiese, di questo lato della vita di famiglia non si parla, dato che i panni sporchi si lavano solo in famiglia e si cerca di mantenere una facciata rispettabile. Tanto più che, alle brutte, si può sempre divorziare. Ma proprio poche settimane fa, una donna me ne ha parlato al telefono. Non si trattava solo di botte, ma anche di insulti e di altre cattiverie verbali e psicologiche.
“Che devo fare? Io amo mio marito, ma non ce la faccio più... ”
“Digli che se continua, ne parlerai con chi è responsabile di guidare la tua chiesa.”
“L’ho già fatto, tempo fa, ma quello mi ha detto che devo portare pazienza. Sai, mio marito è anche un diacono molto stimato. Predica bene... e sarebbe uno scandalo.”
“Torna a parlargli, di’ le cose con chiarezza e senza parlare in parabole. Se non ti ascolta, informalo, e informa anche tuo marito, che ti rivolgerai agli altri responsabili della vostra comunità.”
“Ma mi dispiace... non voglio fargli del male.”
“Ascoltami bene: non si tratta di fare del male, ma di correggere un’ingiustizia. O fai qualcosa per affrontare la situazione o te ne stai buona e zitta a prenderti le botte e gli insulti. In più, non ne parli più con nessuno. Lamentandoti non risolvi niente e fai solo della maldicenza.”
Questa è la trafila biblica, indicata chiaramente dal Signore Gesù, e che mi sembra logica. Non ha lo scopo di ferire o di fare vendette, ma di aiutare chi fa del male e aiutarlo a cambiare.
È vero anche che ho conosciuto una donna che, non so per quanti anni, si è presa le botte (e una coltellata in faccia), sopportando con pazienza, sicura che il Signore avrebbe fatto ravvedere il marito. Il Signore l’ha esaudita e quell’uomo brutale ha accolto Cristo nella sua vita e è diventato un agnello. È stata una scelta di fede, che io rispetto. Ma non penso che sarebbe stata anche la mia.
Per i credenti ci sono gli anziani della chiesa, che hanno il dovere di intervenire, consigliare e correggere. Per i non credenti, i Carabinieri.
Che ne è della donna che mi ha telefonato? Aspetto un’altra telefonata.
Penso che in Italia le cose non vadano meglio. Anche se una statistica accurata di questo tipo non è reperibile anche nei nostri ambienti evangelici, purtroppo il problema esiste. Forse in maniera meno accentuata, ma c’è.
Anni fa, ne parlavo con un vecchietto che sembrava convinto che fosse normale alzare le mani sulla moglie. “Sorella cara, la disciplina ci vuole con le donne! Se no, non capiscono” ha detto.
“Ma che siamo muli?”
“Abbastanza”.
Oggi, ufficialmente, nelle chiese, di questo lato della vita di famiglia non si parla, dato che i panni sporchi si lavano solo in famiglia e si cerca di mantenere una facciata rispettabile. Tanto più che, alle brutte, si può sempre divorziare. Ma proprio poche settimane fa, una donna me ne ha parlato al telefono. Non si trattava solo di botte, ma anche di insulti e di altre cattiverie verbali e psicologiche.
“Che devo fare? Io amo mio marito, ma non ce la faccio più... ”
“Digli che se continua, ne parlerai con chi è responsabile di guidare la tua chiesa.”
“L’ho già fatto, tempo fa, ma quello mi ha detto che devo portare pazienza. Sai, mio marito è anche un diacono molto stimato. Predica bene... e sarebbe uno scandalo.”
“Torna a parlargli, di’ le cose con chiarezza e senza parlare in parabole. Se non ti ascolta, informalo, e informa anche tuo marito, che ti rivolgerai agli altri responsabili della vostra comunità.”
“Ma mi dispiace... non voglio fargli del male.”
“Ascoltami bene: non si tratta di fare del male, ma di correggere un’ingiustizia. O fai qualcosa per affrontare la situazione o te ne stai buona e zitta a prenderti le botte e gli insulti. In più, non ne parli più con nessuno. Lamentandoti non risolvi niente e fai solo della maldicenza.”
Questa è la trafila biblica, indicata chiaramente dal Signore Gesù, e che mi sembra logica. Non ha lo scopo di ferire o di fare vendette, ma di aiutare chi fa del male e aiutarlo a cambiare.
È vero anche che ho conosciuto una donna che, non so per quanti anni, si è presa le botte (e una coltellata in faccia), sopportando con pazienza, sicura che il Signore avrebbe fatto ravvedere il marito. Il Signore l’ha esaudita e quell’uomo brutale ha accolto Cristo nella sua vita e è diventato un agnello. È stata una scelta di fede, che io rispetto. Ma non penso che sarebbe stata anche la mia.
Per i credenti ci sono gli anziani della chiesa, che hanno il dovere di intervenire, consigliare e correggere. Per i non credenti, i Carabinieri.
Che ne è della donna che mi ha telefonato? Aspetto un’altra telefonata.
Era un tale buon affare...
Mi piace fare acquisti nei negozi di roba usata. Hanno una certa aria di nobiltà decaduta e non sono frequentati da persone esigenti (quella con la puzza al naso, per capirci). Sarà perché ci trovo roba più adatta a donne della mia età, sarà perché puoi scegliere in santa pace e non devi provarti un vestito sotto gli occhi di una commessa volonterosa che ti dice che la giacca più eccentrica ti sta perfetta, anche se ti pende da tutte le parti come una tenda o è penosamente attillata.
E non mi piace, come mi è successo, dire la mia taglia e vedermi portare un indumento di taglia più grande e sentire il commento: “Ma lei è una falsa grassa!” Ma come si permettono?
La roba usata mi piace anche perché costa meno di quella nuova e il mio sangue genovese gode nel trovare roba buona a poco prezzo. Soprattutto in questi tempi di crisi in cui tutti dicono di dover risparmiare e di non riuscire a arrivare alla fine del mese.
Ma è proprio di questo che voglio parlare. Dicono che non ce la fanno e poi hanno sempre roba nuova addosso. “Era un buon affare... L’ho comprato dai cinesi, solo pochi euro... Non potevo dire di no, mi piaceva troppo... Mica puoi andare vestita con dei colori che non vanno di moda... Sai, se non hai gli stivali non sei nessuno... Farò risparmi il mese prossimo...” Così, cinque euro qui, dodici lì, e quindici da un’altra parte, un po’ dai cinesi e un altro po’ dai saldi, si rimane all’asciutto.
Come rimediare?
A me pare che dobbiamo dare un’onesta guardata al nostro armadio e ai nostri cassetti e chiederci: di quanti maglioni ho bisogno, di quante magliette, camicie, paia di scarpe, pantaloni, giacche? Questo pull non lo indosso da più di un anno, perciò è chiaro che non ne avevo bisogno: devo fare più attenzione. A chi lo potrei regalare?
Una mia conoscente è sempre molto elegante, ma veste di solito sul verde, marrone, beige. Come mai? Non le piacciono gli altri colori? No, lo fa allo scopo di non essere costretta a acquistare altri accessori di cui non ha realmente bisogno.
“Sei saggia” le ho detto.
“Lo faccio perché così posso adottare più di un bambino a distanza” mi ha detto. E brava lei!
E questo si collega a un altro discorso sulle nostre priorità.
Se faccio a meno di una maglietta nuova, posso dare di più alla chiesa e alle missioni.
Se invece di comprare un cibo costoso, perché fuori stagione, compro quello che si produce al momento, posso contribuire a qualche progetto utile.
Se prendo l’abitudine di spegnere la luce quando esco da una stanza, se faccio il pieno nella lavatrice, anziché caricarla solo a metà, se non spreco l’acqua, alla lunga, contribuirò al bilancio famigliare e rimarrà qualche soldo per realizzare qualcosa che mi sta a cuore.
Se vado a piedi a fare la spesa e non prendo la macchina anche per andare a comprare il latte all’angolo della strada, risparmio sulla benzina. Se... se... se... I “se” non servono a nulla se si pensano solamente. Ma servono se diventano azioni.
E non mi piace, come mi è successo, dire la mia taglia e vedermi portare un indumento di taglia più grande e sentire il commento: “Ma lei è una falsa grassa!” Ma come si permettono?
La roba usata mi piace anche perché costa meno di quella nuova e il mio sangue genovese gode nel trovare roba buona a poco prezzo. Soprattutto in questi tempi di crisi in cui tutti dicono di dover risparmiare e di non riuscire a arrivare alla fine del mese.
Ma è proprio di questo che voglio parlare. Dicono che non ce la fanno e poi hanno sempre roba nuova addosso. “Era un buon affare... L’ho comprato dai cinesi, solo pochi euro... Non potevo dire di no, mi piaceva troppo... Mica puoi andare vestita con dei colori che non vanno di moda... Sai, se non hai gli stivali non sei nessuno... Farò risparmi il mese prossimo...” Così, cinque euro qui, dodici lì, e quindici da un’altra parte, un po’ dai cinesi e un altro po’ dai saldi, si rimane all’asciutto.
Come rimediare?
A me pare che dobbiamo dare un’onesta guardata al nostro armadio e ai nostri cassetti e chiederci: di quanti maglioni ho bisogno, di quante magliette, camicie, paia di scarpe, pantaloni, giacche? Questo pull non lo indosso da più di un anno, perciò è chiaro che non ne avevo bisogno: devo fare più attenzione. A chi lo potrei regalare?
Una mia conoscente è sempre molto elegante, ma veste di solito sul verde, marrone, beige. Come mai? Non le piacciono gli altri colori? No, lo fa allo scopo di non essere costretta a acquistare altri accessori di cui non ha realmente bisogno.
“Sei saggia” le ho detto.
“Lo faccio perché così posso adottare più di un bambino a distanza” mi ha detto. E brava lei!
E questo si collega a un altro discorso sulle nostre priorità.
Se faccio a meno di una maglietta nuova, posso dare di più alla chiesa e alle missioni.
Se invece di comprare un cibo costoso, perché fuori stagione, compro quello che si produce al momento, posso contribuire a qualche progetto utile.
Se prendo l’abitudine di spegnere la luce quando esco da una stanza, se faccio il pieno nella lavatrice, anziché caricarla solo a metà, se non spreco l’acqua, alla lunga, contribuirò al bilancio famigliare e rimarrà qualche soldo per realizzare qualcosa che mi sta a cuore.
Se vado a piedi a fare la spesa e non prendo la macchina anche per andare a comprare il latte all’angolo della strada, risparmio sulla benzina. Se... se... se... I “se” non servono a nulla se si pensano solamente. Ma servono se diventano azioni.
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