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A casa nostra, quando eravamo ancora tutti insieme, eravamo divisi in due gruppi: tre puntuali e tre ritardatari. Non faccio nomi, ma una dei ritardatari ero io.
Non so perché, ma mi succedeva (e qualche volta mi succede ancora) che tutto andava a pennello e come l’olio fino a un certo punto. Andavo di pari passo con l’orologio e tutto filava. A un certo punto l’orologio si metteva a galoppare e io mi trovavo a dover fare ancora almeno tre cose prima della scadenza che mi ero proposta e cominciavo a perdere colpi.
Non ritardavo di mezzora come succede ad alcuni che arrivano per abitudine trenta minuti dopo che è cominciato il culto della domenica mattina. Ma cinque o dieci minuti, sì. Quelli me li permettevo. Mi giustificavo pensando ai 10 minuti accademici dei professori d’università. Se lo potevano fare loro...
Però, a un certo punto, ho cominciato ad avere la coscienza sporca e ho deciso di mettermi delle mète precise per cambiare. Ho capito almeno tre cose. Eccole.
Facevo delle liste troppo lunghe e poco realistiche di cose da compiere in un lasso di tempo troppo breve. Non calcolavo gli imprevisti, tipo autobus in ritardo, ingorghi di traffico o telefonate dell’ultimo momento. E, soprattutto, un piccolo ritardo non mi sembrava per nulla importante.
Cosa mi ha aiutato? Un po’ il fatto che facevo dispiacere a mio marito, il quale apparteneva al gruppo dei puntuali (e per niente al mondo volevo, e voglio ancora, fargli dispiacere), poi che diventavo nervosa e agitata e non mi piacevo se mi vedevo allo specchio con la faccia tesa e tirata. Infine, ho capito che arrivare in ritardo è da perfetti maleducati.
Mi ha aiutata anche una piccola frase: “La puntualità è la cortesia dei re”. Dopo tutto, io sono una delle figlie del Re dei re. Noblesse oblige.
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